da "AURORA" n° 7 (Giugno 1993)

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Per una cultura antagonista

Alberto Ostidich

Risale a metà degli anni ’60 la prima edizione italiana del fortunato romanzo di Ray Bradbury «Fahrenheit 451», di cui Francois Truffaut ci darà, un decennio dopo, un’affascinante versione cinematografica con Julie Christie e Oscar Werner.
Vi si narra la storia, proiettata in un universo fantascientifico ed ipertotalitario, di Guy Montag. Montag-Werner fa parte di una squadra speciale di pompieri incaricata, non già di spegnere gli incendi, ma di appiccarli. 
Armate di lanciafiamme a 451 gradi Fahrenheit, queste milizie irrompono ovunque si conservino clandestinamente i libri, dandovi fuoco. Così vuole la legge. I libri sono infatti, in quel futuro pianificato, il nemico. Perché capaci di dare emozioni e suggestioni, di infondere dubbi e passioni; e capaci di far pensare, al di fuori di quanto già previsto e provveduto dalla società.
Montag svolge con burocratico spirito di servizio la propria missione. Un’esistenza protetta, la sua, scandita com’è dalle robotiche certezze di megaschermi TV, fra inni pubblicitari e pillole di serenità. Poi, l’incontro fatale con la giovane Clarisse -la Julie Christie della fiction cinematografica- grazie alla quale egli inizierà a porsi delle domande. Sino a quella, decisiva, di «cosa c’è, nei libri».
Ridestatosi così dall’ipnosi e riconquistata, assieme all’inquietudine e alla curiosità, la propria dignità di uomo, Montag si troverà ribelle. Si muterà in un antagonista del Sistema.
Tale rivisitazione -o versione ultra-moderna- del "Paradiso perduto" di John Milton induce ad alcune riflessioni. Una prima può essere che oggi (fortunatamente) non si bruciano libri, o non li si brucia più. Nelle odierne democrazie non è dato, in genere, assistere a roghi purificatori o a purghe di intellettuali; niente più libri all’indice, censure poliziesche, capestri per scrittori e stampatori...
È pur vero -per completezza d’immagine- che tuttora esistono, in un mondo sempre più libero e privo di tabù, i reati ideologici. In Italia -a dirne uno- comporta una condanna da 6 mesi a 4 anni l’apologia del fascismo, come si è premurato di reiterare il recente decreto Mancino. Altro esempio, persino più singolare, ci viene dalla Francia; Paese in cui è stato introdotto e codificato un divieto davvero curioso: quello di dubitare, a parole e per iscritto, delle verità ufficiali e numeriche del c.d. Olocausto. E detenzioni, multe, confische sono previste per reati similari, negli ordinamenti di numerosi altri Paesi democratici.
La gente però non risulta turbarsi per queste singolarità. Alla gente, un tal genere di faccende non interessa e, quand’anche vi facesse caso, o le approverebbe, oppure giudicherebbe tali misure illiberali delle eccezioni. Tanto più tollerabili se paragonate alle molte e ben più importanti libertà garantite ai cittadini.
Eccezioni dunque, nelle quali -com’è noto- si trova conferma tra la regola. Regola che afferma (con statistica evidenza!) che sono stati pubblicati un maggior numero di giornali, libri, opuscoli da trent’anni in qua, rispetto ai precedenti trecento. O anche, se si vuole, rispetto ai 500 e più che ci separano dall’invenzione occidentale del procedimento a stampa con caratteri mobili.
Per analogia, (al)la gente (si) potrebbe (far) sostenere che, da almeno una trentina d’anni, l’umanità -o almeno parte di essa- sta usufruendo di una gamma di scelte enormemente più ampia di quella goduta da tutte le passate generazioni.
Sarebbe dunque la presente fase storica, quella del massimo sviluppo (sinora) possibile della libertà?
Vediamo di ragionarci un po’ sopra, prima di concludere che no, che quella davanti ai nostri occhi è solo una libertà apparente, una libertà virtuale.

