da "AURORA" n° 1 (Dicembre 1992)

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Disperazione e speranza

Francesco Moricca

Ho letto e apprezzato il n° 4 di "Aurora", capitatomi avventurosamente per le mani in circostanze abbastanza normali e però anche straordinarie data la mia avversione, ormai quasi pregiudiziale, per giornali e giornalisti, per non dire per tutta la carta stampata che sappia in qualche modo di attualità.
Non presto più attenzione a tutto ciò che capita all'esterno, perché ho capito che nulla può più accadere se non in peggio.
L'articolo del camerata Ostidich, per la sua disincantata lucidità, conforta questa mia convinzione, e questo mio disinteresse per la cosiddetta politica è, se vogliamo, canagliesco. Per cui in ciò almeno mi sento di appartenere a quel vero popolo italiano di cui parla il camerata, popolo ormai più né povero né onesto, ma degno appunto solo del più gelido disprezzo.
Questo basti per intenderci: non sono un moralista e i moralisti mi fanno più schifo dei delinquenti comuni.
Non recito il mea culpa perché duemila anni di cristianesimo dimostrano in modo palmare che servono a ben poco se non addirittura a renderci peggiori.
Se dunque mi rifiuto come persona nel senso religioso ed etico del termine, sussiste di me in vero soltanto la consapevolezza di ciò che sono e di ciò che non sono, la lucidità di una coscienza che vorrebbe capire e fare , per quanto, più che della mia intelligenza, dubiti dell'intelligenza in quanto tale; di quella intelligenza illuministica di cui siamo tanto e nostro malgrado impastati che non a torto dobbiamo sospettare persino delle critiche e dei dinieghi che ad essa rivolgiamo anche nella miglior buona fede.
In questa prospettiva i filosofi del pensiero debole possono anche aver ragione.
Ma essi giungono a conclusioni oggettivamente canagliesche, perché la destituzione di qualsiasi valore normativo del pensiero conduce ad una etica del tornaconto personale o dell'opportunità politica che senza dubbio fa il gioco di quelle forze che hanno reso il pensiero debole, le forze del mondialismo e dell'usurocrazia che si farebbe bene a individuare, senza reticenze, nel sionismo. Il peggio, poi, è che questi sedicenti filosofi costruiscono sulla base della debolezza del pensiero una sorta di metafisica misticheggiante della debolezza in quanto tale, una sorta di neo-esistenzialismo che conferisce dignità al dolore dell'impotenza. Il che è semplicemente spregevole.
Bisogna imparare a disprezzare il dolore dell'impotenza, prima di tutto il proprio dolore per la propria impotenza.
Bisogna imparare ad essere cattivi con se stessi, se si vuole essere duri ma non cattivi con gli altri.
Il mio disimpegno politico e la mia disperazione che non dimentica se stessa, che non cerca alibi e distrazioni, che rifiuta la consolazione di una fede quale che sia, nasce da queste premesse, da una lucidità che si confronta con la opacità e ne conosce le ragioni.
Ritengo che chi faccia politica con le carte in regola (come non fa la totalità dei nostri politici) queste cose non dovrebbe ignorarle, sia nel senso di non conoscerle proprio, sia nel senso di tacerle come verità assai scomode.
