da "AURORA" n° 2 (Gennaio 1993)

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Segni e disegni

Alberto Ostidich

Non dovrei forse dirlo, ma sono uno dei ventisette milioni di italiani che, quella famosa domenica di due anni fa, non si adeguò al pressante invito di Craxi e soci ad «andare al mare». 
Ossia, al mare ci andò per i fatti propri, ma solo dopo aver adempiuto al proprio civico dovere.
Sicché, nel mio piccolo, converrebbe ch’io vantassi d’esserci stato, quel 9 giugno 1991. 
Ed aver così partecipato alla 1ª prova generale della grande marcia verso le riforme; le quali riforme, come ognuno ricorderà, presero le mosse dal primaverile voto sulla preferenza unica.
I miei meriti neodemocratici si fermano però qui. Né, ad onor del vero, posso rivendicare ulteriori benemerenze antemarcia. 
E neppure d’aver seguito, in tale storica occasione referendaria, le direttive dei Padri promotori: debbo anzi esplicitamente riconoscere che, assecondando la mia naturale vocazione di minoranza, la crocetta finì per essere tracciata sulla (trascuratissima) casella del "No".
Le cause della scelta semi-balneare di quel giorno pre-estivo del ’91, sono facilmente deducibili -nel caso interessassero a qualcuno- da quanto segue.

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Quella mattina dunque, trovandomi personalmente in cabina a tu per tu con la scheda, non riuscivo a trovare invece convincenti le ragioni sociali di quel referendum. 
Come se, per combattere futuri brogli e infiltrazioni mafiose ed assicurare segretezza al voto -così recitava la ragione ufficiale- fosse necessario d’ora in avanti impedire al libero cittadino Rossi la facoltà di esprimersi su più candidati, seppur nell’ambito di una medesima lista: suvvia, i modi e i tempi per garantirgli questo suo diritto-dovere avrebbero potuto essere ben altri!!?
Ma non erano -beata ingenuità- la segretezza, la trasparenza, la correttezza delle varie fasi elettorali che si volevano salvaguardate, a muovere l’operazione referendaria! Né il nuovo meccanismo a preferenza unica, sancito dalla vittoria dei "Si", era da considerare un risultato tecnicamente modesto. Tutt’altro. 
Esso infatti, per un verso, poneva in crisi un consolidato sistema retto da cordate, abbinamenti ecc. con la regia delle segreterie, locali e non, di partiti, gruppi e correnti (di qui, la mia convinta partecipazione a quel voto); per altro verso, però, "il" candidato che la nuova procedura elettorale andava a privilegiare -o, per meglio dire, a cooptare- altro non poteva essere che un appartenente alla crazia partitico-cultural-finanziaria. 
Di qui il mio più che convinto voto negativo. 
Convinzioni che, in tutta immodestia, trovarono conferma nel quadro politico che di lì ad un anno si sarebbe palesato con le elezioni del 5-6 aprile ’92.
Inoltre la logica che sottende la preferenza unica è -ed era- la stessa che accompagna, che sta dietro quella grande riforma, ora in gestazione, su cui io credo -e credevo- si debba appuntare il più fiero dissenso degli uomini liberi. 
Non è retorica. 
E per capire le ragioni di fondo, le ragioni essenziali per opporvisi, si rende preliminarmente opportuno svolgere alcune considerazioni, forse anche indigeste a qualcuno.

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In sintesi: il sistema liberalcapitalistico, onde perpetuarsi, abbisogna del livellamento preventivo delle specificità esistenti, siano essi di natura ideologico-culturale, etnico-religiose o nazionalcomunitarie. 
Per alimentarsi e riprodursi, dunque, per tramite del libero espandersi del mercato, quel sistema onnivoro necessita eliminare ogni feconda e benefica diseguaglianza tra gli uomini e tra i popoli di cui disse Mussolini. Necessita, insomma, di appianare le emergenze, di ricomporle e renderle allineate, così da semplificare il campo su cui riversare la propria monocultura agricolo-industriale e non solo ...
Nel nostro Paese, la partitocrazia è andata in crisi non tanto ad opera del fattore "Lega" o per l’effetto "Di Pietro", quanto a causa della sua progressiva obsolescenza, manifestatasi in tutta la sua gravosità con la caduta del Muro. 
Quel muro -oggi lo vediamo- ne reggeva molti altri, a Berlino e altrove. Talché i vecchi gestori del sistema Italia, alla luce di obiettive esigenze di mercato, saranno apparsi -dopo un’attenta e aggiornata analisi costi-benefici- troppo cari ed inadeguati alla bisogna. 
Agli occhi del Potere, il sistema dei partiti presentava troppe sfasature in fatto di diseconomie e sprechi, per pletoricità d’apparati e farraginosità di procedure, per l’inutilità e disomogeneità di partiti e partitini ... 
Così, caduto il comunismo e con esso ogni alibi anticomunista, i Signori del Mercato devono aver ben pensato di adeguare l’Azienda nazionale (Italia) a più moderni ed efficienti criteri organizzativi.
E dunque "via" al vecchio gruppo dirigente, "via" alle privatizzazioni e "via" ai tagli nel sociale -in nome, beninteso, di Maastricht, del rinnovamento democratico e della libertà- come in coro recitano giullari e guitti canori di Lorsignori.
In conclusione, solo quanti siano in qualche misura consapevoli del dato che la Grande Riforma è meramente strutturale ai disegni del Grande Capitale -solo questi- potranno valutare nelle debite proporzioni il fenomeno Segni.
Qualora peraltro si ritenesse troppo audace la breve analisi sin qui fatta o, in buona fede, la si ritenesse frutto di una visione maniacal-complottista, pazienza!, ci si potrà pur sempre rivolgere -sapendosi accontentare- alle più riposanti argomentazioni antiuninominalistiche di un fu on. Franco Franchi, tanto per dire dei migliori.

