da "AURORA" n° 5 (Aprile 1993)

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Nel segno di Orione

Francesco Moricca

I chiarimenti ideologici che troviamo nella intervista a Maurizio Murelli pubblicata nel numero di gennaio di "Aurora" giungono particolarmente graditi. 
"Aurora", da quando la conosciamo, ci è sembrata muoversi sempre nella direzione giusta, ma è stata forse un po’ carente sul piano della discussione specificamente teorica. Ora si rimedia, e questo significa un salto di qualità indiscutibile. 
Quando non si teme più di essere difficili, si mostra di aver acquisito quell’autonomia dal livello medio di comprensione e di consenso che è indispensabile ad un giornale politico per elevare la consapevolezza del lettore, e quindi per orientarne le scelte verso obiettivi sì circoscritti ma al contempo inquadrati in un disegno di ampia tessitura. 
Ed è giustissimo il suggerimento di Murelli di privilegiare in ogni caso la qualità piuttosto che la quantità dei nostri sostenitori. 
Peraltro l’approfondimento teorico è essenziale in vista di qualsiasi tipo di azione, e massimamente in quella politica in cui tutte le altre sono presupposte.
Al fine di ampliare le conoscenze sulla teoria del superamento della classica contrapposizione di Destra e Sinistra, su cui Murelli si diffonde trovandone le origini più vicine nel primo Goebbels e nell’ultimo Bombacci -passato al fascismo all’epoca di Salò dopo essere stato fra i fondatori del Partito comunista-, può essere utile venendo a tempi più recenti, ricordare il nome di Freda. 
Nella sua "Disintegrazione del Sistema", che risale all’ormai remoto Sessantotto, riprendendo la platonica dottrina dello Stato, si sostiene che il sistema tende a disintegrarsi per cause endogene e dunque indipendentemente dall’agire di forze esterne rivoluzionarie. Ciò parrebbe verificare ogni azione antagonista. 
Ma a prescindere dai motivi di ordine etico che obbligano all’azione chi si professi di destra, resta il fatto -e qui Freda concorda con Marx- che l’opera dei rivoluzionari serve in ogni caso ad abbreviare la durata dei tempi ultimi. 
Da ciò non solo la possibilità ma la necessità del convergere di Destra e Sinistra, nella fase terminale del Ciclo, in funzione antisistema, dopo aver abbattuto le vecchie contrapposizioni ora rivelatesi illusorie perché oggettivamente inconsistenti. 
Questo annientamento delle differenze ideologiche è la scoperta del nichilismo attivo, un concetto teoretico-pratico che Evola aveva esemplificato in opere come "Cavalcare la tigre" e "Gli Uomini e le rovine". 
Esso è in pari tempo scetticismo e sperimentalismo integrale. Non è però un pragmatismo vitalistico estetizzante perché presuppone una metafisica, quella dei Valori Tradizionali che si prefigge di restaurare. Le difficoltà e i rischi del nichilismo attivo sono enormi, ma non possono essere elusi ove realmente si aspiri a un recupero del trascendente. Ciò potrebbe valere persino per un cristiano, dato che al materialismo imperante è corrisposto il processo di secolarizzazione della Chiesa con tutto quanto ne segue in termini di perdita delle sue prerogative soteriche.
Su questo punto noi di "Aurora" non abbiamo dubbi, come conferma Pallavidini, nel suo articolo sulle Grandi Manovre. 
Anche Murelli mostra di non averne quando afferma, mettendosi nell’ottica del nichilismo attivo, che il pessimismo che nasce dall’analisi realistica, è un fatto che deve restare circoscritto alla regione, non deve toccare la volontà. 
La dottrina tradizionale su cui il nichilismo attivo poggia, sostiene d’altra parte che nella fase terminale del Ciclo v’è una potenza positiva che tende a sprigionarsi dal negativo come una forza ad esso interna. 
Per tale motivo rimane validissimo, nonostante la sua inattualità, il parere di Freda secondo cui un regime di socialismo reale sarebbe il miglior rimedio per disintossicare la società dai veleni morali della modernità e post-modernità, ma anche per sanare le disfunzioni costituzionali di un capitalismo strutturalmente anomalo come quello italiano, ormai da sopprimersi semplicemente non potendo essere più riformato in senso corporativistico se non dopo un periodo di rigido capitalismo di stato. 
Dei propri limiti e di quelli del sistema industriale nazionale (superprotetto fino alla caduta del comunismo perfino dalla concorrenza straniera) si sono talmente resi conto i nostri capitalisti da sacrificare la loro libertà di iniziativa, oltre che l’interesse e l’indipendenza del popolo italiano, davanti agli usurai di Maastricht. 
