da "AURORA" n° 10 (Ottobre 1993)

RECENSIONI

 

Franco Morini

Parma nella Repubblica Sociale

Ed. La Sfinge, 1991   pp. 408   £. 48.000

 

Nel quadro delle recenti rievocazioni dell'armistizio dell'otto settembre e degli eventi che vi si collegarono nell'Italia di cinquant'anni fa, si è inserita degnamente quest'opera, la quale, come appare evidente dal titolo, è il risultato di una ricerca svolta nell'ambito della microstoria. 
Nel caso in questione, però l'indagine di eventi circoscritti ad una dimensione provinciale diventa un contributo essenziale per una storia che abbracci orizzonti più ampi. 
E ciò a maggior ragione, se si considera che le vicende della Repubblica Sociale Italiana sono, sul piano della rappresentazione storica, alquanto penalizzate dalla scarsità e dalla dispersione della documentazione, nonché, è inutile dirlo, dal peso che hanno tuttora le passioni di parte. 
Va detto subito che il libro di Morini concede molto poco alla retorica, all'agiografia e alla mitologia, pur essendo l'Autore decisamente schierato da una parte. 
Comunque lo sforzo di obiettività che ha presieduto a questa ricerca viene testimoniato fin dalle prime pagine del libro, che si apre significativamente con una duplice prefazione: di un ex-ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana e dell'ex-primo comandante delle formazioni partigiane del settore Est-Cisa. 
Nelle 400 pagine del libro (che è arricchito da vari elenchi comprendenti 5.000 nomi, nonché di decine di foto e documenti per lo più inediti) vengono presi in esame gli eventi che si susseguirono nella provincia emiliana dall'8 settembre '43 sino all'aprile del 1945; e di tali eventi vengono esplorate le pieghe meno ufficiali. 
Ne risulta una ricostruzione che colloca fatti e personaggi nella loro luce reale, svelando anche taluni retroscena finora misconosciuti o scientemente occultati. «Un libro impietoso, che riapre qualche piaga», è stato detto da alcuni critici. 
Ma, possiamo aggiungere, un libro che colma un vuoto nella storiografia relativa a quegli anni della nostra storia. 

 


 

Pierre Drieu La Rochelle

Diario di un delicato

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1987      pp. 68   £ 10.000

 

Secondo il Curatore di questa edizione italiana del "Journal d'un délicat" (lo stesso che ha tradotto in italiano "L'homme à cheval" e "Les chiens de paille"), con questo romanzo Drieu ha prodotto «il più grande saggio sulla sterilità che sia stato scritto in questo secolo». La vicenda del protagonista, che costringe l'amante a rinunciare per sempre alla maternità, è rappresentativa della sterilità in cui rischia di estinguersi l'Europa: la sterilità è l'effetto biologico della rochelliana décadence. In questo quadro di morte non rientrano soltanto la pratica dell'aborto e, più in generale, il rifiuto di procreare, ma anche un altro costume che caratterizza, con tutti i suoi corollari pestilenziali, l'attuale fase della nostra decadenza, ossia l'omosessualità. Frédéric, il pederasta del romanzo, è cristiano. Ebreo è invece il datore di lavoro del delicato: «L'arte, per lui, è l'oggetto di una speculazione febbrilmente restrittiva; un quadro ai suoi occhi è un oggetto; anzi, neppure: un segno, una cifra. Per me, invece, un quadro è l'articolazione d'una preghiera».
La storia del delicato procede di pari passo con le sue meditazioni sulla storia delle religioni. Accanto ad alcune ingenuità, troviamo nel Diario osservazioni di un'estrema lucidità, ad esempio su quello che Guénon ha chiamato "il pregiudizio classico". Drieu infatti privilegia la fase arcaica della civiltà ellenica su quella cosiddetta classica: «Non è senza orrore -scrive- che penso a ciò che doveva essere il Partenone ai suoi tempi: luogo della piccola gloria di un popolo democratico, un popolo che voleva esser guidato dai suoi ricchi solo in segreto...».
Vi sono pagine in cui il Diario tocca vertici di alta spiritualità, come, ad esempio, quando Drieu esprime a modo suo la nozione dell'Unità divina: «Solo, solo, solo (...). Il mondo non è Dio, io non sono Dio. Ma Dio solo è». Sono accenti nei quali sembra di poter cogliere l'eco dei grandi maestri spirituali.
Ma a queste illuminazioni eccezionali corrisponde un altro aspetto della décadence: quello che consiste in un approccio meramente teorico e libresco alle dottrine tradizionali, senza una partecipazione reale e rituale a una delle vie che conducono l'uomo al divino. 
Il delicato è anche questo.