In epoca contemporanea, alle due forme dirette (orale e scritta) di diffusione delle idee, ne è subentrata una terza -integrata e mediata: la forma, per così dire, audiovisiva. Esistono cioè attualmente tre vie attraverso le quali esercitare la libertà d’espressione (che è poi quella comprensiva di ogni altra possibile libertà): oltre ai comizi, alle rappresentazioni teatrali, alle conferenze, oltre alle pubblicazioni -libri, giornali, depliants...- si è aggiunta la via percorsa dai potenti mezzi cinematografico e televisivo.
Facile sarà notare come il Potere moderno, nel mentre ha potuto allentare, più che in passato, i vincoli sui mezzi tradizionali della comunicazione (repetita: oggi i colloqui privati ed i pubblici discorsi sono a tema libero; e l’industria della informazione offre pressoché di tutto, senza imprimatur preventivi delle autorità), eserciti però una strettissima vigilanza sull’anzidetta terza forma, o via, di propagazione delle idee.
Andrebbe peraltro aggiunto che, pure nelle due forme antecedenti, di tipo tradizionale, esistono meccanismi di censura (e di autocensura!) tali da far sì che la celebre e celebrata "libertà di espressione" si riduca in effetti ad esser assai meglio teorizzata che praticata. Ossia, praticata da alcuni e resa impraticabile ad altri.
Ma farei probabilmente torto all’intelligenza e all’esperienza di numerosi lettori, se insistessi su tali aspetti della questione.
Basterà allora aggiungere, io credo, che detti controlli mass mediali -determinanti volta per volta l’orientamento dei gusti (le scelte) della gente- sono strutturati in modo da non dar rilievo -e quindi, seguito- alle iniziative potenzialmente in grado di deviare l’opera di selezione di cui sopra. E basterà anche riflettere su come il funzionamento complessivo sia predisposto affinché le note discordanti abbiano a circolare liberamente solo ai margini di una ristretta minoranza, ed entro una cerchia di sicurezza persino più sicura del divieto totale di circolazione.
In altre parole: oggi alla gente si lascia -e si può lasciare- dire (o anche scrivere) quasi di tutto, tanto non serve quasi a niente. L’eco delle rare voci fuori dal coro avrà sempre e comunque un raggio di percezione, e di possibile coinvolgimento, assai limitato. Appunto per questo, quell’eco potrà -e avrà la parvenza di- essere libero.
Se si tiene altresì presente la logica di un Sistema dove ciò che conta e pesa sono i numeri e la quantità, si comprende bene come rientri nelle regole del gioco pluralistico consentire, e in certuni casi favorire, quelle voci contro; anziché farle tacere "ope legis". Si ottengono così i due classici piccioni: oltre a dare la prova provata di democratico rispetto delle regole, verranno convogliate e canalizzate le idee meno gradite verso luoghi di attento monitoraggio, dove saranno in ogni evenienza tenute sotto controllo!
Il discorso vale, ma fino ad un certo punto, anche per la c.d. via audiovisiva. Qui -come si accennava- l’azione di avvolgimento delle pulsioni non-conformiste è ancor più soffocante. E più subdola, in quanto l’azione che si intende con ciò proteggere è quella di perseguire il fine: ed essendo il fine l’omologazione socio-culturale, qui spazi di manovra autonoma non sono consentiti né consentibili.
Nel cinema e, con maggior forza, nella televisione la strategia del pieno consenso viene dunque a svolgersi a tutto campo. Non si tratterà allora di contrastare delle idee altrui diverse, quanto di togliere loro ogni motivo di interesse. Di de-ideologizzarle. Di fornire, al posto loro, un insieme di informazioni manipolate, i cui principali referenti sono gli sports di massa e le cronache rosa, la pubblicità e l’evasione, i silenzi e le amplificazioni, la notizia pilotata e la notizia non data, e così via. Ovviamente, il tutto va a tradursi in termini di potere, di potere politico e politico-economico.
Chi intendesse reagire dovrà essere pienamente cosciente di come sia in atto -e da tempo, incontrandovi sempre meno resistenze!- un processo di condizionamento tecnico dell’uomo. Con interventi sempre più mirati e massicci, soprattutto veicolati dal domestico video. Questi interventi pacifici, che si attivano anche attraverso strumenti minori (radio, rotocalco, libro best seller, ecc.) hanno per obiettivo l’uomo. L’uomo nella sua integrità, di volta in volta individuato quale consumatore, elettore, utente o cittadino, e centrato dalle armi dei condottieri delle coscienze, dai profeti del bene comune, dai managers delle idee ...
È in corso l’ oggettivazione dell’uomo, e in forme espansive per vastità e profondità. - questo occorre denunciare con il massimo di voce. Le premonizioni fantascientifiche di Orwell, di Huxley o di Ray Bradbury vanno interpretate quali realtà scientifiche; realtà che stanno portando l’eclissi sull’uomo-persona, dell’uomo "canna pensante" di Blaise Pascal.

