da "AURORA" n° 10 (Ottobre 1993)

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Né coi barbari né coi mariuoli

Alberto Ostidich

Qualcuno già se n'è accorto: non riesco a sopportare i leghisti, singoli od associati, e nemmeno in piccole dosi o in formato famiglia. Quel Bossi, lì, mi sta il più antipatico di tutti: troppo volgare, troppo grezzo e furbastro per non surclassare la pur agguerrita concorrenza dei politici sulla piazza!
Ed il "nuovo che avanza" mi sembra addirittura, per molti aspetti, peggiore del vecchio che indietreggia. 
Ne mi convincono i "Segni" del cambiamento: le nuove figure del moralizzatore DOC, il professionista dell’antipartito, il rinnegato che rinnega di rinnegare... 
E non mi piacciono né gli anticomunisti del post-comunismo, né i giudici non giudicabili, o i disonesti che s’indignano della disonestà (altrui), o i porno-vergini della nuova politica...
Ma quale politica, poi? 
La politica, in Italia, è stata ufficialmente abrogata e sostituita dagli avvisi di garanzia. Oltreché, ovviamente, dal nuovo. Un "nuovo" tecnico, tutto spirito pratico e di servizio, un nuovo che brilla di luce propria, immacolato e morigerato. Solo cifre, numeri e rispettabilità.
Sarò allora un passionale fazioso e sognatore, o un romantico che ha finito per l’innamorarsi della sua impoliticità, o sarò forse un incompreso che non comprende il nuovo -sarò tutto questo ed altro (di peggio) ancora- ma a me la faccenda dei tempi nuovi, federati, rinnovati o riciclati e messi a nuovo non mi sta bene. Anzi se permettete, mi fa pure un po' schifo. 
Se permettono, i tempi nuovi e nuovissimi, a tale Cipolletta -che, ad onta del nome Innocente, è il direttore generale della Confindustria- di esprimersi così: «Va superato il culto del salario minimo per arrivare, nelle zone a più alto tasso di disoccupazione, a negoziare col sindacato retribuzioni anche al di sotto dei minimi» (Repubblica - 9 sett. '93). Se a queste tracotanti affermazioni si aggiungono quelle rese dalla controparte (!), per bocca di Sergio D’Antoni, con cui veniva auspicata la riduzione del 30% degli stipendi, ebbene se a questi nuovi schiavisti di razza padronale o di razza servile, ciò viene impunemente consentito, lo schifo di cui sopra trova (io spero) una sua legittimità. 
Tira aria pesante, qui in Italia. 
Altro che aria nuova! È un’aria sempre più chiusa, conservatrice, rigorista. Ma se il rigore è d’obbligo per i priapici duristi lumbard, ecco il popolo di Bossi rinfrescarsi l’abito appesantito dalle rissose sbornie da osteria; eccolo là a ripulirsi alla bell'è meglio dalle incrostazioni demagogiche e a deodorarsi degli afrori populistici, e così riscoprire la propria naturale vocazione piccolo-borghese. È questo gran ritorno alle origini che ha permesso alla Lega di entrare finalmente nel "giro giusto", di guadagnarsi l’accesso ai salotti buoni!
«Il mercato unisce, la politica divide». Così parlò Berlusconi. È, annusata l’aria, la Lega si è prontamente offerta come mezzana fra il mercato e la politica. Ormai è sulla Lega che, sul versante politico, si punta per restaurare il mercato. 
È alla Lega che in modo sempre più scoperto fanno affidamento i ceti emergenti; i centri finanziari, l’imprenditoria privata, persino i padroni d’Oltreoceano...
Certo, il Potere non può non riservarsi anche altre carte (forse il PDS o magari il nuovo PPI ...): purché queste siano in regola con il loro giuoco. Appare però di tutta evidenza, come esista, allo stato attuale, un asse preferenziale con la Lega Nord, data per vincente in un’area economicamente strategica da parte di "coloro che sanno" e fanno. 
Ma sarà il futuro a dirci chi tra i nuovi si vedrà assegnare la vincita per conto terzi.
Pensare che, fino ad un paio di anni fa, regole e premi erano del tutto diversi!... 
L’osservazione -d’accordo- non è delle più originali, ma lo faccio per averne avuto un vivido riscontro, di recente, con il ritrovamento di un vecchio numero dell'"Europeo" (n° 26 - 91), dimenticato in un cassetto e così salvatosi dal macero. Varrà la pena di sfogliarlo assieme.
Eravamo dunque verso la fine di giugno. Un paio di settimane prima, c’era stato il famoso referendum sulla preferenza unica -quello, per intenderci, di Segni e dell’invito di Craxi ad «andare al mare», ma anche della (dimenticata) astensione leghista- e subito dopo si erano tenute le "regionali" in Sicilia, che avevano dato un quadro quantomai stabilizzato: ampio successo della DC (42,3% e 39 seggi), consolidamento del PSI attorno al 15%, aumento di un percentuale al PSDI, ecc.