 


 

Rapporto Leuchter

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1993     pp. 85   £.16.000

 

Il libro, che si apre con una presentazione di David Irving e una prefazione di Robert Faurisson, riproduce il testo della perizia stilata dall'ingegner Fred Leuchter, progettatore e costruttore di camere a gas per esecuzioni negli Stati Uniti d'America. 
Interpellato come perito di parte da Ernst Zundel, che era finito sotto processo in Canada per aver negato l'esistenza di camere a gas omicide nei territori occupati dal Reich durante la seconda guerra mondiale, Fred Leuchter si recò in Polonia ad ispezionare quelle che gli storici ufficiali definiscono le "camere a gas" di Auschwitz, Birkenau e Majdanek, prelevandone campioni di muri e calce (poiché il gas che si dice essere stato usato nei "campi di sterminio" aderisce alle pareti e vi permane per molte decine di anni). 
Ritornato negli USA, l'ingegner Leuchter fece analizzare i materiali e concluse, sulla base delle risultanze, che: «le presunte camere a gas allogate nei siti ispezionati non avrebbero potuto essere utilizzate né allora né adesso. Non si dovrebbe neppure prendere in seria considerazione l'opinione che esse abbiano funzionato come camere a gas per esecuzioni». (p. 55)
Al testo del rapporto ingegneristico segue, nel volume, una serie di utili appendici: mappe, dati di vario genere, riproduzioni di documenti ecc. 
Sulla prima e sulla quarta pagina di copertina, figurano due fotografie inedite e "provocatorie": in una si vede l'interno del teatro di Auschwitz, nel quale venivano organizzati spettacoli per i prigionieri e, pare, anche feste di ballo, mentre l'altra mostra la piscina, tuttora intatta, situata dietro il Blocco 6 del campo di Auschwitz. 
Né il teatro né la piscina vengono menzionati nella letteratura sterminazionista e non si trovano indicati nelle piantine "ufficiali" del campo di Auschwitz.

 


 

Robert Brasillach

Berenice

Ed. all'insegna del Veltro. Parma, 1986      pp. 55    £. 10.000

 

Ricalcando la leggenda dell'amore dell'imperatore Tito per la regina ebrea di Cesarea, Brasillach affronta (come farà nei Fratelli nemici) il problema delle contrapposizioni: qui le polarità contrapposte non sono soltanto Tito e Berenice, Roma e il giudaismo, ma anche il dovere e la passione, l'Impero e la decadenza, il vigore e l'estenuazione. 
Ciò è reso esplicito dalla presenza di un terzo personaggio, Paolino, che rappresenta la voce di una nuova gioventù, che si frappone tra l'Imperatore e la straniera, allontanando l'uno dall'altra in nome di Roma, del suo passato e del suo avvenire. 
All'ideale della "felicità", alla tentazione della decadenza, al richiamo del piacere privato, Paolino-Brasillach oppone l'idea della fedeltà alla propria essenza, finché l'Imperatore si risolverà decretando il verdetto: 
«Non posso essere felice contro il mio popolo».
Al contrasto tra l'amore e il dovere, che già aveva attratto su questa vicenda leggendaria l'attenzione di Racine e di Corneille, Brasillach ne aggiunge un altro, che alla forza di Roma oppone quello di una "nazione spaventevole". 
Secondo le parole di Berenice: «Il destino del mio popolo non si compie del combattimento. Altri sono i bisogni del mio popolo ed altra è la sua potenza. Vinta sui campi di battaglia, questa accozzaglia di mercanti, di filosofi, di usurai, di rivoluzionari e di banchieri (...) può essere per i suoi vincitori un aiuto considerevole. Bisogna renderci il nostro posto, altrimenti ce lo prenderemo... La mia razza sa nascondersi, sa tacere, sa condurre sotto la dominazione dello straniero la sua esistenza sotterranea e imperitura».
Nei pressi del ghetto di Roma, tra la Sapienza e Torre Argentina, si legge su qualche muro una parola scritta col catrame: "Berenice?"


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