da "AURORA" n° 8 (Luglio - Agosto 1993)

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Gengis Khan, l'Eurasia e la tradizione primordiale

Francesco Moricca


«Chi vuole essere un creatore nel bene e nel male, deve essere prima un distruttore (...)
Così il male più alto appartiene alla più alta bontà: ma è quest'ultima che crea?»

F. Nietzsche

 


 

«Il Sommo Bene comprende anche ciò che per i profani è sommo male.
I Risvegliati chiamavano quest'ultimo Sole Nero»

Anonimo Alchimista

 


 

Nella coscienza dell'uomo contemporaneo Hitler e Stalin rappresentano ciò che è per antonomasia il sommo male, coloro che «si sono macchiati dei più orrendi crimini contro l'umanità che «per la loro esecrabile sete di dominio hanno tutto osato»: in primo luogo contro Dio dicono quelli che ci credono ancora sul serio.

Questa esigua pattuglia potrebbe anche aver ragione perché la sua idea di Dio può ritenersi sicuramente diversa da quella che ne ebbero Hitler e Stalin. I rivoluzionari hanno infatti di Dio una concezione molto differente dai conservatori sedicenti credenti, sia che costoro agiscano sulla storia sia che invece la subiscano soltanto.

Ma se i credenti d'oggigiorno considerassero che ci sono state delle personalità del passato le quali si sono rese responsabili di atti ben più efferati che non Hitler e Stalin, e però avendo di Dio una visione per niente rivoluzionaria, certamente costoro si stupirebbero e anzi negherebbero ciò come un enormità.

Una di queste personalità, forse la più ragguardevole dopo Alessandro Magno -per la grandiosità delle imprese anche se non per la durata e incisività di quanto ne segui-, è senza dubbio Gengis Khan. In lui, assai più che nel Macedone, è presente in maniera molto accentuata un carattere luciferino che ne fa un personaggio tanto più singolare ed emblematico della natura eroica in quanto coesiste col più profondo ossequio verso la propria e altrui religione.

Ogni tentativo di storicizzare e relativizzare una tale caratteristica col riferirsi allo spirito primitivo non ha, a ben guardare, molto senso, perché ove si volesse far valere un simile argomento, bisognerebbe anche essere in grado di spiegare come accada che il massimo di civilizzazione comporti immancabilmente, accanto all'ateismo più rozzo, l'imbarbarimento del sentimento religioso, della stessa religione confessionale, di ogni manifestazione dell'umanità.

Quanto alla suprema efferatezza di Gengis Khan, più che la tradizione storica occidentale che potrebbe sospettarsi di interessata esagerazione, valgono le fonti mongole, la "Storia segreta" e il "Libro d'oro". Esse ci informano che il giovane Temugin (è il nome primitivo del condottiero), all'età di dodici anni, dopo la morte dei genitori, fu abbandonato dalla tribù nel deserto del Gobi perché vi morisse, essendo ritenuto fisicamente gracile e quindi non adatto a diventare un capo. Lo seguirono pochi fedelissimi di suo padre Yesughei e un fratellastro.

Un giorno, essendo prossimi a morire di fame, fu pescato in un laghetto un po' di pesce ed essendo sorta una lite con il fratellastro per un piccolissimo pesce, Temugin non esitò a ucciderlo. L'episodio è quanto mai significativo perché Gengis non fu mai incline a perdere la testa nelle situazioni più disperate ed ebbe un tale spiccato senso di giustizia da rispettare i patti anche a costo delle più gravi rinunce.

Né mancava di sensibilità e umanità se si pensa che, allorquando un capo rivale gli rapì e ingravidò la prediletta Borte, dopo averla liberata, non solo non la ripudiò conservandole anzi il rango di prima moglie, ma non uccise né cacciò Jeci, il figlio dello stupro e dell'offesa.

Le fonti, non solo mongole, riferiscono ancora che alla morte di Gengis Khan (24 agosto 1227) la salma, secondo un'antica usanza che egli certo non ignorava e che comunque si conservò, fu ricondotta in Mongolia dalla Guardia del Corpo che lo aveva seguito in tutte le battaglie. Erano mille cavalieri, parati a lutto e col volto velato che uccisero tutti gli uomini e tutti gli animali incontrati per via lasciando alle spalle del feretro un orrendo scenario di morte e desolazione.

