da "AURORA" n° 10 (Ottobre 1993)

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Il riccio e l'anaconda

Francesco Moricca

Leggo sul numero 7 di "Aurora" (luglio '93) la lettera di Pallavidini in cui si esternano importanti riflessioni e preoccupazioni. Vi trovo una precisa e motivata critica alle posizioni di Terracciano e mie, specie per quanto riguarda l'articolo su Gengis Khan apparso sullo stesso numero del giornale.
Ciò che mi ha molto impressionato è il richiamo ai «molti dubbi che aleggiano nell'aria, e che rischiano di determinare da un momento all'altro il solito, inutile e controproducente, temporale interno ad un'area che, partendo dalla pretesa d'allargarsi verso nuove sintesi (...), rischia di assottigliarsi e disgregarsi sempre di più».
Parole certamente veritiere, ma che non devono indurci a drammatizzare, perché la dialettica, in particolare la dialettica tra sinistra e destra, è sempre esistita all'interno delle formazioni politiche. 
Esisteva quando ancora vi era una destra e una sinistra, e non può certo sparire in un attimo, quando si accinga a superare queste categorie fondamentali del vecchio modo di interpretare e fare la storia. Anzi è normale che la contrapposizione tenda ad acuirsi agli inizi, per cause insieme soggettive e oggettive. Non possiamo infatti non risentire, né come individui né tantomeno come movimento, dello stato confusionale proprio della realtà in cui viviamo.
Quanto ai "dubbi", sono fecondi quando stimolano il pensiero e l'azione, dannosi ed esecrabili in caso contrario. La discriminante tra buoni e cattivi dubbi è non già in una pretesa "retta teoria", ma la volontà di costruire una teoria e di verificarla senza essere condizionati da pregiudizi esistenziali, consapevoli o inconsapevoli che siano. 
Nel nostro caso, questa discriminante coincide con la volontà dell'unità. Dico dell'unita ad ogni costo. Sono convinto che non esistano alternative alla scelta che ciascuno di noi ha fatto a suo tempo entrando nel movimento. 
Oggi più di ieri fuori di noi è il vuoto. Siamo fanatici? Lasciamo pure che lo pensino gli altri. 
La verità e che siamo aperti e disponibili verso chiunque, senza altra pregiudiziale che non sia quella di operare contro ogni interesse particolaristico; non secondo una concezione materialistica ed economicistica dell'interesse, ma secondo una concezione spiritualistica che in termini politici significa interclassismo, assoluto rispetto delle identità nazionali e dell'autodecisione dei popoli, federalismo nel senso romano dell'Imperium per cui l'Impero Romano fu una federazione di "poleis" che affidavano a Roma il supremo potere arbitrale nel caso di conflitto insanabile tra la libertà delle "partes": un'interpretazione della romanità questa che fu condivisa -giova ricordarlo- dalla stessa storiografia sovietica.
Il conflitto ontologico fra spiritualismo e materialismo si manifesta in politica come conflitto tra destra e sinistra. 
Alla stessa maniera, nella vita privata di ognuno, esiste un conflitto tra anima e corpo, un conflitto irriducibile che non bisogna neanche sperare di poter cancellare (illusione tipica di tutti gli integralismi immaturi), perché è costitutivo del nostro essere uomini, è la stessa radice della nostra libertà. 
È per questo -e non è poco- che siamo contro la società attuale, disorganica, edonista, pusillanime. E siamo con i poveri perché è nella povertà materiale che si sviluppano le potenzialità veramente superiori dell'uomo. 
Ma non per questo siamo necessariamente pauperisti. Possiamo essere cristiani o pagani, ma solo in quanto vi è, e se vi è, continuità fra cristianesimo e paganesimo, continuità nel senso del meglio e non del peggio. Non vogliamo distruggere la borghesia né come classe né tanto meno fisicamente, ma vogliamo porre fine alla sua dittatura mascherata di finta libertà, disgregatrice, usuraia, assassina.