Il senso di queste considerazioni è che, dati i tempi, tutto diventa lecito per tutti, perché gli stessi princìpi della logica e dell'etica tradizionali si sono oggettivamente capovolti, talché la loro riaffermazione deve, al momento, manifestarsi attraverso la loro negazione. Se ciò è potuto accadere a livello di massa -l'incanaglimento generale-, ed è avvenuto per l'azione consapevole dell'usurocrazia mondiale con cui hanno finito per coincidere gli interessi delle borghesie nazionali e del sionismo, non si vede perché la Destra non debba consapevolmente reagire creando una nuova prassi politica completamente sganciata dall'etica conservatrice -che è quanto dire quella cristiana- diffondendo e propagandando ciò che si potrebbe definire un immoralismo moralizzatore. Col che intendiamo appunto una rinnovata sensibilità etica nei confronti del male, una rinnovata coscienza della rilevanza del male e della responsabilità soggettiva e non collettiva. Se oggi il male si compie come se nulla fosse, per cui viene negato perfino il gusto, perverso ma reale, del compierlo scientemente, è chiaro che solo predicando il male -e non il bene che di fatto è oggi omologato al male- si può ricostruire la premessa per una rifondazione dell'etica, cioè per un ritorno agli eterni princìpi di un etica che conosce soltanto chiare contrapposizioni e non ammette soluzioni mediane da casistica gesuita. I discorsi da pulpito o da confessionale, di cui si compiace tale nostra alta dirigenza politica democristiana ben accetta persino ai laici più sfegatati, potevano avere qualche utilità un tempo, quando esisteva ancora una sensibilità etica. Oggi che essa non esiste più, sono inutili, controproducenti e anzi fortemente sospetti più per chi li fa che per chi li ascolta.
Per me l'esperienza del male è coincisa col disimpegno politico, che ho sofferto senza cedere ad inautentici imperativi della coscienza, cristiana o kantiana che si voglia. Essere di destra per me è coinciso con questo rifiuto di essere come l'altro avrebbe voluto che fossi, ma anche come avrebbero voluto gli altri, che anzi ho imparato a considerare più come nemici che come amici nella misura in cui anche portatori delle mie stesse incertezze e contraddizioni. Sotto questo aspetto il disimpegno ha avuto una funzione positiva, perché il rischio di far politica senza una preventiva preparazione interiore adeguata consiste appunto nel riversare tanto nel gruppo quanto nella sua prassi concreta le proprie insufficienze e manchevolezze, che così invece di colmarsi si sommano a quelle altrui con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti. È questa una caratteristica dei gruppi della Sinistra extraparlamentare sessantottesca e dei loro derivati e non è escluso che lo sia in larga misura anche di quelli della Destra, visti i risultati che la contestazione ha ottenuto e che, lungi dall'essere stati veramente eversivi del sistema, sono stati invece largamente funzionali, soprattutto perché tollerati e anzi assai ben accettati in quanto, facendo piazza pulita del conservatorismo borghese, scalzavano di fatto ogni residuo, sia pur degenerato, dei valori tradizionali aprendo la via alla diffusione di massa di uno stile di vita edonista e consumista a tutto vantaggio di quel disegno mondialista che oggi appare totalmente vincente, nonostante la grave crisi strutturale che pure sta attraversando.
Ciò per cui Destra e Sinistra extraparlamentari sono accomunate nella sconfitta rimanda alla comune origine rivoluzionaria di ciò che storicamente si definisce come Destra e Sinistra, vale a dire al carattere totalitario della concezione del mondo. Se poi storicamente si sono avute due concezioni del mondo antitetiche, ciò è dipeso dall'esaurirsi della spinta rivoluzionaria e dal costituirsi dei partiti in cui l'elemento compromissorio e bassamente politico, economicistico ha preso il sopravvento, donde appunto l'irrigidirsi delle ali estreme con la costituzione del leninismo da un lato e del fascismo dall'altro. A riprova di ciò si potrebbe citare l'origine socialista massimalista di Mussolini o l'interesse manifestato da Lenin per D'Annunzio, l'impresa fiumana e la Costituzione del Carnaro.
Se si rimette al primo posto la vocazione rivoluzionaria e ove vi sia una disponibilità reale in tal senso, le contrapposizioni storiche di Destra e Sinistra possono agevolmente, in linea di principio, essere superate; superate nella misura in cui si pone al primo posto l'ideale dell'Uomo Nuovo, che è in definitiva l'Uomo Antico; colui che si sente parte organica di una totalità ed è disposto, al limite, a sacrificare se stesso per la totalità, intesa come il sociale, ma anche ed in modo eminente, come ciò che è al di là dell'uomo, non solo delle sue insufficienze e debolezze attuali, ma anche di ciò per cui egli è forte e che è tuttavia ancora poco rispetto a ciò che potrebbe essere rispetto all'Assoluto.