Il significato rituale di un simile massacro non ne diminuisce ma ne aumenta l'efferatezza.

E per tanto possono sostanzialmente considerarsi attendibili i giudizi che in Occidente furono espressi sui Mongoli, già col solo fatto di intendere il nome di Tartari, secondo una arbitraria etimologia greca, come sinonimo di creature infernali e tanto più terribili in quanto suscitate dalla collera di Dio. Può essere molto interessante osservare che se questa è l'idea che ne ha San Luigi Re di Francia, al contrario l'Imperatore Federico II di Svevia, non a caso, è affascinato proprio dalla loro demonicità.

Sicuramente ne studia le raffinate tecniche belliche. Probabilmente, a livello iniziatico, si interessa della loro concezione dell'impero che era rimasta fedele al modello stabilito da Gengis Khan, il quale, notoriamente iniziato all'alchimia taoista dal monaco cinese Ciu Ciang Ciu, lo mediò da quello confuciano del Celeste Impero fondendovi elementi dello sciamanesimo mongolo.

La religione mongola era sostanzialmente una religione solare, come riferisce l'armeno Gregorio di Akanch (sec. XIII) nella sua "Storia dei popolo degli arcieri", pertanto con certezza riconducibile alla Tradizione Primordiale e agli Indoeuropei che sicuramente entrarono in contatto coi Mongoli dopo l'abbandono della Sede Iperborea a seguito dell'ultima glaciazione (si vedano in merito gli studi, suffragati anche dalla conoscenza della astronomia e geologia occidentale, del Bramino Tilak).

L'investitura divina di Gengis Khan, che alla benevolenza di Tangeri (la suprema divinità) attribuì sempre i suoi successi, è così narrata dallo storico armeno:

«Quando, all'improvviso, (i Mongoli) si resero conto (...) (della) loro povera e misera vita, invocarono l'aiuto di Dio, Creatore del Cielo e della Terra. E a lui promisero di farsi guidare dal suo volere. E, per volontà di Dio, apparve un Angelo in aspetto d'aquila dalle penne d'oro e parlò nella loro lingua (...) al capo, chiamato Gengis. Questi venne e stette, davanti all'angelo ma distante quanto un tiro di freccia».

È detto poi che l'angelo condusse i Mongoli alla conquista del mondo, e lo storico commenta: «Questo accadde! E si compì ciò che Dio aveva minacciato parlando per la bocca del Profeta: "Nabucodonosor è una coppa d'oro (il Graal?) nella mia mano e chiunque io voglia farò bere da essa"».

Non è affatto improbabile che questo testo sia pervenuto nelle mani di Federico Il grazie ai suoi amici arabi e che egli sia stato colpito dall'allusione al Nabucodonosor persecutore del popolo eletto e per estensione di significato della teocrazia cattolica, non meno che dalla coppa d'oro e dalla scoperta simbologia dell'Angelo-Aquila col suo rimando a quell'Impero Romano che egli voleva restaurare nella sua essenza pagana originaria.

Sull'arte della guerra dei Mongoli, e indipendentemente da quanto potè venire a sapere il grande Svevo, vale la pena osservare che era certamente d'avanguardia e che fu opera dell'intelligenza tattico-strategica di Gengis, il quale seppe utilizzare e reinventare quanto di meglio aveva già prodotto il genio cinese. A parte la grande cura riservata all'equipaggiamento individuale dei soldati, all'uso delle macchine ossidionali e all'impiego bellico della polvere da sparo che è un'assoluta novità dei Mongoli (razzi incendiari, mine, bombe a mano del tipo che useranno i granatieri europei nei secoli XVII e XVIII), la cosa più rimarchevole è che Gengis privilegi come arma esclusivamente la cavalleria portando alle estreme conseguenze un concetto che era stato inutile e applicato da Alessandro Magno.

