da "AURORA" n° 2 (Gennaio 1993)

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Calabria amara

Francesco Mastroianni

Gli sviluppi dell’inchiesta sull’assassinio di Lodovico Ligato, con l’arresto di esponenti della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista, ha portato nuovamente in primo piano le collusioni fra potere politico e criminalità organizzata in Calabria.
«Il quadro disegnato dai partiti» -scriveva la "Gazzetta del Sud"- «è terribilmente chiaro. La morte di Ligato si collega alla lotta per il predominio, non soltanto territoriale, tra le cosche, diventate come schegge impazzite dopo la morte di Paolo De Stefano e l’avvio di una guerra senza quartiere. Lodovico Ligato era tornato, la sua fede era rimasta destefaniana, i suoi avversari politici, secondo il teorema accusatorio, erano passati con i gruppi Serraino-Rosmini-Condello, quelli che vengono considerati i vincenti».
«Quando Ligato decide di tornare a Reggio in maniera stabile, dopo le dimissioni da Presidente dell’Ente FF.SS., le cose ormai non stavano più come le aveva lasciate. Il suo rivale Francesco Quattrone era diventato segretario regionale della DC e i socialisti di Giovanni Palamara erano presenti massicciamente laddove c’era da gestire qualcosa».
«Ligato , quindi, si scontrò con questa nuova realtà, nessuno era più disposto a subire, come aveva fatto per anni, i metodi arroganti dell’ex giornalista assurto in pochi anni ai vertici della DC calabrese. La sua preoccupazione, pertanto, era quella di trovare un’intesa con i socialisti e per questo aveva cercato il contatto con Giacomo Mancini ...»
Questa descrizione dello scenario in cui matura il delitto merita delle considerazioni preliminari:
1) Ligato era un personaggio arrogante assurto ai vertici della DC non solo calabrese;
2) Ligato era tornato in Calabria con l’intenzione di essere ancora protagonista della vita politica e riteneva, quindi, che lo scandalo delle FF.SS., in cui era uno dei maggiori accusati, non sarebbe stato un impedimento. Ciò vuol dire che essere coinvolti in scandali e ruberie non è, nella Democrazia Cristiana, motivo di accantonamento politico.
3) Poiché i suoi avversari all’interno della DC controllavano la segreteria regionale, egli cercava di accordarsi con i socialisti. Riteneva, quindi, che il suo modo di agire, le sue intenzioni, il suo coinvolgimento nello scandalo delle FF.SS. non sarebbero affatto dispiaciuti nemmeno ai socialisti.
4) Ligato era un "destefaniano" mentre i suoi avversari che non erano gli altri partiti erano schierati con altri clan mafiosi. Se ne desume che all’interno della DC -almeno di quella reggina- lo scontro non era politico, ma esclusivamente mafioso.
Per quanto possano sembrare drammatiche, queste considerazioni sono, agli occhi di chi in Calabria segue le vicende politiche, banali.
Le connivenze fra criminalità, massoneria e politica sono note a tutti.
Giovanni Palamara, il consigliere regionale socialista coinvolto nel delitto, è stato rinviato a giudizio per aver stretto rapporti con le cosche del Rosarnese per avere voti in cambio di favori. Insieme a lui, sono stati rinviati a giudizio un altro consigliere regionale socialista, Antonio Zito ed alcuni consiglieri comunali, mentre la giunta bicamerale ha rigettato le richieste di autorizzazione a procedere contro il senatore Sisinio Zito (fratello di Antonio e massone) e contro il sottosegretario di Stato Sandro Principe, entrambi del garofano.
Palmara aveva avuto anche altri guai con la giustizia, tanto che era stato arrestato e successivamente rilasciato proprio mentre alla Regione Calabria si formava una giunta di sinistra che poteva contare sui voti determinanti dello stesso Palmara e di un altro personaggio chiacchierato, il repubblicano Araniti, cugino di Santo Araniti, ritenuto un boss della ndrangheta.