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Se c’è lo spazio per una retrospettiva ,vorrei allora aggiungere che, nel settore delle riforme, il MSI ha avuto -suo malgrado, ritengo- il ruolo d’apprendista stregone. 
Questo partito infatti, prima con Almirante e quindi con Fini, si era evidentemente illuso di poter svolgere una strategia bifronte: con una faccia (quella cattiva) a sostenere l’alternativa al sistema, con l’altra (la faccia democratica, la faccia buona) a propugnare il miglioramento riformistico dello stesso sistema. 
L’aver giocato con tanta lievità e spensieratezza il duplice ruolo di portabandiera della protesta globale e quello di ascaro dell’elezione diretta di sindaci, presidenti di stato, province, regioni e quant’altro, gli è servito in ultima analisi (ed era ovvio aspettarselo) a spianare la strada ad un’altra logica riforma, quella seria, di Segni & Co. 
E, in questo gioco più grande di lui, il msi/dn risulta escluso da qualsiasi ruolo.
Ben gli sta e chiusa la parentesi retrospettiva.

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Si diceva, per coloro che hanno avuto l’amabilità di seguire il ragionamento, che i gruppi dell’alta finanza con interessi sul mercato italiano devono aver deciso, anche per non restare spiazzati nel mercato unico, di puntare le proprie carte su altri che non fossero i soliti, logori e logorati referenti politici. 
E la scelta, per ragioni di marketing, cadde su Mariotto Segni.
In parole povere, se scelta vi fu, essa non avvenne certo in base alle intrinseche capacità della persona che, oltre ad una sicura affidabilità, altro non offriva che una buona immagine nature
Ma, sulla base di una tale immagine -e proprio perché si trattava di presenza neutra ed incolore- avrebbe potuto meglio delinearsi un ritratto alla Kennedy, estremamente utile a che la gente comune vi si potesse identificare o riconoscere, e fare quindi proprio il disegno riformatore. 
Così, per citare un solo esempio di tale strategia mediologica, è potuto accadere che uno stesso numero di settimanale ultrallineato (mi riferisco a "l’Europeo" del 18 dicembre u.s.) abbia riportato, con corredo di sapienti didascalie e fotografie, dalla copertina alle pag. 7, 11, 14, rispettivamente nell’ordine: a) articolo su Segni, b) intervista a Segni, c) articolo di Segni, d) intervista al parroco di Segni, e) intervista alla moglie di Segni- tanto per completezza d’ informazione ...
Interviene una vignetta di Altan su "Cuore" a spezzare -più di un qualsiasi articolo, forse- l’incanto creato attorno a Segni ed agli altri presunti bigs della Riforma. «E Segni, La Malfa, Bossi, Martelli?» -interroga l’operaio di turno- E l’ineffabile Cipputi, ha commentato e risposto: «Ognuno crede di essere la bistecca e invece sono le patate fritte». 
Il bon Mariotto in particolare dev’essersi preso terribilmente sul serio, nel ruolo di bistecca. 
Sentite questa: «Non ci fermeremo. Non ci fermeranno». 
E quest’altra: «per far vincere la Nuova Italia, l’Italia della speranza!!»
Slogans da bagnasciuga comicamente fuori tono. In tono, invece ed ancora una volta, un altra vignetta contemporanea. 
Dove un politico-alchimista (autore Vincinio) maneggiando storte ed alambicchi, mormora tra sé e sé: «Ci sarà pure un trucco che ci permetta di comandare ancora ...»