Il fallimento dei gruppi sessantotteschi ha prefigurato il fallimento e l'inconsistenza stessa dell'idea di partito, poiché ogni partito, prima di degenerare al livello attuale, fu un gruppo in cui, in vario modo, ha avuto modo di esprimersi la logica alienante del sociale in ciò che il termine significa naturalmente luogo del gregge, dove le pecore si uniscono allo scopo più o meno dichiarato di diventare lupi.
E pertanto occorre rifiutare nella maniera più categorica tanto l'idea di partito, quanto, a maggior ragione, nell'attuale fase storica, quella di gruppo. L'idea di movimento può andare benissimo, ma a patto che nella sostanza ci si tenga ben lontani da ciò che implica in negativo il gruppo, essendo essenziale nel concetto di movimento il convergere in direzione di una determinata prassi di un certo numero di individualità diverse , autonome e gelose della propria autonomia proprio perché sempre consapevoli del rischio, anche in termini puramente psichici, della compromissione gregaria e perciò tendenzialmente partitica.
In questo senso l'apertura, o piuttosto la riapertura, verso la Sinistra rivoluzionaria (si pensi al «fascismo rosso» e a personalità, sia pure controverse, come Berto Ricci o i fratelli Strasser) e il farsi carico a destra di problematiche e lotte che tradizionalmente furono monopolio della Sinistra (si pensi alle attualissime teorizzazioni di Pino Rauti) non può considerarsi un mero espediente tattico, quasi che gli antichi avversari dovessero allearsi per opportunità contro il comune nemico vincente, salvo poi riprendere le ostilità quando l'emergenza fosse superata.
La sapienza tradizionale ci dice che alla fine di un ciclo la stessa polarità di destra e sinistra (intese come le due vie dell'ascesi superiore) tende a riproporsi quale fu all'origine del ciclo, prima che iniziasse quella degenerazione la cui ultima manifestazione fenomenica è appunto costituita dalla comparsa dei partiti come espressione di interessi materiali irriducibilmente divergenti, non solo della Destra e della Sinistra, ma anche della tendenzialmente infinita gamma dei partiti che si collocano fra i due principali. Quella polarità, cioè, viene a dissolversi nella bruta partitocrazia in cui sparisce in sede parlamentare ogni differenza sostanziale fra Destra e Sinistra, essendo tutti indistintamente accomunati dal puro interesse economico. Ma, per un altro verso, si spiritualizza come polarità metafisica, quale appunto fu all'inizio del ciclo, e si riduce alla polarità di contemplazione e azione in direzione di un ritorno a quella dualità di funzioni politiche (in senso alto) che è propria al sacerdote-filosofo e al guerriero nello stato ideale quale è descritto da Platone e dal nostro Tommaso Campanella, senza citare ciò che al riguardo è detto presso Autori appartenenti a culture diverse dalla nostra e perciò meno conosciuti. Vale la pena di ricordare che la polarità di destra e sinistra è all'inizio del ciclo molto sui generis, almeno per la nostra mentalità moderna e positivistica, poiché sottende una unità di intenti sia pure nella diversità e se si vuole anche opposizione delle funzioni proprie al sacerdote e al guerriero.