Egli comprende l'importanza della velocità nello spostamento delle truppe sia nella conduzione del combattimento che della campagna, e trasporta sul piano tattico la tecnica di caccia dei Mongoli che consiste nell'accerchiare con manovre avvolgenti la preda onde non darle la possibilità di scampo prima dell'abbattimento. Il Bussagli sostiene che Gengis. Khan, per tale concezione della guerra di movimento e di annientamento, anticipò vari princìpi che verranno sviluppati, con le dovute varianti, nelle fasi della seconda guerra mondiale (...). In pratica gli squadroni di cavalleria di Mongoli furono impiegati come reparti di carri armati nelle battaglie d'Europa e d'Africa. Come dire che egli fu il precursore del Bliz Krieg di Hitler, Guderian, Rommel.

Ma il parallelo con il Terzo Reich nazionalsocialista è legittimo anche per altri motivi. Anzitutto per il modo con cui Gengis concepì il superamento della lotta di classe che era particolarmente violenta presso i nomadi Mongoli per la consuetudine di scacciare i deboli e fisicamente inidonei alla durissima vita nel deserto. Costoro, se sopravvivevano, diventavano pericolosissimi banditi, una vera calamità per l'odio e il sentimento di rivalsa proprio ai reietti.

Il Khan aveva conosciuto personalmente questa triste condizione, ma invece di reagire come era logico aspettarsi, ne intuì la causa politica nella dispersione e debolezza delle tribù.

Se le tribù si fossero unite sotto un unico comando come avevano fatto con lui, ai tempi della sua giovinezza, tanti sbandati, l'esperienza del brigantaggio, la sua esperienza del male, non avrebbe mancato di dare frutti positivi per tutti. Ma unire tante tribù in un solo popolo poteva avvenire soltanto attraverso la religione. Non una nuova religione, ma quella che già esisteva. L'ostacolo era costituito dagli sciamani e dal loro conflitto con l'aristocrazia. Impegnati nelle piccole faccende della vita tribale, ne contrastavano le prepotenze vere e presunte appoggiandosi al popolino e suscitando così un ulteriore motivo di divisione e di debolezza. Il suo tentativo di restaurazione dell'unità originaria di autorità spirituale e potere temporale, ebbe successo, come narra la "Storia Segreta", grazie all'appoggio dei due sciamani Kokciu e Korsci Usun, ma non senza grandi difficoltà. Dopodiché egli risolse ogni conflitto sociale ribadendo le gerarchie e militarizzando ogni attività.

Non fu tuttavia ammesso nessun privilegio che non fosse quello della funzione. «Nel vestire e nel vitto -dice il Khan- non c'è differenza tra me, i guardiani di buoi e i palafrenieri».

Poiché molto presto l'appoggio degli sciamani sì rivelò poco affidabile (è del 1206 la congiura di Kokciu che venne assassinato forse col tacito consenso di Gengis), il Khan decise di dedicarsi personalmente allo studio dell'arte sacerdotale e dell'alchimia taoista. Un turco chiamato dalle fonti cinesi Ta-Ta Tonsa lo istruì anche sul cristianesimo nestoriano che era piuttosto diffuso nell'Asia centrale.

 

È documentato storicamente il nesso che esiste fra il nestorianesimo, il mito costituitosi in Oriente sulla figura di Gengis Khan e un'altro mito che ebbe grande diffusione nel medioevo occidentale a partire dai tempi di Re San Luigi di Francia, e dei viaggi di Pian del Carpine.

Si tratta del mito del Prete Gianni, il cui Regno -da intendersi come la sede realmente esistente dei legittimi depositari della Tradizione Primordiale- altro non sarebbe che «la copertura esteriore del centro in questione (...) costituita, in buona parte, dai Nestoriani». Lo afferma Renè Guénon nel suo "Re del Mondo", il saggio che fu scritto in occasione della pubblicazione del libro "Bestie, Uomini e Dei" di Ossendowski, in cui si narra della fuga rocambolesca dell'Autore per le foreste dello Jenissei e per i deserti della Mongolia dopo la sconfitta dei Bianchi dell'Ammiraglio Kolciak, nonché della visita compiuta nel "Regno del Dio Vivente" su cui si offrono dettagliatissime informazioni, tra le quali una sua visione del 17 maggio 1921 e una profezia del 1890.

L'opera di Ossendowski suscitò molto scalpore per via delle sue implicazioni politiche e si tentò di discreditarla al punto che Guénon, col saggio citato, volle difenderne la congruenza con ciò che è scientificamente documentabile sulla dottrina tradizionale.

