da "AURORA" n° 9 (Settembre 1993)

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Crisi italiana: puntare sul «quartier generale»

Renato Pallavidini

L'estate '93 è stata, se possibile, ancora più sconvolgente di quella del '92. Difficile per un mensile come il nostro inseguire, e commentare con sufficiente tempismo la matassa degli avvenimenti che si susseguono a ritmi vertiginosi, con continui cambiamenti del quadro politico. Cambiamenti che molte volte sono più apparenti che reali, in quanto confermano una linea di sviluppo essenziale che si è delineata sempre più organicamente sin dall'estate del 1991, e che intendeva sfruttare l'oggettivo intreccio di crisi economica e crisi politica per determinare nel Paese un radicale mutamento di rapporti politici interno al sistema di dominio capitalistico. Una classica riorganizzazione del sistema, spacciata ad un'opinione pubblica disorientata e stanca, a tratti decisamente inferocita, come rivoluzione pacifica nel quadro delle regole democratiche.
Fra tutti i traumatici avvenimenti di questa estate, noi dobbiamo scegliere quelli più significativi per comprendere l'evoluzione di questo scenario politico essenziale, che sta per l'ennesima volta gabbando gli italiani. Comprendere significa naturalmente individuare gli strumenti e le linee tattico-strategiche per l'azione delle forze antagoniste, di cui noi vogliamo rappresentare una componente decisiva. In questi avvenimenti spiccano i suicidi eccellenti e la nuova strategia della tensione.
Facciamo subito due precisazioni. Della morte di Cagliari e di Gardini credo che a tutti noi non freghi nulla. È lavoro risparmiato al boia, di fronte al quale -se ci fosse una sana Giustizia rivoluzionaria- avrebbero dovuto presentarsi, in compagnia di tanti politici e imprenditori pubblici e privati (avvocato Agnelli in prima fila) per essere giustiziati senza neppure tanto spreco di piombo che graverebbe finanziariamente su una Comunità civile già tanto provata -Stalin docet! (altri personaggi storici altrettanto decisi non si possono nominare, solo immaginare, ma immaginarli uniti contro simili carogne!).
In quanto alle bombe dobbiamo dire che ce le aspettavamo. Tutte le fasi di crisi, in Italia, sono lastricate di morti, stragi misteriose, e capri espiatori su cui scaricare tutto: prima i fascisti e magari anche le Brigate rosse, ora la mafia e schegge impazzite dei "Servizi". A dimostrazione che nella storia ci sono come minimo due categorie di assassini: quelli che hanno il buon gusto di dichiararlo (i vari Berja, Heydrich, ecc.), e quelli invece che, dopo aver provocato i morti vanno a commemorarli in piazza (Andreotti, Lima e chissà gli ultimi venuti!).
I suicidi (sempre più misteriosi, in linea con la tradizione italiana) e le bombe si collocano in un momento di svolta decisiva dell'inchiesta "Mani pulite". Una svolta che, se non venisse quanto meno minimizzata e nascosta all'opinione pubblica, potrebbe renderla destabilizzante, come a tutt'oggi non lo è ancora stata. Romiti, nell'agosto '9l, aveva detto che occorreva farla finita con questa classe politica per creare un sistema economico più funzionale, efficiente, ed altre stronzate varie, in linea con le logiche di mercato del sistema capitalistico. In sostanza, «ormai vogliamo pappare solo noi! Niente più sindacati e tangenti fra le palle! Ci dovete dare tutto senza prendere nulla!» Ecco in alcune battute il succo della svolta politica cercata e voluta dalla Confindustria, e che si sta sviluppando sempre più rapidamente attorno al Governo Ciampi e ai nuovi soggetti politici, in prima fila la Lega Nord. 
L'inchiesta "Mani pulite" aveva sinora toccato solo marginalmente il mondo imprenditoriale. Gli avvisi di garanzia a Romiti e De Benedetti sono passati abbastanza inosservati dai media, impegnati a scaricare veleno solo sui politici, e da un'opinione pubblica, esasperata e plagiata nei suoi sentimenti più profondi, incapace di vedere le responsabilità ben maggiori che nel regime delle tangenti, hanno avuto gli industriali, e da una Lega Nord, avviata a grandi passi, per organico vizio di origine sociale e analfabetismo culturale, a diventare la punta di lancia dell'intero schieramento liberista e capitalista. 