Diciamo a Pallavidini: per dare sangue e corpo alla nostra rivoluzione restauratrice occorrono dei miti e i miti devono essere antichi o non sono miti. 
La semplice perplessità sul vantaggio che si può trarre dai nostri miti ci espone al rischio di cadere nostro malgrado in quell'illuminismo la cui negazione radicale costituisce l'essenza ultima e irriducibile della nostra identità non solo politica. Le "rune", Ungern Khan con la sua «faccia spiritata», Gesù Cristo -anche lui in un certo senso con la «faccia spiritata»- non solo possono, ma devono andarci bene. Sono molto "serio" nell'affermarlo, tanto "serio" da potermi permettere anche una punta di autoironia. Sarei stato coi Bolscevichi contro Ungern, e con quelli come Ungern dopo la vittoria dei Bolscevichi. 
Puro spirito di contraddizione? Oppure certezza interiore che la giustizia sta sempre dalla parte dei perdenti? 
Mi piace, caro Pallavidini, quello che dici con molta incisività nel tuo "Sporchiamoci le mani", e credo che quanto ho appena detto lo confermi nella maniera più esaustiva. Si sporchiamoci le mani, se è necessario. Ma se non è necessario, o se può essere controproducente, non sporchiamocele. 
La tendenza al realismo politico, che è tua come di Costa, costituisce la componente di sinistra in seno al nostro Movimento, che è certamente di destra. Anche Benvenuti appartiene alla sinistra, ma in un modo -mi sembra- meno rischioso. 
Non è un male e la stessa presenza del rischio è un bene, una garanzia di autenticità e di quel radicalismo che è indispensabile in chi voglia avere le carte in regola per presentarsi come realmente alternativo e antagonista. Peraltro, ontologicamente, non può definirsi la destra senza che nel suo concetto non sia contenuto anche il concetto di sinistra, dialetticamente, in unità teoretico-pratica.
Quindi la lotta per l'egemonia della destra sulla sinistra non può mai avvenire nei termini di lotta intestina, di prevaricazione. La vittoria della destra deve avvenire spontaneamente e deve presupporre uno spirito di unità ad ogni costo.
Quindi la nostra pretesa di superare la classica distinzione di destra e sinistra non va intesa alla lettera, né per ciò che riguarda i nostri rapporti con l'esterno (con Rifondazione Comunista in particolare), né, a maggior ragione, per quanto riguarda i nostri rapporti all'interno del gruppo.
Diversamente, per eccesso di realismo, si finisce col perdere il senso della realtà e si cade nella crisi del dubbio, troppo legati a problemi contingenti e alla necessità di radicarsi concretamente nel sociale, di trovare risposte ai pressanti problemi della gente. Questi ultimi -ricordiamocelo- sono pressanti solo quando veramente la gente li sente tali; e mi sembra che ancora siamo lontani da questa condizione imprescindibile e che è assai fuorviante e in definitiva totalmente falsa la strategia della vecchia sinistra secondo cui il ruolo degli intellettuali sarebbe quello di accelerare il processo di autocoscienza delle masse.
È molto pericoloso e indice di insufficienza teorica il fatto che le difficoltà insormontabili del momento inducano sfiducia e in generale ammissioni di debolezza (come peraltro avverte Costa nel suo editoriale) le quali non possono non avere ripercussioni negative... Non tanto, mi pare, nei confronti degli avversari -che bisogna non sottovalutare ma neanche sopravvalutare- quanto piuttosto nei confronti dei nostri naturali interlocutori: quella gente che noi vogliamo avvicinare e persuadere.
La gente ha assoluto bisogno di certezze, questo è il suo problema di fondo. 
Cosa può pensare di fronte alle nostre ammissioni di debolezza? 
Certo che siamo onesti. Ma dell'onestà la gente ha bisogno relativamente, e riconosce d'istinto la gerarchia dei valori meglio di qualsiasi intellettuale.
Se le cose non vanno -diciamolo con franchezza e brutalità- la colpa è soltanto nostra: del fatto che in seno al Movimento il realismo della componente di sinistra si manifesta come pessimismo. 