Ma se le privatizzazioni e le riforma istituzionali da essi richieste dovessero passare, saranno anche loro, i nostri capitalisti, a pagare duramente le conseguenze. E toccheranno con mano che è più conveniente dipendere da uno stato nazionale, in regime di economia autarchica e per quanti sacrifici ciò possa comportare per un periodo anche relativamente lungo, che non dal potere anonimo, disanimato e irrazionale della usurocrazia.
Circa le affinità esistenti fra comunismo bolscevico e comunismo tradizionale (o primitivo, come ebbe a definirlo l’illuminista Marx), Murelli segnala la sovranazionalità delle rispettive concezioni dello Stato. 
Certamente la moderna nazione fu un potente fattore disgregatore della visione del mondo e degli organismi politici che derivavano la propria legittimità dal retaggio di Roma imperiale. 
Ma la critica della nazione non deve spingersi fino al punto di una sua assoluta negazione, come si potrebbe concludere dal modo in cui Murelli imposta il proprio discorso. La nazione come identità linguistico-culturale non solo pre-esiste alla nazione-stato, ma in determinate circostanze storiche ne è la contraddizione più stridente. 
Valga a riguardo la posizione di Dante per il quale nazione e Impero non solo possono ma devono coesistere. 
Sovranazionale indica d’altra parte alcunché di sovraordinato rispetto a nazione, non per annientarla ma per esaltarne la specificità senza che però questa degeneri in particolarismo o in sopraffazione imperialistica a danno di altre nazioni. Senza contare che mai come oggi la rivendicazione dell’identità nazionale ha una valenza politica potentissima al fine di contrastare l’offensiva mondialista. 
Inoltre è insostenibile l’origine tout court illuministica della nazione, perché l’illuminismo era cosmopolita e non nazionalista come sarà invece il romanticismo. 
Le borghesie di Inghilterra e Francia, nell’Ottocento già tendenzialmente mondialiste, sono una cosa. Altra cosa invece le borghesie di Italia e Germania. Per il semplice motivo di essere in concorrenza con le prime, si possono definire nazionali più che nazionaliste. 
La borghesia -va detto a onor del vero- non necessariamente e sempre ha avuto una funzione anti-tradizionale. La ha avuta ad Atene ma non a Sparta. La ha avuta a partire dalla scoperta del continente americano, ma non la ha avuta durane il medioevo. Non la ha avuta nella Germania nazionalsocialista, e non la ha avuta -semplificando un po’ il discorso- nell'Italia fascista.
Siamo d’accordo con Murelli sull’opportunità di una revisione della teoria classica del complotto che oggi non si può più ritenere diretto, come in passato, esclusivamente dalla volontà della centrale massonico-giudaica. Il potere della finanza si è talmente tecnicizzato e per così dire spiritualizzate che spesso sfugge al controllo dei potenti gruppi internazionali che continuano ad essere quelli di sempre. 
È nostra opinione che è proprio in presenza di questa mutata situazione che si è potuto sviluppare l’altro grande potere dei tempi più recenti, quello della Mafia. Essa è riuscita ad affiancarsi a Sionismo e Massoneria inserendosi nei meccanismi incontrollati perché quasi incontrollabili della mostruosa macchina finanziaria. 
L’assoluta inconsistenza umana e intellettuale dei mafiosi non contraddice ma conferma questa analisi, perché l’irrazionalità di questo sistema esige che un potere enorme venga a cadere nelle mani di sub-normali analfabeti la cui sanguinaria crudeltà è più simile a quella di un bambino che si diverta sadicamente a strappare ali e zampe alle mosche, che non a quella del grande criminale vecchio stampo la cui efferatezza era sempre attentamente calibrata.
Non vediamo però la necessità di mettere sotto accusa la teoria classica del complotto per aver mutuato dal cattolicesimo tradizionale i suoi strumenti ermeneutici. 
Non basta soffermarsi sulla ricognizione fenomenologia dell’atmosfera di corruzione generale che è l’effetto dell’agire ormai del tutto impersonale del complotto. 
Bisogna anche individuare l’agente di questa fenomenologia o patologia. Quando un Donoso Cortès definisce l’ideologia liberalsocialista degli inizi del XIX secolo teologia invertita e religione satanica, non dice forse che già da allora vi era nel complotto qualcosa che sfuggiva agli uomini e si identificava con un’entità metafisica di segno negativo, appunto Satana? 
E ancora, che l’inconcepibilità di certi fenomeni propri ai regimi democratici come la concentrazione di grandissimi poteri nelle mani dei più indegni e incapaci, ha la sua naturale spiegazione nell’antica definizione del diavolo come scimmia di Dio?
Bisogna individuare il nemico per poterlo combattere. Satana può essere combattuto. Anche senza l’aiuto della Chiesa, se essa non fornisce l’aiuto come dovrebbe. 
Evola -che non era cristiano- ebbe a dire in uno dei suoi scritti che noi non dobbiamo combattere solo contro gli uomini, ma anche contro gli dei, cioè contro corpi immateriali. 