Vale la pena comunque ricordare che il ciarlatano e visionario Ossendowski fu Ordinario di Chimica industriale e di Geografia commerciale prima all'Università di Pietroburgo e poi, dopo la Rivoluzione d'Ottobre, all'Università di Omsk. Ebbe anche una carica di rilievo presso il Ministero delle Finanze e dell'Agricoltura del Governo siberiano dell'ammiraglio Kolciak, e infine, ritornato nella nativa Polonia fu Professore alla Scuola di Guerra e all'Università commerciale di Varsavia.

Nel suo libro, la cui lettura raccomandiamo, Guénon parla delle analogie esistenti fra i Nestoriani, i Sabei -detti anche "discepoli di Gianni"-, gli Ismaeliti e i Drusi del Libano che tutti assumono, come anche gli antichi Templari, il titolo di "guardiani della Terra Santa".

Si riferisce anche che, in Asia centrale, e particolarmente in Turkestan, «sono state trovate croci nestoriane molto simili nella forma alle croci della Cavalleria; alcune di esse, inoltre, portano al centro la figura dello swastica».

Guénon prende altresì in considerazione la testimonianza di Ossendowski che racconta di aver visto ad Urga, fra le tante cose preziose del tesoro del Bogdo Khan (il Re del Mondo), l'anello di Gengis «su cui è inciso una swastica».

Altre preziose osservazioni riguardano la "dinastia solare" del Re del Mondo messa, molto opportunamente, in relazione don la "Cittadella solare" dei Rosacroce e con la "Città del Sole" del nostro Campanella (la quale ultima -è il caso di ricordarlo- viene dal Maestro calabrese, situata in Oriente, e precisamente in un luogo dell'isola di Ceylon).

Guénon menziona in una nota al testo una leggenda secondo cui Gengis avrebbe cercato di attaccare il Regno del Prete Gianni ma ne sarebbe stato respinto scagliando questi «la folgore contro i suoi eserciti», leggenda che secondo noi potrebbe alludere alla condizione profana del Khan precedente alla iniziazione all'alchimia taoista e allo stesso nestorianesimo.

Quanto alla localizzazione campanelliana della "città del Sole" nella grande isola che si trova a Sud dell'India, va detto che il nestorianesimo ebbe in India una discreta diffusione, che le sue comunità si riuniranno alla Chiesa cattolica fra i secoli XV e XVI, che in questo stesso periodo Babur, un discendente di Gengis e Tamerlano, occuperà il sub-continente indiano dando inizio alla dinastia del Gran Mogol che durerà fino alla conquista inglese nella seconda metà del Settecento. Questa dinastia mongola, sotto cui fiorirà una splendida civiltà la cui fama giungerà assai presto in Occidente e dovette essere certamente nota al nostro Campanella, fu ispirata al modello di monarchia disegnato da Gengis ed è notevole che la sua politica di tolleranza religiosa sia riuscita a comporre l'antico dissidio fra induisti e musulmani, quel dissidio che, come è noto, saranno proprio gli Inglesi a rinfocolare.

Nella prospettiva da noi delineata, è chiaro che il nestorianesimo costituisce come una sorta di filo rosso.

Esso permette di escludere la casualità della funzione esercitata del nestorianesimo sugli eventi storici di cui stiamo parlando e che collegano Gengis all'ultimo dei Mogol e, a monte, alla Tradizione Primordiale. Ciò consente altresì di enucleare, grazie ai nostri richiami a Campanella e ai Rosacroce, la non contraddittorietà, almeno a livello iniziatico, fra Occidente e Oriente.

La quale cosa è un presupposto non certo marginale della validità politica della nostra idea di Eurasia.

Cosa sia stata la cosiddetta eresia nestoriana, cercheremo adesso di spiegare nonostante la grande difficoltà dell'argomento. Chi volesse approfondirlo può consultare la "Storia della Chiesa dalle origini ai giorni nostri" (Torino, 1957-1971) di A. Fiche e V. Martin.

