da "AURORA" n° 1 (Dicembre 1992)

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1943 - 1993
RSI - Cinquanta anni, ma non li dimostra

Gianni Benvenuti

Nel settembre del 1943, all’indomani del tradimento del re e di Badoglio e della liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran sasso, nasce il Partito Fascista Repubblicano.
Le motivazioni che spinsero Mussolini ed i suoi seguaci a tale passo sono molteplici.
Innanzitutto il desiderio di mantenersi fedele alla parola data con il Patto d’Acciaio. 
Ma non secondaria la preoccupazione di risparmiare l’Italia da una comprensibile e non certo tenera occupazione tedesca. 
Mussolini era infatti l’unica persona in Italia verso la quale Hitler provava rispetto, amicizia e simpatia e quindi in grado di risparmiare all’Italia molti lutti e dolori. 
Mussolini sapeva di porsi come muro protettivo davanti al suo popolo fino alla tragica fine. 
Fu un ruolo amaro e triste, ma altamente dignitoso. 
Vi era poi l’intenzione di non ristabilire il vecchio regime fascista, ma di avviare la nascita di un fascismo libero da compromessi con la borghesia e soprattutto caratterizzato marcatamente in senso sociale. 
E qui è opportuno aprire una parentesi. 
Quando si dice che la RSI intendeva caratterizzarsi socialmente non bisogna dimenticare però che in precedenza fu proprio il regime fascista che avviò e dette impulso alla edificazione di quello stato sociale che oggi i paladini dell’antifascismo stanno vergognosamente smantellando con il proditorio attacco alla sanità, alla tredicesima, alla casa, alla casa, alla scuola, alla occupazione. 
Il programma sociale della RSI era sicuramente avanzatissimo, ma occorre dire che esso non era altro che l’ accelerazione di quanto il fascismo in precedenza aveva realizzato e ipotizzato. 
Si può dire che si tratta di un brusco ritorno alle origini. 
Negli anni Venti e Trenta lo Stato corporativo aveva spesso abdicato ad una seria azione di controllo lasciando troppi margini di libertà ai datori di lavoro che ne avevano approfittato più del dovuto. 
Ecco perché lo stesso Mussolini dichiarò solennemente: «Il lavoro non è più strumento del capitale, ma il capitale è strumento del lavoro».
Tutti i servizi di interesse pubblico avrebbero dovuto essere gestiti direttamente dallo Stato. 
Al tempo stesso, nelle aziende statali, parastatali e private i rappresentanti dei tecnici e degli operai avrebbero cooperato alla direzione delle aziende stesse, alla fissazione del salario, alla ripartizione degli utili.
Ci troviamo così di fronte a quella che fu chiamata socializzazione.
Nel giro di poco tempo si passò dalle parole ai fatti. 
Fu così che vennero socializzate la FIAT, l’Alfa Romeo, l’Ansaldo, la Mondadori, la Zanichelli, la UTET, ... 
Ciò provocò, e questo la dice lunga, forti opposizioni da parte del mondo imprenditoriale.
Si trattava sicuramente di un primo, decisivo e duro colpo al sistema capitalistico. 
Ma la rivoluzione sociale della RSI non si fermava qui
In materia di casa fu sancito, nei diciotto punti di Verona, che essa non era soltanto un diritto di proprietà, ma un diritto alla proprietà. 
Le famiglie dei lavoratori di ogni categoria avrebbero dovuto divenire proprietari della propria abitazione mediante la costruzione di nuove case o il graduale riscatto delle esistenti. 
Venne sancito un principio generale assai importante:
«L’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto»; principio altamente sociale e rivoluzionario che fa venire in mente l’aberrante e disastrosa legge sull’equo canone che l’Italia antifascista ha saputo partorire negli anni ’70 e che tanti guai ha procurato sia agli inquilini che ai proprietari, aggravando il problema casa, senza risolverlo.
Con i diciotto punti di Verona, base del programma della RSI, si andava speditamente e senza mezze misure, verso l’abolizione del sistema capitalistico interno, e si intraprendeva, al tempo stesso, la lotta contro le plutocrazie mondiali. 
Un programma chiaro e sicuramente all’avanguardia. 
Teso a superare i guasti e le contraddizioni del sistema collettivistico e di quello capitalistico.
Di estrema attualità nel lontano 1943, quando incombeva il pericolo marxista. 
Di estrema attualità ai giorni nostri quando, caduto vergognosamente il socialismo reale, il capitalismo selvaggio e distruttore sembra avere il sopravvento.
Ecco perché, a cinquanta anni di distanza, quanto affermato nei diciotto punti del Manifesto di Verona rimane imprescindibile punto di riferimento per tutti coloro che non intendono soccombere alla definitiva consacrazione di una società basata sullo sfruttamento, sull’ingiustizia, sull’egoismo, sul materialismo; né, tantomeno, intendono soccombere al rullo compressore di quel mondialismo che ha il suo cardine nel supercapitalismo americano.

Gianni Benvenuti

 

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