In sostanza vogliamo dire a Murelli che un eccesso di realismo è altrettanto negativo di un eccesso di idealismo. La lotta va condotta sul duplice fronte delle cose visibili e di quelle invisibili.
Pertinente è quanto egli sostiene sull’origine dell’antisemitismo nazionalsocialista i cui caratteri peculiari vanno ricercati nell’aberrante copula tra cristianesimo e illuminismo. 
L’affermazione merita però di essere approfondita con qualche considerazione. 
Anzitutto, anche i Romani furono antisemiti, e lo furono perché costretti dell’intransigenza con cui gli Ebrei rivendicavano a sé il dominio sul mondo in termini di imposizione della propria fede religiosa e della propria supremazione economica e politica. 
La loro concezione del popolo eletto è la prima e pressoché unica espressione di nazionalismo razzistico a base religiosa che la storia conosca; e contro di essa, con l’Epistola ai Romani, San Paolo assumerà una posizione ferma quanto teologicamente motivata. 
Tenendo presente che la nazione germanica nasce con la Riforma protestante e che questa ultima enfatizza la componente giudaica del cristianesimo in funzione anticattolica e antiromana e a scapito della sua componente platonica (si veda l’orientamento dell’umanesimo tedesco, dopo Erasmo da Rotterdam, verso lo studio dell’ebraico ai fini dell’esegesi biblica e della teologia del libero esame), è possibile sostenere che all’origine della dottrina razziale del nazionalsocialismo, accanto all’illuminismo, non vi sia proprio il cristianesimo ma, paradossalmente, il giudaismo
Se si accetta la nostra ipotesi, la copula di giudaismo e illuminismo si spiega molto facilmente con la teoria del complotto: per esempio con l’influenza che sull’illuminismo esercitò l’ebreo apostata Baruch Spinoza, e su una certa Massoneria settecentesca l’esoterismo cabalistico. Esso può essere penetrante per vie sotterranee nel nazionalsocialismo come elemento di contraddizione interna. 
Ma si potrebbe ipotizzare che questa contraddizione sia stata voluta. Non è affatto improbabile che Hitler (che aveva grande considerazione degli Ebrei) abbia inteso ritorcere contro di loro la dottrina del popolo eletto opponendovi quella della razza eletta; che per lui non è costituita solo dai Tedeschi, ma da tutti gli Indoeuropei, rispetto ad essi i Tedeschi avendo come titolo di superiorità l’unica caratteristica di una presunta minore contaminazione da parte dell’elemento giudaico. Non è da sottovalutare che nelle SS si accogliessero anche ariani non tedeschi. 
E se il razzismo nazionalsocialista fu esclusivamente a base biologistica come pure diede a vedere di essere, perché assunse a suo simbolo la svastica e non invece il martello di Thor? 
E perché non rinnegò mai l’idea che il Reich traesse la propria legittimità direttamente dall’Impero romano e non da altro?
Il nostro personale parere è che sia giunto il momento di revocare in dubbio la certezza consolidata che il razzismo hitleriano sia di matrice illuministico-darwinista. 
Il darwinismo è come una maschera che nasconde una verità molto complessa e assai meno rozza di quanto non appaia. 
Il Mosse, che pure è un ebreo, ha notato che per Hitler la razza è un fenomeno talmente originario da non poter essere modificato dalla selezione naturale. La razza è come la radice dell’albero che resta immutabile nonostante tutte le trasformazioni che la pianta subisce nella sua parte aerea ("Intervista sul Nazismo", Mondadori - 1992, p. 105).
In conclusione, siamo d’accordo con Murelli per l’apertura a tutte le culture e a tutte le razze. 
Vediamo con particolare favore l’incontro coi semiti Arabi perché l’islamismo come il cattolicesimo ha ereditato dalla tradizione greco-romana molto più di quanto non abbia ereditato dall’ebraismo. 
Ma per quanto riguarda i semiti Ebrei, confessiamo apertamente le nostre riserve, che non derivano da preclusioni di carattere dogmatico o di altro genere, ma dalla constatazione dell’intransigenza dottrinaria del giudaismo sull’aberrante mito del popolo eletto. 
Solo fino a un certo punto si può distinguere giudaismo da sionismo, perché il sionismo si è sviluppato sulla base teologica del giudaismo ed è da verificare fino a che punto, ieri come oggi, ne sia stato nei fatti contrastato. 
Ci provò Gesù di Nazareth quando i sionisti si chiamavano zeloti, e fu tradito da uno di loro (Giuda Iscariota) e fatto morire al posto di uno di loro (Barabba). Ci provò Saul di Tarso, e dovette con grave pericolo uscire dal giudaismo.
Sarebbe molto interessante conoscere quel che pensa al riguardo il Rabbino antisionista che scrive su "Orion".

Francesco Moricca

 

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