Il nestorianesimo è una particolare concezione del mistero dell'Incarnazione e dunque della natura divina e insieme umana del Cristo. Fu accusato di adozionismo dal Concilio di Efeso (431 d.C.). L'accusa fu parecchio ridimensionata al Concilio di Calcedonia (451) per espressa volontà dell'imperatore Marciano. E ciò di per sé ha già un suo significato, tanto più che l'adozionismo di Nestorio ebbe a suscitare parecchie perplessità sia presso teologi che studiosi e storici della materia, vuoi per la «necessaria imprecisione di una cristologia ancora in via di definizione», vuoi per la difficoltà del «linguaggio tecnico proprio ai Padri bizantini».

Quanto all'adozionismo, e molto sommariamente, si può dire che esso dia più importanza alla natura divina del Cristo che non a quella umana. Ne consegue che Egli non sarebbe stato condizionato dai limiti propri alla umanità, e che è di scarsa importanza che il Figlio di Dio si sia incarnato in un uomo chiamato Gesù, che avrebbe potuto incarnarsi anche in un altro tanto prima che dopo il fatidico Anno Uno dell'Era Volgare.

Posto che si accetti, questa interpretazione dell'adozionismo e si assuma come un dato di fatto l'adozionismo dubbio di Nestorio, discendendo le seguenti conclusioni:

A) Se Cristo come Re del Mondo non è necessariamente una determinata personalità storica, i suoi attributi regali appartengono alla Dinastia da cui Egli discende e che non è esclusivamente quella semitica che si trova nei Vangeli.

B) Il Cristo ha dei precedenti e dei successori che appartengono al Sangue Reale di detta Dinastia e la cui appartenenza è indipendente, dalle circostanze storiche, (come ad esempio un'elezione che sia per qualche verso ancora umana) ed è direttamente ed imperscrutabilmente decisa da Dio.

C) Il "Santo Graal" del medioevale Ciclo Arturiano non è altro che la trasformazione, (corruzione) -quasi certamente voluta dagli Autori delle storie della Tavola Rotonda- del termine originario francese "Sang Réal" che allude appunto al Sangue Reale della Dinastia di cui stiamo parlando, e che presso gli eretici Catari massacrati per volontà di Innocenzo III era identificata con quella merovingia dei cosiddetti «Re fannulloni». Tesi, questa, che è sostenuta e ampiamente documentata da Evola nel suo "Mistero del Graal".

D) L'impossibilità di attribuire a Nestorio una chiara posizione adozionistica non ha in realtà nessun motivo contingente (come la non ancora avvenuta sistemazione della dottrina cristologica e l'oscurità del linguaggio dei teologi bizantini), ma è qualcosa di voluto con cui Nestorio intese a un tempo dire e non dire, nella consapevolezza del pericolo che l'adozionismo comportava, come anche del fatto che tale pericolo, in particolari circostanze, si potesse e anzi dovesse sfidare.

Vi è nel libro "Uomini, Bestie e Dei" un personaggio emblematico di questa sfida: il Barone Generale Ungern von Stemberg che Ossendowski incontra alla fine della sue peregrinazioni. È un baltico che ha combattuto contro i Tedeschi e che dopo la rivoluzione d'Ottobre si è schierato coi Bianchi di Kolciak. Di religione buddista, più che un Bianco, è il braccio armato dell'attuale Re del Mondo, il campione di un impero asiatico che si richiama esplicitamente a Gengis Khan.

Ungern è convinto che la Rivoluzione sia scoppiata e abbia trionfato per le colpe indiscutibili del regime zarista, che ha permesso che i contadini diventassero «selvaggi senza istruzione, sempre pieni di rancore sospettosi materialisti, senza un ideale nobile», che, cosa più grave, gli intellettuali vivessero «fra ideali immaginari, fuori della realtà, capacissimi fin che si tratta di criticare tutto», ma privi «assolutamente di facoltà creativa» e soprattutto di volontà». Pertanto è da rifiutarsi la restaurazione dello Zar quanto la Rivoluzione dei Soviet che è per lui «la Maledizione, quella maledizione che previdero Cristo, l'Apostolo Giovanni, il Budda, i primi cristiani, Dante, Leonardo, Goethe e Dostojevskij», e che «ha sbarrato agli uomini il cammino ascensionale verso il Divino».

