da "AURORA" n° 4 (Marzo 1993)

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La colonna infame
(2ª parte)

Alberto Ostidich


«La coscienza, la buona reputazione, l’inferno, in certe circostanze anche la polizia,
non hanno permesso e non permettono spregiudicatezza:
appunto alla presenza della morale, come di fronte ad ogni autorità,
non si deve pensare, ancora meno parlare: qui si obbedisce!»

F. Nietzsche, "Aurora" Pref. 3


La volta precedente, trattando dell’annunciata campagna antirazziale a spese del Manzoni e dei suoi "promessi sposi", abbiamo voluto essere disobbedienti, persino un po’ discoli. Ci eravamo peraltro ripromessi, inoltre, di attentare alla morale, affrontando in un secondo tempo il tema-tabù del razzismo.
Dismesso ora il plurale di rappresentanza, qui non pretenderò certo di raggiungere l’esaustività o d’interpretare il pensiero di chi, grosso modo si riconosca in quanto va da anni esprimendo la nostra assai più modesta "Aurora". Fra gli stessi collaboratori del periodico, poi esiste (com’è d’altronde logico-fisiologico) una gamma di opinioni sull’argomento; né io mi sento qualificato a tentare una sintesi univoca e unificante delle varie possibili argomentazioni. Però il tema non può essere eluso, onde non lasciare indeterminata una presa di posizione necessaria per un movimento di idee che vuol essere antagonista: innanzi tutto antagonista verso i luoghi comuni, le pigrizie mentali, gli idola socio-culturali dei nostri contemporanei.
Quanto mi prefiggo -e ci prefiggiamo- è dunque di fissare punti minimi di riferimento per l’area non conformista.
E una prima presa di posizione, nei confronti del "razzismo" comunemente inteso, può assumersi affermando che tale termine è bivalente, un po’ come i due volti di Giano. Negativo, quando per razzismo si intenda l’alterofobia o supremazia prevaricatrice; positivo, quando esso sia sinonimo di specificità non solamente biologica, quando con esso si voglia affermare la propria identità, contro ogni omologazione universalistica. D’altronde per quanti sono di razza europea (!) sarebbe difficile avanzare diritti di precedenza su culture esogene quali l’egizia, le culture mesopotamiche o quelle sviluppatesi in India e in Cina. Aggiungo, anche se esempi e paragoni risultano in questo campo quanto mai approssimativi, che non mi parrebbe affatto improbabile una classifica che vedesse la civiltà araba, quale si espresse tra l’ottavo e il dodicesimo secolo d.c., avanzare quella europea. Si sarebbe magari tentati di sostenere l’evidente superiorità bianca rispetto a forme di civiltà proprie al Continente Nero, le quali non hanno certo prodotto l’equivalente di un Aristotele, di un Dante, di un Newton o di un Beethoven. Ma ciò sarebbe valido in senso relativo: ché, nelle foreste equatoriali dell’Africa o nel deserto del Kalahari, il fatto d’essere eredi naturali di Aristotele e Newton può risultare indifferente; indifferente ai ritmi e ai segreti della natura in cui gli autoctoni si muovono (o si muovevano), avendo con la natura stessa un ancestrale rapporto (che si va, peraltro, spezzando). Potremmo allora aggiungere, senza scandalizzare alcuno, che, nel loro specifico ambiente, Bantù o Boscimani sono superiori? Io credo di si.
Occorre aggiungere -a compensazione- che ciò non mi priva dell’orgoglio (e della gelosia) per le mie cattedrali gotiche, per i miei anfiteatri romani, per le navi vichinghe e per i "Pensieri" di Pascal, per i cicli d’affreschi di Giotto e per le scoperte di Marconi? Io spero di no.
Punto fondante da cui partire per una corretta individuazione dell’idea di razza sarà allora una concezione aristocratica delle diversità tra gli uomini. Concezione dalla quale discendono come corollari: a) la personalità quale principio caratterizzante al di fuori dell’elemento indifferenziato ed anonimo; b) la pluralità delle culture quale difesa verso il livellamento americanomorfo; c) la dignità di voler restare se stessi contro lo sradicamento etnico perseguito dal monorazzismo democratico.