Meglio, cento volte meglio, quello che suggerisce Benvenuti sulla scorta di Junger: "Riguadagnare il bosco".
Non basta gramscianamente fare appello all'ottimismo della volontà. Bisogna andare oltre qualsiasi atteggiamento che sia per qualche verso umano, esistenziale. Dobbiamo prendere le distanze da qualsiasi atteggiamento esistenziale. Mi si consenta; bisogna sapere disprezzare la realtà. Diversamente non riusciremo mai a dominarla, e ne daremo comunque e sempre dominati
No, Pallavidini. Questo non significa affatto abbandonare il campo per rifugiarsi comodamente nella fede iniziatica della palingenesi finale. Se le cose vanno di "male in peggio", perché snervarsi inutilmente nel tentativo di fare "una politica di casa nostra" rinunciando alla grande progettualità, alla geopolitica, all'Eurasia, alla nuova Santa Alleanza con i popoli islamici e del Terzo Mondo?
La sfiducia per la mancata seconda Rivoluzione russa mi sembra esagerata. La storia della Russia ha una logica "sui generis", imprevedibile. Lenin lo sapeva bene e per questo fu possibile la Rivoluzione d'Ottobre, in un determinato contesto internazionale che lui solo e non altri seppe sfruttare
La diffidenza sulle possibilità rivoluzionarie dell'islamismo mi sembra poi del tutto immotivata.
Venendo ai fatti di casa nostra, la presenza di tanti extracomunitari è realtà indiscutibile che attesta la possibilità di utilizzare la geopolitica ai fini di superare le angustie di orizzonti ristretti e di sbloccare situazioni interne di stallo. È infatti interesse del popolo italiano avere rapporti con coloro che ancora sono radicati nei valori della Tradizione e possono aiutarci a ritrovare i nostri. 
Ciò è un bene, per quanto alto possa essere il prezzo da pagare. 
Anche i fatti più o meno recenti di "intolleranza razziale" possono avere un aspetto positivo, se lo si sa individuare e utilizzare, come deve essere nostro compito e solo come una prospettiva di largo respiro politico può consentire. I fatti di Somalia insegnano. Né va taciuto al riguardo il ruolo avuto dal Governo italiano -da questo Governo per tanti versi pessimo- nel gestire con accortezza e dignità una situazione che gli Americani credevano di poter risolvere contando sul pecorile assenso degli Alleati e, nella fattispecie, dell'Italia. 
Non si tratta di entusiasmarsi per una pretesa rinascita del colonialismo italiano. 
Si tratta solo di riconoscere, con onestà e senza nessun intento di strumentalizzazione, che in Somalia Italia è stata all'altezza della tradizione romana imperiale, quella vera, non quella imperialistica in senso deteriore. Si, questa povera Italia stracciona e disprezzata da tutti, si è saputa meglio condurre come la Francia e la Germania, forse meglio, almeno questa volta. 
Che un Governo come l'attuale, espressione di un Parlamento formato in massima parte da inquisiti e da servi dell'usurocrazia, sia riuscito a tanto, deve farci riflettere, se non altro perché noi non si sia al di sotto dell'avversario. Almeno quanto ad intelligenza politica.
Dunque, niente ottimismo. Ma neanche pessimismo. 
Noi costituiamo per il momento solo una forza irrisoria. Però abbiamo la forza dei princìpi che è la più grande. Non disperdiamola a causa di considerazioni troppo realistiche; guardiamo lontano e troviamo la forza di disprezzare la nostra angoscia personale, che ci stringe nella sua morsa e che è il più efficace alleato del leviatano mondialista Siamo fino in fondo fedeli a noi stessi come persone singole, e animati da incrollabile spirito di unità, di reciproca lealtà e fedeltà. 
Prendiamo ad esempio il riccio di mare e la sua tattica di difesa e di attacco. Contro l'Anaconda usurocratica il Riccio antagonista. Dovremmo essere un po' più "mobili" rispetto a questo piccolo ma coriaceo animale. Però senza sacrificare la sostanziale staticità della sua natura. 

Francesco Moricca

 

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