Una cultura antagonista per essere compiutamente tale deve dunque possedere piena consapevolezza -innanzi tutto- di trovarsi dentro a questo processo. E che non vi sono torri d’avorio inviolate, nello scenario di una società fisica i cui centri visivi corporei sono il condominio e lo stadio, l’azienda e l’ipermercato; e i cui centri sensibili, nervosi si trovano nell’economia e nel Mercato, e nel denaro, nella carriera, nel benessere. Dove uno si alza, generalmente al mattino, va al lavoro, torna a letto ed il giorno dopo ricomincia, giorno dopo giorno. Dove il tempo libero uno lo passa a ritemprare le forze per riprendere meglio l’attività lavorativa. Dove fra velocità, traffico, week end, televisione, la vita si consuma in un altalenante rincorsa ai ... consumi, sino al finale della pensione e oltre (...).
Una vita artificiale, che viene a scorrere sopra un’umanità di esseri ciascuno a sé stante, ciascuno incapsulato in abitazioni del tutto simili a tante altre, fra tanti oggetti e gadgets di serie, con gli stessi hobbies, stessi orari, stessi luoghi di socializzazione; un’umanità alimentata dalla stessa grande distribuzione con eguali prodotti materiali e con le medesime notizie ed opinioni immateriali. Da un tale assemblaggio di elementi, non può che risultare un tipo umano con ritmi, valori, mete e programmi indifferenziati. Nei 5 continenti. Ed è altresì fatale che un uomo così, da un capo all’altro del Villaggio globale, finisca con lo sprofondare in un vortice nel quale viene a frantumarsi per poi dissolversi, ogni specificità politica, etnica, religiosa, umana.
La cultura è l’unica arma di possibile difesa; è la condizione necessaria per scampare all’annientamento in quell’uniformità perfetta. Condizione peraltro insufficiente, se non viene sottesa da una appropriata visione del mondo, in assenza della quale (come s’incaricano di dimostrare i tanti intellettuali, scienziati, letterati d’oggi) si è e si resta organici e strutturali al livellamento genetico in atto.
Il libro dunque, può costituire un antidoto alla massificazione. Non per questo si può indicare una sorta di biblioteca ideale, con titoli ed autori particolari, validi per tutti. Credo anzi che ciascuno dotato di buona volontà e di altrettanta intelligenza, debba saper cercare da sé, secondo le proprie esperienze e preferenze, interessi o sensibilità «cosa c’è, nei libri». Cosa mai possa esservi, in taluni libri, di utile ad illuminare il percorso durante l’eclissi.
Un insieme di coordinate personali per descrivere, in comune, quel percorso: questa dovrebbe essere «la missione» di una cultura politica antagonista. Una cultura, certo, consapevole di sé, dei propri valori e delle proprie radici, e consapevole anche -però- che confidare nella realtà dei fatti (come se essi costituissero un qualcosa di neutro, di scindibile dalla percezione che se ne ha e della rappresentazione che se ne fa) appartiene al passato.
In un universo multimediale, dove la trasmissione delle idee avviene tramite sempre nuovi e più moderni input (costume, immagine, musica, grafica ...) il linguaggio dei fatti si trova ad essere arretrato, inadeguato a comprendere, con la vecchia ottica delle ideologie, i rapidi mutamenti in corso.
La cultura antagonista, per non farsi trascinare dagli eventi e costituirsi in alternative, dovrà forzatamente scartare le esauste categorie di destra, sinistra, centro per essere protagonista di nuove audaci sintesi del pensiero politico non-allineato. Essa dovrà poi sapersi proiettare nella società civile di massa e dei consumi, della memoria storica e del senso di appartenenza di quei popoli ora orbitanti attorno alla sfera americanocentrica.
Tali mi paiono risultare le prime linee di intervento per un’azione culturale sulle quali confrontarsi fuori dal coro. Riterrei -in altre parole- non solo auspicabile, ma persino necessario aprire l’inevitabile dibattito ...
Da parte di tutti noi, sarà in ogni caso da tener presente quanto ebbe a scrivere il dissidente Alexandre Zinoviev.(*) 
«Chi dirà che siamo condannati e che è per questo che dobbiamo combattere sino all’ultimo (...), costui non sarà un pessimista. Sarà un ottimista storico. L’ottimismo storico significa conoscere la verità, per crudele che sia, ed essere determinati a battersi, costi quel che costi. L’ottimismo storico non conta su niente e su nessuno, tranne che su se stesso e sulla bagarre».

Alberto Ostidich

(*) Da: "Nous et l’occident" - 1981.

 

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