Questa unità di intenti si riferisce all'imposizione della legge dello spirito su tutto ciò che non lo è, e che è lecito definire come materia solo se con tale termine si intende la materia alienata nel processo di produzione capitalistico, sia come merce sia come valore astratto, come 
L'idea stessa di rivoluzione implica il concetto di un ritorno ad un ordine immanente che è stato arbitrariamente violato, e in questo senso la concezione leninista non esclude del tutto quella mussoliniana di rivoluzione restauratrice ma non conservatrice; né si tratta di distinzioni verbali, perché quello stato sociale che oggi, in Italia, si vuole e si sta smantellando è stato creato dal Fascismo. Se l'idea fascista di rivoluzione è inequivocabilmente e integralmente spiritualistica, non si può tuttavia negare che Marx e lo stesso Lenin abbiano della giustizia sociale un'idea che va ben oltre il mero criterio di giustizia distributiva. Qualunque vero comunista sarà indignato solo dal sospetto di essersi battuto in fondo unicamente per avere le stesse cose di cui godono i ricchi, perché, in tale caso, non vi sarebbe nessuna differenza di valore fra lui e il nemico di classe e la rivoluzione non sarebbe che una comune crassazione che si distinguerebbe solo nella tecnica e per le dimensioni dell' espropriazione. Che poi molti comunisti si siano serviti del partito e della rivoluzione sociale per arrampicarsi con successo è un'altra faccenda e non tocca affatto le questioni di principio che stiamo discutendo.
Il crollo della Sinistra rivoluzionaria sul piano mondiale e nazionale può essere, nonostante tutto, ritenuto una fortuna perché non è morta la rivoluzione, ma i finti rivoluzionari ed i profittatori.
Così questo repulisti provvidenziale della nemesi storica è diventato occasione per la ricomposizione del fronte rivoluzionario al di là della polarizzazione partitica di cui si diceva prima. Ora si vedrà chi è veramente rivoluzionario e se invece l'idea rivoluzionaria è stata un pretesto per secondi fini o una semplice malattia infantile come il morbillo e la scarlattina.
Ma, tenendo ben presente quanto ci dice il camerata Ostidich, non facciamoci troppe illusioni sulle potenzialità del popolo. Anche i veri comunisti hanno bisogno di sentirselo ripetere e ne hanno, forse, più bisogno di noi. Il popolo non può essere rivoluzionario senza la guida di una aristocrazia rivoluzionaria. Per sua natura è portato alla ribellione e non è capace di andare oltre. È poi dispostissimo a tradire accontentandosi, a volte, di un pugno di farina o anche solo di vaghe promesse. È il godimento che lo appaga, anzi la semplice illusione del godimento. Per altro, da quarant'anni a questa parte, è stato opportunamente addestrato a pensare solo in termini di godimento spirituale, laici e non laici che siano, tutti tesi in ambigui amplessi universalistici in cui occultano i loro istinti di rapina e la loro irriducibile angoscia esistenziale, un angoscia che non nasce dalla sete di assoluto, ma soltanto dal più completo vuoto interiore.
Per noi il popolo deve cessare di essere quello che, purtroppo, è diventato. Noi non vogliamo essere plebe e non tolleriamo più che il popolo sia trattato come plebe. Non tolleriamo più che sia trattato come una plebe ben pasciuta; perché questo è il colmo, il massimo dell'ipocrisia e il massimo dell'oltraggio che si possa fare ad un uomo: privarlo della coscienza della sua depravazione rimpinzandogli il ventre e ottundendogli la mente.
Per noi anche l'aristocrazia è popolo, serve il popolo e non se stessa.
Ma l'aristocrazia è morta ed è forse impossibile richiamarla alla vita. 
Per quanti sforzi si facciano, noi stessi troviamo, in noi stessi, un ostacolo che pare insormontabile. 
Quanto potremo ancora sopportare questo sforzo interiore contro il nemico interiore?Questa disperazione ha però una controparte positiva perché è la grande scuola della solitudine.
Rifiutare le illusioni consolatorie del gruppo significa imparare a sentirsi soli ed autosufficienti e scoprire di sentirsi ciò nonostante gli obblighi verso gli altri.
Come , appunto, accadeva ai Cavalieri del Medioevo.
Perciò l'aristocrazia medioevale, pur non essendo un partito e non avendo nemmeno un carattere nazionale in virtù del suo ascetismo, potè tuttavia governare meglio di qualsiasi partito moderno. Essa deve per noi costituire il modello ideale per orientarci in una battaglia che deve essere combattuta prima all'interno di noi stessi e poi all'esterno, come battaglia politica e, al limite, come guerra guerreggiata.

Francesco Moricca

 

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