In questo contesto giudiziario, politico e di opinione pubblica, era facile per De Benedetti presentarsi in Tv, affermando; «Vedete! Noi abbiamo anche pagato tangenti, ma eravamo costretti, eravamo le vittime principali di questo sistema. I politici ci ricattavano!». 
Molto opportunamente quel vero e proprio gangster di La Ganga ha risposto che fa solo ridere l'idea che un deputato socialista possa ricattare la Fiat o l'Olivetti. 
Insomma lui di gerarchie interne a questo merdaio liberalcapitalista se ne intende!
Cos'è successo nelle settimane scorse che, rischiava di incrinare questo clima idilliaco di cittadini tutti indignati contro i politici corrotti?
È tornato Garofano dal suo esilio dorato (perché è tornato?) ed è scoppiato in modo organico il "caso Enimont", che rappresenta l'espressione più coerente del sistema delle tangenti, che poi non è altro che il sistema di potere che, in una forma o nell'altra, ha sempre imperato in Italia per tutto il secolo. 
Questo sistema era, ed è ancora fondato sulla simbiosi fra imprenditori economici capitalistici e interessi elettorali clientelari. I grandi gruppi privati pagavano tangenti per avere appalti pubblici in regime di monopolio, senza subire concorrenza. Sul piano strettamente imprenditoriale, chi ne pagava le spese erano le piccole e medie imprese più legate al mercato e con minore peso politico.
Enimont rivela tutto questo intreccio clientelare e mafioso, e rischia anche di determinare un possibile scollamento fra il ceto medio imprenditoriale e il grande capitale finanziario, con conseguenze imprevedibili sullo stesso sviluppo della Lega Nord che, di questo ceto medio, esprime le istanze più qualunquistiche e retrive.
Cos'è successo attorno ad Enimont fra l'89 e il '9l? L'ENI, uscita da un periodo di ristrutturazioni, risultava all'epoca in attivo; e l'orientamento di Gardini fu quello di approfittarne secondo la vecchia regola italiana: «statalizzare le perdite, privatizzare i profitti». 
Ne consegue che la Montedison spinse per un grosso polo chimico nazionale che, nelle intenzioni dei dirigenti dell'industria statale, avrebbe dovuto caratterizzarsi per una paritaria presenza tra pubblico e privato (40% all'ENI, 40% alla Montedison, 20% di azioni da far fluttuare liberamente sui mercati borsistici). 
Gardini voleva invece acquisirne il controllo, facendone di fatto un gruppo privato col supporto finanziario e politico dello Stato. Nacque dunque Enimont. L'operazione fallì subito, e il nuovo polo chimico nazionale andò in rosso. Uno dei motivi di questo fallimento erano proprio (udite bene!) le industrie private del gruppo Montedison, tipo l'ACNA, i cui impianti risultavano del tutto obsoleti e inadeguati a reggere la concorrenza internazionale.
A questo punto, di sua autonoma iniziativa (si sottolinei bene anche questo punto!), Gardini pagò la maxi-tangente di circa 280 miliardi ai papaveri DC-PSI per poter vendere la sua quota di azioni Enimont allo Stato al massimo prezzo possibile, scaricando sul bilancio pubblico, già in deficit da vent'anni, le perdite del gruppo privato, i debiti acquisiti e i costi di un'eventuale ristrutturazione. Su pressione del CAF, il Governo pagò dai 2.000 ai 3.000 miliardi alla Montedison per rilevarne la quota Enimont; miliardi rigorosamente investiti, attraverso banche svizzere, in titoli di Stato che, come noto, costituiscono la fonte primaria del disavanzo statale. 
Calcolando le spese d'acquisto, le perdite da ripianare, le ristrutturazioni da effettuare, gli interessi sui titoli di Stato, la somma del denaro pubblico sprecata attorno alla vicenda Enimont potrebbe salire a decine e decine di migliaia di miliardi. Ma la responsabilità prima di questo giro di affari sporchi e costosi per il contribuente a chi risale? A Craxi o a Gardini? 
È qui il nocciolo della questione che non deve venire chiarito all'opinione pubblica! L'iniziativa fu di Gardini sin dall'inizio e in tutte le fasi dell'operazione, ed i politici ladri facevano comodo per portarla a buon fine.
In questo contesto (sarebbe meglio dire in questo merdaio!) noi possiamo individuare due ordini di responsabilità. 