Spregiudicato, anche in questa occasione, il comportamento dell’allora PCI, che, dopo aver a lungo accusato Araniti di collusioni mafiose, si accordava con lo stesso per averne il voto determinante.
L’inchiesta, condotta dalla Procura di Palmi su armi e droga, ha portato al rinvio a giudizio di Palamara, Zito e altri ancora. Tra gli altri spicca il nome di Licio Gelli imputato di associazione a delinquere di tipo mafioso.
Ecco allora che compare la massoneria.
A proposito di legami fra politica e massoneria, in un intervista pubblicata su "Avvenimenti", il dott. Angelo Monaco, medico di San Mango d’Aquino (CZ), ha dichiarato di essere stato espulso dalla loggia massonica di appartenenza (lui che aveva fondato la loggia di San Mango) per aver denunciato un fratello.
Il fratello altri non sarebbe che il consigliere regionale socialista (ex assessore regionale ed ex-presidente della Provincia) Leopoldo Chieffallo, accusato dallo stesso medico di averlo costretto moralmente, avvalendosi del suo potere massonico, a rilasciare certificati attestanti false cecità di circa il 10% degli elettori del suo comune (di cui Chieffallo è stato anche sindaco), perché potessero votare accompagnati da persone fidate.
Chieffallo è stato poi amnistiato ed è anche diventato Presidente del Collegio dei Venerabili che controlla tutta la Calabria massonica.
Nelle successive elezioni, comunque i numerosissimi ciechi di San Mango erano tutti, o quasi tutti, miracolosamente guariti.
Il fatto più appariscente, però, è che in Calabria i politici coinvolti in fatti illeciti non perdono consensi elettorali. Anzi, li aumentano.
Palamara, uscito di galera, è stato ricandidato per il PSI nelle elezioni regionali del ’90 ed ha aumentato i suoi consensi del 20%; nelle stesse elezioni, Chieffallo ha avuto un autentico boom elettorale. Non a caso la Calabria è la regione più socialista d’Italia!
Anche nelle elezioni del 13 dicembre scorso a Reggio Calabria, nonostante il massiccio spostamento di voti, già dopo i primi risultati il "Corriere della Sera" scriveva «... in periferia, dove le cosche sono padrone, il voto sotto controllo della mafia continua a premiare sostanzialmente la vecchia maggioranza. DC e PSI in testa».
Larghi consensi delle ambasciate traverse sarebbero poi andati anche al PSDI, arrivato a ben sei seggi.
Tutto ciò farebbe pensare che i calabresi siano tutti, o quasi, mafiosi e massoni. Non è così.
In Calabria si vive in una situazione tutta particolare. Se si vuole trovare un lavoro bisogna trovare la chiave giusta; se si è invalidi bisogna sudare e aspettare anni per vedersi riconosciuto il proprio stato, ma se non lo si è e si ha la chiave giusta, è presto fatto. E l’invalidità civile serve per trovare lavoro.
C’è poi un altro aspetto del problema lavoro che spiega anche perché i calabresi cercano sempre il posto nella pubblica amministrazione: il lavoro presso i privati è quasi sempre sottopagato. La busta paga, quando l’assunzione è regolare, viene redatta regolarmente, ma al lavoratore viene corrisposto un salario di molto inferiore; spesso soltanto la metà. Oppure viene calcolato un compenso per quindici giorni lavorativi -con corrispondente versamento dei contributi assicurativi- mentre il dipendente ha lavorato tutto il mese.
In Calabria la gente sperimenta ogni giorno, sulla propria pelle, che rivolgersi alle istituzioni per tutelare i propri diritti significa quasi sempre perdere tempo e denaro.