Oggi -contro ogni residua evidenza- si tende infatti a negare l’esistenza delle varie razze. Cosa, in effetti, sia la razza, è difficile a dirsi (ovvero: le varie versioni date a questa parola -a conoscenza di chi scrive- non sembrano del tutto soddisfacenti), ma essa resta comunque un fatto, che -come direbbe Gramsci- è "un argomento ostinato". E, fra le tante possibili definizioni di tale argomento mi pare particolarmente significativa (particolarmente vicina alla mia sensibilità!) quella dataci da Abel Bonnard, secondo il quale la razza è individuata in «un complesso coerente di pensieri, di sentimenti, di tradizioni, di disposizioni intellettuali e morali che si esprimono attraverso caratteri fisici e psicologici: uno stile di vita riconoscibile nella disposizione del corpo».
Una osservazione aggiuntiva a quanto sopra: solo mantenendo salda la propria identità, si può tirare arricchimento da apporti diversi; le culture deboli o indebolite, invece, a contatto con altre sono portate naturalmente a farsi assorbire e, quindi, a scomparire.
É quanto sta avvenendo ad opera di un unica, mostruosa civiltà planetaria. In passato accadeva altrimenti: la morfologia della storia ha visto, sì, un continuo amalgamarsi, spegnersi, sovrapporsi di etnie, culture, popoli, idee. Ma pur non esistendo né civiltà primordiali né razze originarie cui poter attualmente riferirsi, queste e quelle sono andate tuttavia stratificandosi presso le diverse popolazioni: una fonte inesausta alla quale però riesce sempre più difficile poter attingere, a seguito dei massicci sedimenti prodotti dalla moderna civilizzazione. Ma, tuttavia, quella fonte esiste e resiste nel nostro profondo.
Ed allora il nemico principale sarà da trovarsi non nelle razze, religioni, ideologie altrui, bensì in quell’Unico Sistema che si adopera perché più non abbiano ad esistere razze, religioni, ideologie. Mi riferisco (repetita juvant) al Sistema distruttore di ogni e qualsiasi diversità che non poggi le proprie fondamenta sul denaro. Sistema irradiatosi da un Paese, nato e sviluppatosi grazie al sistematico genocidio degli allogeni e all'importazione (e relativo sfruttamento) degli schiavi!
Ciò detto e ribadito, non ritengo parimenti condivisibile il diffuso atteggiamento (presente anche nei nostri dintorni) sul problema costituito dalla crescente immigrazione extracomunitaria verso e attraverso il continente europeo. Sono in molti a sostenere che opporsi alle attuali ondate migratorie senza combattere a morte i meccanismi capitalistici che le determinano, significa riferirsi agli effetti e tralasciare le cause.
Sarà anche vero, ma bisognerà comunque ammettere che tali effetti possono essere -e sono- non soltanto fastidiosi, ma pericolosamente dirompenti. Non in relazione all’integrità fisico-razziale dei popoli comunitari, ma pericolosi perché capaci d’innescare a catena processi politico-sociali, di ordine pubblico, di problematiche sanitarie, ecologiche ecc. che si determinano. O, quantomeno, si aggravano in conseguenza di una incontrollata immissione di soggetti estranei agli usi e costumi degli ospitanti.
Usi e costumi che sicuramente risultano insidiati in misura ben più grave da altri extracomunitari (quelli a stelle e strisce, per essere chiari), ma quest’ultima constatazione non mi esime dal considerare con orrore la prospettiva di una società multirazziale europea, a immagine e somiglianza di un modello unico in cui sprofondi l’identità di ciascuno, nostra e loro.
Se mi è concessa un’annotazione di ordine personale, a margine del tema che stiamo trattando, affermo di conoscere assai poco dell’arte, della cultura e della storia araba (e non solo di quella, ahimè!). Quel poco, ho potuto apprenderlo da alcuni viaggi intelligenti, mi si passi l’espressione. Non ricordo quale scrittore (Conrad?) abbia affermato che l’esperienza dei viaggi insegna che le apparenze, quando le si sappia ordinare, possono comunicare molto della vita altrui di cui sono simboli. Ebbene, credo di poter dire allora di aver subito a più riprese il fascino della realtà veduta del mondo arabo-islamico; al punto da sostenere in tutta tranquillità come vi sia più dignità, più stile, più umanità magari fra gli inservienti, i cammellieri, i contadini delle oasi, che fra la maggioranza dei tecno-accessoriati turisti d’oltre mediterraneo. E proprio l’ammirato interesse che ho per quella civiltà, mi fa aggiungere che -una volta sradicati dal loro mondo ed immessi forzatamente nel nostro- quella gente va a perdere progressivamente la propria dignità, il proprio stile, la propria umanità.