Inoltre, sempre sul quel numero ritrovato dell'"Europeo", potevamo rileggere una (esilarante, col senno del poi) intervista al funereo D’Alema che invitava con accenti accorati il segretario del PSI ad una alleanza «per non essere entrambi schiacciati dalla DC»... 
E si può e si poteva anche vedere, su quella rivista di 27 mesi fa, un Craxi a tutto tondo, che nonostante la gaffe balneare era saldamente in sella ad una potente, rossa Ducati e circondato da managers plaudenti e sorridenti.
O anche leggere 6 pagine sul caso ENIMONT talmente ossequenti al genio di Raul Gardini, da far ritenere gli autori (Giuseppe Turani e Giorgio Benvenuto, fra gli altri) pagati un tanto al chilo o a riga, oppure che si trattasse di titolati e grossolani fessi, anche se una cosa non esclude l’altra. Ma la parte più significativa e divertente di quel settimanale riguardava (teniamo presenti gli allora recenti esiti referendari ed elettorali in Sicilia...) l’attuale diretùr de "L'Indipendente", a quei tempi direttore del periodico rizzoliano: Vittorio Feltri. 
Il non ancora portavoce del verbo bossiano, allora così iniziava il suo pezzo, scritto all’indomani della proclamazione di Mantova capitale dell’Italia del Nord: «Dunque la Lega ha fondato, con la consueta cialtroneria, anche la Repubblica del Nord». 
E proseguiva definendo «mediocre bravata» l’iniziativa, la quale aveva provocato «legittima ironia e indignazione». Concludeva poi con l’invito ai partiti di «non limitarsi a constatare che i nordisti hanno un linguaggio da bar, poche idee ed un programma vago», ma «a migliorarsi, a togliere argomenti alla protesta» così da fare in modo di non sentir più parlare del sen. Bossi!
La citazione e il florilegio sono davvero lunghi, eppure sono da ritenersi esemplari del livello politico e morale, della lungimiranza e dell'onestà intellettuale degli alfieri del nuovo, uniti alla vecchia classe dirigente dalla stessa miopia, dallo stesso trasformismo, dalla stessa viltà. Ci separa, da quel numero 26 del 28 giugno 1992, la sequela di "Tangentopoli". Essa, come tutti ricorderanno, inizierà solo alcuni mesi più tardi, nel febbraio '92. E Tangentopoli avrà, e sta avendo, il grande merito d’aver posto in luce uno spaccato turpe della vita italiana, un losco mercato di politica ed affari che ha aggrovigliato l’intero regime democratico. Noi, per la verità, noi antagonisti di lunga data, non fummo particolarmente sorpresi dall’entità del fenomeno malavitoso, così come non ci sorprende che, tramite Tangentopoli, oggi si voglia contrabbandare per nuovo un processo di restaurazione e di riallineamento del Paese in senso plutocratico.
Ma tant'è: la gente ancora s’illude o non se n'è ancora accorta.
E c'è poi da chiedersi se valga effettivamente la pena, per i pochi oppositori rimasti, darsi da fare per smuovere le coscienze, per ridestare i propri simili. La risposta -tutto sommato- dovrebbe essere negativa: ciò non tanto a causa delle scarse possibilità di successo (il che deve essere ritenuto ininfluente ai fini della volontà di agire), quanto dei destinatari dell'azione, i quali non sembrano meritare, assai spesso, alcun tipo di interessamento.
Desolanti risultano infatti il quadro politico e l'insieme sociale entro cui "darsi da fare". La gente alla quale rivolgersi -dalle nostre parti- non è popolo ma plebe. Anche se coperta da "capi firmati", anche se parla "basic italian", anche se alfabetizzata dalle "telenovelas". 
Gente -nella sua generalità- mediocre, ignorante, egoista e che si riconosce idealmente nelle mete, nelle aspirazioni e nel lessico del nuovo ruspante rappresentato da Umberto Bossi, ovvero dal nuovo perbene di Mariotto Segni.
Una sorta di intima complicità esiste tra dominanti e dominati, di ieri come di oggi. 
La gente, insomma, si è ampiamente meritata la guida dei Pomicino, dei De Lorenzo, dei De Mita; quella gente è stata meritatamente truffata dai vecchi mezzadri del potere ora in difficoltà. Ma, certo, le difficoltà non sono venute da una rivolta popolare, ma semplicemente da una decisione di vertice, da una operazione di ricambio del ceto politico e di scissione dell’antico rapporto fiduciario con il vecchio gruppo dirigente.
Il nuovo, in politica, appare più che mai incerto, ondivago. E i politici, in gran parte senza fissa dimora, sono in attesa di sistemazione. Ma una cosa, almeno, caratterizza il nuovo di qualsiasi colore e provenienza: la sudditanza al potere, quello vero, quello del capitale. 