Se a Reggio Calabria le inchieste di alcuni magistrati coraggiosi sulla corruzione e sui legami fra politica, mafia e massoneria (legami vecchi e noti) possono ridare fiducia a qualcuno (... ma quanti attacchi al giudice Cordova!), è singolare che a Lamezia Terme, quarta città della Calabria per numero di abitanti, dove il Consiglio Comunale è stato sciolto per mafia e dove i morti di mafia (senza colpevoli!) si contano a decine, non vi sia uno straccio d’inchiesta sulle collusioni. Eppure, secondo la relazione del Ministro Scotti, «(...) le relazioni parentali e di amicizia» di consiglieri democristiani, socialisti e socialdemocratici erano «sicuro segno (...) di collegamenti con la malavita organizzata».
Allora la gente, non fidandosi delle istituzioni, preferisce rivolgersi al politico o all’amico dell’amico che assicura il suo interessamento e che alle successive elezioni verrà a chiedere di ricambiare, se il favore è già avvenuto, o di favorire l’amico che poi si interesserà della questione.
E la sfiducia e lo scambio non riguardano soltanto i ceti culturalmente più deboli. Quanti sono i laureati e i diplomati che rinunciano a presentare ricorso o denunzia contro le commissioni giudicatrici dei concorsi o contro le malefatte di presidi e provveditorati agli studi perché sanno che non ne caveranno niente? E le elezioni per gli organi collegiali della scuola -che dovrebbe essere luogo di educazione- sono forse diverse e più pulite delle elezioni amministrative o politiche?
Per concludere voglio raccontare un episodio, di cui sono stato vittima, che dimostra come -almeno in Calabria- le istituzioni non difendono il cittadino, ma il potere.
In data 9 maggio ’89, inviai al Prefetto di Catanzaro un ricorso contro l’applicazione dell’imposta per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani nel mio comune di residenza di allora, Conflenti. Passarono molti mesi e -non avendo ricevuto risposta- mi presentai al competente ufficio dove un funzionario diede incarico di ricercare la pratica e mi invito a ritornare dopo qualche giorno.
Dopo qualche viaggio a vuoto, finalmente, la pratica fu ritrovata: era pervenuta il giorno 11 maggio ’89, ma fu protocollata solo dopo il ritrovamento, il 24 ottobre ’90. Dopo ben 17 mesi!
Fui invitato a ritornare dopo qualche settimana. Ritornai e il funzionario cercò di convincermi che competente a decidere il ricorso era l’Intendenza di Finanza. Andai dall’Intendenza e mi fu detto che competente era il Prefetto. Finalmente trovammo una circolare del Ministro Formica in cui si chiariva che per i ricorsi presentati entro il 31 dicembre ’90 era competente a decidere il Prefetto.
Il 26 novembre ’90, la Prefettura scrisse al Sindaco di Conflenti per chiedere controdeduzioni al ricorso. Il sindaco rispose il 22 dicembre successivo confermando quanto io avevo scritto.
Tornai allora i Prefettura per chiedere la decisione del ricorso, ma il funzionario mi disse: «Voi avete ragione, ma io non vi posso dare ragione!». Chiesi, ovviamente, spiegazioni e quello proseguì: «Perché, stando così le cose, dovremmo annullare tutto il ruolo e il Comune dovrebbe restituire i soldi a tutti. E io non posso assumermi questa responsabilità!!!». 
Consigliai il funzionario di consultare direttamente il Prefetto e chiesi, comunque una risposta scritta al ricorso.
Passarono molti altri mesi e, non avendo ancora ricevuto risposta, e dovendo scrivere al Prefetto per un altro fatto, accennai nella lettera alla risposta datami dal funzionario. Fui subito convocato telefonicamente. 
Altri viaggi e altri colloqui con un altro funzionario, ma la pratica, benché registrata, non si è più ritrovata. «Dovrebbe essere sta mandata all’Intendenza di Finanza», mi fu detto.
Sono passati altri mesi, diversi mesi. Nessuna risposta!
C’è quindi da meravigliarsi se la gente pensa che il diritto sia un’elargizione dei dritti?

Francesco Mastroianni

 

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