Per combattere tanto la degenerazione dello zarismo quanto la maledizione bolscevico-cosmopolita e in una parola il mondo moderno, «si disegnò una lega fra tutti i popoli mongolici che non avevano ancora dimenticato l'antica fede e i costumi antichi, uno stato asiatico di popolazioni autonome sotto l'egemonia morale e legale della Cina, paese di cultura superiore e più antica».

Questo Impero è «asiatico», tuttavia, solo perché «l'umanità (europea) impazzita e corretta vuole ostinarsi a combattere l'elemento divino che ha dentro di sé». La sua missione, che si fonde sulla sua superiorità morale, è in realtà di stabilire sui continenti una pace sicura e durevole».

D'altra parte, Ungern non è mongolo, ma europeo. Onde precisare la sua concezione spiritualistica della razza cui conferisce somma importanza, egli precisa: «La famiglia degli Ungern von Stemberg è (...) mista di sangue germanico e ungherese-unno, del tempo di Attila», e nell'Ordine Teutonico che «col ferro e col fuoco diffuse il cristianesimo fra i pagani» dell'Est ci fu sempre «qualcuno della mia famiglia».

E continua: «Mio nonno ci portò il buddismo dall'India e mio padre ed io lo accettammo e lo professammo. In Transbaicalia ho tentato di formare l'Ordine dei Militari Buddisti (russi) per combattere senza quartiere la depravazione rivoluzionaria (...). La depravazione rivoluzionaria! ... Chi ci ha mai pensato, fuorché Bergson, il filosofo francese, e il dottissimo Tasci Lama del Tibet?».

Ossendowski così descrive l'armata di Ungern e del Re del Mondo: «Una grande massa animata dalla gran luce solare. Qua e là (...) soldati in lungo cappotto azzurro, Mongoli e Tibetani in rosso con spalline gialle recanti la svastika di Gengis Khan e le iniziali del Budda vivente (il Re del Mondo), soldati cinesi» superstiti alla disfatta del loro esercito «che portavano il vecchio distintivo cinese del drago d'argento al berretto e alle controspalline».

Il Barone elogia l'innato senso di disciplina degli orientali e lo confronta con l'indisciplina dei Russi che precedentemente aveva aggregato nell'Ordine dei Militari Buddisti. «Costoro presto cominciarono a violare le regole. Allora io introdussi (...) la rinunzia assoluta alla donna, alle comodità della vita, al superfluo (...). E per dare modo ai Russi di dominare i propri istinti: fisici, introdussi l'uso illimitato dell'alcool, del hascisc e dell'oppio. Adesso gli ufficiali e i soldati che si ubriacano li faccio impiccare: allora bevevano fino alla febbre bianca, al delirium tremens. Non riuscii ad organizzare l'ordine, ma ebbi, intorno a me, un nucleo di trecento uomini senza paura e senza pietà, che poi combatterono da eroi contro la Germania e più tardi contro i Bolscevichi. Ma ne sono rimasti ben pochi».

 

Il libro di Ossendowski si chiude col nostalgico ricordo dell'amico Hutuktu di Narabanci e con la visione che questi gli raccontò di aver avuto «come il suo pensiero più intimo».

«Presso Caracorum e sulle rive di Ubsa Nor io veggo immensi accampamenti multicolori (...). Vi sventolano sopra le vecchie bandiere di Gengis Khan, del Re del Tibet, del Siam, dell'Afghanistan, dei Principi indiani. Vi sono torme senza numero di vecchi, di donne e di fanciulli: più in là, a Settentrione e a Ponente, lungi quanto la vista può arrivare, il cielo è rosso di fiamma, romba e scoppietta d'incendio e il frastuono tremendo della battaglia. Chi li guida i guerrieri che sotto il cielo di fiamma spargono il sangue loro e quello degli altri? Chi governa quella schiera sterminata di vecchi inermi e di donne? Io veggo tra loro un ordine severo, una comprensione profonda e religiosa di uno scopo supremo, pazienza e tenacia, ... una nuova grande migrazione di popoli, l'ultima ondata dei Mongoli. E se il Re del Mondo fosse con loro?»

«Ma il gran mistero -commenta Ossendowski- il Mistero dei Misteri, serba il suo silenzio profondo».

 

Francesco Moricca

 

 

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