Ma occupiamoci ora, con la dovuta stringatezza, di quel che pare costituire il non plus ultra dei razzismi, vale a dire il cosiddetto antisemitismo. Diciamolo subito: il termine è del tutto improprio a designare quell’avversione all’ebraismo che costituisce una costante storica fra i popoli con cui il popolo eletto ha avuto contatti.
Osservato in via preliminare come sia sostanzialmente improponibile l’equazione: razzismo = antisemitismo = antiebraismo, si potrà anche verificare l’inconsistenza dell’equazione inversa, ovvero: antirazzismo = ebraismo. Se vi è una comunità etnico-religiosa che ha sfidato i millenni, attraversato le più traumatiche vicende rimanendo fedele alla convinzione di essere stata predestinata alla superiorità morale e razziale, questa è la comunità israelitica. Ed è una simile, profonda e tenace presunzione di eticità nell’essere ebrei, accompagnata ad un odio escatologico verso le altre culture, che ne ha forgiato la forza e ne ha determinato la grandezza. Non si può non restarne ammirati.
Di qui si evince il motivo per cui essi non saranno oggetto di una pur rapidissima disamina in quanto professanti una determinata fede religiosa, o in quanto razza distinta e distinguibile (ammesso poi che, anche nel caso loro, possa parlarsi di una razza), bensì come portatori di una tavola di valori che sentiamo a noi estranei.
Ogni generalizzazione in proposito risulterebbe grossolana ed inoltre non è sempre vero che "ab una disce omnia" (dalla conoscenza di una cosa si impara a capire il tutto, di cui quella fa parte). Quel che dunque avversiamo non sono, non possono essere gli ebrei, bensì lo spirito ebraico intendendo con tale espressione quel tipo di religiosità borghese che, fecondata dalla sostanza ebraica, ha trovato nella società liberalcapitalistica l’humus adatto per prosperare. Tale spirito è oggettivamente antitetico a quello classico europeo quale si sviluppò, con decrescente vigore, sino alla Rivoluzione Francese, e che si trova ora ai margini estremi del Mondo moderno; mondo di cui l’ebraismo costituisce, appunto, l’essenza.
Questa polarità tra i due mondi viene riscontrata e testimoniata sull’opposto versante (come si legge su "Pagine Libere" Nov. 92, grazie al sempre documentato M. Blondet) da Yehudre Bauer, direttore del Centro ebraico "Vidal Susson", uno dei promotori dell’interessante convegno berlinese del 21-23 settembre ’92, il quale in detta occasione sostenne essere l’antisemitismo (ossia, per lui, l’antiebraismo) «un codice della cultura europea» e che «l’antisemitismo è divenuto parte integrante non solo dei processi distruttivi in ciò che chiamiamo civiltà occidentale, ma anche delle sue grandiose realizzazioni».
Alla luce delle considerazioni sopra riportate non apparirà allora del tutto paradossale l’affermazione secondo cui lo spirito ebraico può esser più presente nella pacifica e borghese Svizzera che nel guerriero e contadino Stato d’Israele!
Per ultimo, non possiamo accettare l’autoposizione di israeliti ed israeliani sull’altare dell'inviolabilità, in virtù del c.d. Olocausto. La tragedia abbattutasi sugli ebrei durante l’ultimo conflitto mondiale, le loro sofferenze ed umiliazioni meritano rispetto; analogo rispetto di altre tragedie contemporanee e non; ma, in ogni caso, non è quello il metro per misurare le idee e la storia. Allo stesso modo per cui non può valutarsi il cattolicesimo o la Chiesa romana dalle stragi di Ugonotti o da Papa Borgia; e neppure la Rivoluzione francese e il liberalismo dalla ghigliottina, e gli esempi potrebbero a lungo continuare.
Non voglio eludere -anche se, in base a quanto appena detto, mi sembrerebbe lecito- il tema dell’Olocausto. Mi limiterò comunque ad osservare che le versioni più accreditate, quelle sterminazionistiche, mi appaiono francamente illogiche, in quanto imputano ad un popolo tanto razionale e coerente, così determinato a vincere la guerra, quale (fu) il tedesco, il disegno scientifico, ovvero la pervicace volontà di eliminare manodopera utile alla loro impresa bellica.

Alberto Ostidich

 

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