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Il trucco c’è. Forse non lo si può vedere tanto chiaramente, celato com’è dalle pompose quinte dell’europeismo, dagli effetti di tangentopoli, dagli specchi deformati dei falsi popolari; celato soprattutto, direi dietro l’autentico, legittimo desiderio di farla finita con il vecchio regime corrotto e corruttore. Ma di trucco si tratta.
La realtà, qual’è? 
La riforma Segni (chiamiamola d’ora in poi così) dice di voler migliorare la democrazia attraverso una revisione istituzionale che, mettendo in mora gli apparati di partito, consenta però ai partiti stessi di accorparsi fra loro e confrontarsi a blocchi di due, onde far eleggere un solo candidato in ciascun collegio.
Tale presunta novità, se lascia impregiudicato il meccanismo di selezione dei concorrenti (i quali non potrebbero passare se non attraverso l’imbuto di partiti comunque denominati, e forzatamente eterodiretti), agisce in modo tale che i due schieramenti formalmente contrapposti siano espressione, non già di una destra e di una sinistra, bensì di un unico grande centro, distinto, tutt’al più in un polo progressista ed in uno conservatore, così come già avviene nella patria nordamericana.
In pratica poi la riforma elettorale è congegnata in modo da riciclare e depurare gran parte del vecchio personale politico, lasciando rigorosamente fuori solo quelle forze d’opposizione fra loro non imparentabili, ovvero non aggregabili alle altre. 
Questa, in buona sostanza, la risposta di Lorsignori alla discussa frammentazione: una risposta che -come si vede- appare ben più radicale e definitiva di quella tentata con la legge-truffa. 
Quella legge, infatti avrebbe consentito alla coalizione di governo di accaparrarsi solo i 2/3 dei seggi, con il raggiungimento del 50,01% dei voti (l’obiettivo, anche allora schermato dalle ragioni di rafforzamento della democrazia e della governabilità, venne mancato per un soffio, il 7 giugno del ’53).
La legge-truffa (BIS) e ancora più losca e ... antidemocratica. Non solo a motivo della soppressione legale degli avversari, ma anche e soprattutto in virtù di una considerazione logica: la soluzione finale di ridurre a due le possibili fazioni in gara sarà senza dubbio più funzionale (e a chi in particolare già lo abbiamo detto), ma contrasta esplicitamente con uno dei massimi princìpi delle Tavole democratiche, per cui laddove sono possibili maggiori scelte, là sarà maggiore la sfera di libertà dei cittadini elettori.
E tornando al nostro signor Rossi (che politologo certamente non è, ma risulta di sicuro essere buon consumatore), vorrei far osservare come il bipartitismo forzato dei Grandi Riformatori -che magari hanno in lui un inconsapevole ... ma cocciuto sostenitore: basterebbe sentirlo, quando al bar o dal barbiere egli dice la sua a politici e partiti!- equivale che, al Supermarket della Democrazia, reparto bibite, il nostro trovi due soli articoli: Coca Cola e Pepsi Cola. 
Egli vorrebbe provare, magari di tanto in tanto, qualcosa di diverso: un acqua brillante, una bella cedrata, un gingerino, forse, o anche un buon vino in lattina. 
Macché, grazie alla riforma Segni, d’ora in avanti gli sarà consentito l’acquisto di cola «o» cola. E al povero signor Rossi non resterà che rimpiangere quelle confezioni tutte colorate, dai differenti formati e prezzi, a volte pure in offerta speciale ... tutte schifezze -per carità- ma almeno lo aiutavano ad illudersi di poter scegliere.
Lasciato il sig. Rossi, resta da osservare che, nella presente fase di transizione che precede l’Era della Riforma, i grandi gruppi economici hanno trovato il loro portavalori in Giuliano Amato. 
Il suo governo, numericamente debole e politicamente ancor più, riesce tuttavia a prendere decisioni di capitale importanza, per i futuri assetti del Paese. 
Così, mentre la Roma politica sembra discutere appassionatamente di riforme, Sagunto -la Sagunto sociale- viene inesorabilmente espugnata. Università, pubblico impiego, casa, partecipazioni statali, sanità, pensioni sociali: tutto viene smantellato, venduto e macinato da un governo che, pur privo del cosiddetto appoggio popolare, riesce però a godere stranamente dei favori pressoché unanimi dei mass media.

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Sia chiaro: chi scrive non è affatto un supporter dell’attuale Stato assistenziale, che da quasi mezzo secolo viene cogestito da clerici e parrocchie dell’antifascismo: Esso, al più, costituisce una brutta copia del nostro Stato nazionalcomunitario. 
Solo che, nel difendere alcune linee di principio socialmente rilevanti, pavento il pericolo del successivo passaggio verso una nuova società del tutto integrata, liberale e apolitica, perfetta colonia del mondialismo.
Per sfuggire al destino del sig. Rossi, bisognerà allora guardarsi dal falso dilemma conservatori-innovatori, non arrendersi all’aut aut fra partitocrazia e riforma Segni. 
Ciò in prospettiva.
Ma, al momento, dove non si aprono dinanzi terze vie possibili, si deve tentare di combattere per primo lo strapotere dei potentati economico-finanziari. 
Per quanto paradossale o blasfemo ciò possa apparire, occorrerà, al momento, schierarsi senza riserve per il mantenimento dell’attuale sistema proporzionale, ergo a favore di questi partiti. In alternativa, ve ne sono già pronti altri due, quelli della ricetta Segni: due megapartiti-superagenzie di servizio ad uso della migliore clientela internazionale ...
È una battaglia questa la cui importanza ed urgenza non ammette diserzioni. 

Alberto Ostidich

 

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