Nuovo è sicuramente, ad esempio, il proporre la chiusura "sic et simpliciter" di attività non lucrative, nuovo è sbarazzarsi delle eccedenze, invitandole a trovarsi una diversa occupazione se, quando e dove il mercato tirerà. E, qualora le eccedenze accompagnassero strane pretese, ecco finalmente il momento di usare le maniere forti! Aboliti i vecchi ammortizzatori sociali (se li son portati via con gli aiuti ai Paesi sottosviluppati, con gli sprechi e le ruberie delle "cattedrali nel deserto", con il sistema delle bustarelle...). 
Siamo dunque nelle mani rapaci di lorsignori.
Non serve Romiti, a ricordarci che -incidenti di percorso a parte- «il capitalismo è più vivo e vegeto che mai»! Non serve a rammentarci le condizioni di «iniquo servaggio», la colpevolizzazione del «costo del lavoro» quale causa principale, se non unica, della crisi; crisi sino a ieri cogestita da vecchi e nuovi politici, assieme ai nuovi trusts economico-finanziari! Resta per noi evidente come si intenda continuare -e in modo sempre più aggressivo- ad esercitare il rigore a senso unico: in direzione di un gregge che pensa di risolvere "i problemi" cambiando pastore (Segni, Bossi, Occhetto...).
«Vulgus decipi vult ergo decipiatur». La gente vuol essere ingannata, quindi la si inganni. E via con i tagli necessari, via con le privatizzazioni salvifiche, via con i sacrifici per tutti (...). Importante è abbassare i tassi d’interesse, fiscalizzare gli oneri sociali, abolire la "minimun tass", dare incentivi economici alle aziende; vale a dire, sostenere ancor più quel mondo affaristico-imprenditoriale che, da sempre, ha condizionato la vita politica, sociale e umana del nostro come di tanti altri Paesi. Un mondo che si è imposto -almeno qui in Italia- con la tangente istituzionalizzata, che si è arricchito con gli "sgravi", che ha tratto profitto dalla capitalizzazione dei guadagni e dalla socializzazione delle perdite.
Al mantenimento di un simile sistema liberalcapitalistico (avido e corruttore, ben oltre i pochi esempi sopra riportati) io non ci sto. 
So di essere in scelta e ristretta compagnia, nel rivendicare l’autonomia e l’originalità della "nostra" area di rifiuto. Certo la nostra (e mia) voce antisistema può apparire pateticamente flebile, se confrontata al rumore assordante degli innumerevoli laudatori dei "tempi nuovi"; epperò si tratta di una voce limpida, decisa a crescere e a salire di tono. Decisa anche a cercare echi che la riprendano e a trovare voci con cui formare un coro.
Sì, ambisco e ambiamo -magari con un pizzico di sana follia- di essere parte attiva di una pluralità di voci fra loro distinte, ma unite su una stessa lunghezza d’onda. Per proclamare assieme il "socialismo che non c'è". 
Per ripensare ad un socialismo conscio del proprio ruolo antagonista, in un'epoca dove le opinioni, le pulsioni, le esigenze di tutti e di ciascuno vengono predeterminate e coartate.
Per un socialismo che si ponga il problema della partecipazione popolare non in termini di episodi elettorali, bensì di coinvolgimento costante nella vita comunitaria. Per un socialismo dei doveri e dei diritti, che si traduca, nel campo del lavoro, in forme di compartecipazione e di cogestione. Per un socialismo che rivendichi la sua natura e funzione storica anticapitalista; soprattutto da quando l'alta finanza e la Banca Mondiale soffocano e comprimono le scelte di politica nazionale; ma anticapitalista anche perché, paradossalmente, tale sistema si è rivelato contrastante la stessa iniziativa privata, che è una delle libertà personali che "il socialismo che non c'è" dovrebbe salvaguardare e valorizzare.
Per un socialismo orgoglioso di schierarsi dalla parte dei vinti. E che nei grandi temi del 2000 sappia adeguare il proprio messaggio ad esigenze di radicalità. Un "socialismo manicheo", verrebbe da dire, se quest’ultimo termine non avesse assunto significati e valenze tanto equivoci e negativi. Per un socialismo che sappia assumersi, vincendo la guerra delle parole, il ruolo ingrato di stabilire -fuori dall'ampia zona grigia della neutralità- l'amico e il nemico.
È questo tratteggiato con poche scarne frasi, un socialismo che non c'è e, forse, non c'è mai stato. È una ragione in più per ritenerlo oggi l’unico socialismo possibile.

Alberto Ostidich

 

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