L'uno diretto e personalizzato, da individuarsi nella persona e nell'operato di Gardini (si fosse suicidato prima!). L'altro indiretto e impersonale da far risalire al particolare sistema capitalistico formatosi in Italia, sin dagli anni di Agostino Depretis. Un sistema fondato sulle collusioni illegali strettissime fra istituzioni, politici e grandi imprenditori. Per inciso, fu questo sistema a strozzare fin dall'inizio, fra il '33 e il '34, il Corporativismo e le coraggiose iniziative di Giuseppe Bottai e del suo seguito di intellettuali e militanti, a cominciare da Ugo Spirito.
Ora, se Gardini avesse parlato, chi poteva coinvolgere nell'inchiesta, visto che ormai si parla persino di traffico d'armi con il Medio Oriente attraverso petroliere ENI? Innanzi tutto l'intero mondo imprenditoriale, a cominciare dalla FIAT, che di questo sistema, negli ultimi decenni, è stata il vero perno e animatrice. E poi chissà quali collegamenti internazionali, visto che ogni grande gruppo nazionale funge ormai da polo per più complesse e ampie strutture transnazionali. È tutto questo sottobosco di grandi imprenditori e interessi economici che non deve emergere nelle aule dei tribunali e di fronte all'opinione pubblica. In caso contrario rischierebbe di saltare l'intera operazione volta ad usare Di Pietro per avviare un ricambio politico interno al sistema, e funzionale ad un suo rafforzamento. 
Suicidandosi, Gardini non può più fare nomi, e soprattutto finisce in ombra nel quadro di una inchiesta che si sta nuovamente scaricando sui politici. A questo punto hanno una loro logica anche le bombe. Potrebbero rientrare in una strategia dell'avvertimento ai Giudici e ai nuovi politici che stanno assumendo il controllo politico del Paese. Le esplosioni notturne lanciano un preciso messaggio in codice: l'inchiesta e il rinnovamento in corso non devono debordare dai paletti e dagli argini che abbiamo delimitato.
Oltre tutto in questo clima confuso e torbido, è possibile utilizzare politicamente le stragi per rafforzare l'odio della società civile verso i vecchi politici e i vecchi partiti in liquidazione. 
Una simile strumentalizzazione parte da alcune coincidenze cronologiche, che agli occhi dell'opinione pubblica diventano con moto spontaneo teoremi indiscutibili. Craxi parla di bombe e le bombe scoppiano. I giudici indagano su Andreotti e riemerge la strategia della tensione, ecc., ecc. Diviene chiaro che, in un contesto di opinione così distorto, un'operazione stragista volta a salvare la Confindustria e chissà quali altri centri di potere economico-finanziario internazionale, può essere spacciata per un'operazione finalizzata ad impedire l'incriminazione di Forlani e Andreotti nell'inchiesta Enimont.
Ma cosa contano ancora Forlani e Andreotti? Il loro impero è crollato come un castello di carte, con forti analogie con il crollo repentino del Regime Fascista nel 1943. Certe situazioni stanno ripresentandosi. Allora come oggi, furono gli industriali, collegati ad ambienti economici internazionali, ad aprire una crisi che era inevitabile. Allora come oggi, fu facile, di fronte ad un'opinione pubblica impazzita, scaricare ogni responsabilità sulla classe politica, ieri Mussolini, oggi Craxi (fatte naturalmente le debite differenze sulla statura politica, storica e morale tra i due personaggi).
Allora come oggi; industriali e apparati amministrativi si salvarono e rafforzarono il loro dominio sulla società italiana. Allora come oggi si passò da una politica economica dirigista ad una economia liberista.
Allora come oggi tutti si scoprirono dalla sera alla mattina contro, come si espresse Alberto Sordi nel film "Tutti a casa": nel 1943 antifascisti, nel 1993 antipartitocratici, e soprattutto antisocialisti e antidemocristiani. Quali indicazioni politica trarre da queste notazioni per l'area delle forze antagoniste alla quale ci rivolgiamo? 
La nostra azione deve essere orientata a denunciare le responsabilità del mondo imprenditoriale, riconvertendo il sentimento antipartitocratico della società civile in sentimento anticapitalistico. Come affermò e ordinò Mao Tze Tung, fra il '64 e il '66, è venuto il momento di «sparare sul quartier generale» (metaforicamente si intende! Non vorrei che i questurini che leggeranno, per dovere amministrativo, questo giornale fraintendessero e si facciano paranoie inutili!). 
Il quartier generale del Sistema Italia non è Via del Corso o il Parlamento, ma la Confindustria con tutto l'insieme dei collegamenti internazionali che vi gravitano attorno.

Renato Pallavidini

 

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