da "AURORA" n° 11 (Novembre 1993)

L'INSERTO

 

Cinquant'anni fa, Ettore Muti

Il «Che Guevara» del fascismo

Daniele Gaudenzi

 

Quando Raul Gardini s’è tolto la vita l’hanno sepolto a pochi metri di distanza dalla tomba di Ettore Muti e qualcuno ha notato l’accostamento, rilevando la sorprendente affinità dei due romagnoli per tanti aspetti del loro carattere: la spavalderia, il gusto dell’avventura, la grinta tenace... Ettore Muti, d’altra parte, può ben essere definito il "Che" Guevara del tempo del Littorio, per l’aura romantica che lo circondava e la tragica fine nel pieno della vita. Anche Muti, come Guevara, un uomo bellissimo, forte, viso aperto, dolce e duro al contempo, uno sguardo fermo che esprimeva sicurezza e risolutezza. 
Energico e prestante, cordiale e simpatico, viso abbronzato, spalle quadrate, un fare scanzonato ed anticonformista, amante degli scherzi, Muti era tutto il contrario del classico gerarca tronfio e megalomane. Ettore Muti (al quale dedicarono, anni fa, un bellissimo libro il poeta Fernando Gori, nipote del grande anarchico, ed il conterraneo Michele Campana) era nato a Ravenna il 22 marzo 1902, primogenito di Cesare (impiegato del Comune) e di Celestina (rimasta vedova a trentasei anni); vennero poi le sorelle Linda e Maria. 
Si chiamava Angelo di secondo nome: il primo gli era stato imposto da uno zio argentino, ammiratore di Ettore Fieramosca, l’eroe della "Disfida di Barletta" celebrato da Massimo d’Azeglio (e ricordiamo che fra i dodici cavalieri italiani che si batterono contro i francesi c’era anche il romagnolo Romanello da Forlì). Da notare che papà Cesare prese l’iniziativa, nel '19, di far sostituire la "ipsilon" finale del cognome (si scriveva, infatti, Muty, così come, d’altronde, il generale forlivese Archimede Mischi, poi braccio destro di Graziani, per diverso tempo firmava Mischy, nome d’origine della famiglia polacca da cui discendeva). Fra l’altro, per quanto riguarda Muti, fu provato ch’egli discendeva dal canonico Muty, il prozio che, al seguito del celebre legato pontificio Cardinale Rivarola (portato poi sullo schermo da Ugo Tognazzi nel film di Luigi Magni), si beccò la palla di pistola destinata, nel corso d’un attentato, al porporato della repressione pontificia in Romagna. 
Ma Muti, quando glielo ricordavano, ribatteva seccamente: «Macché canonico, io non ho preti in famiglia!». Da buon anticlericale romagnolo (era stato repubblicano prima di diventar fascista) che, peraltro, era amicissimo del Padre Reginaldo Giuliani, il sacerdote fiumano caduto poi in Africa Orientale. Abitava, Muti, in Corso Garibaldi a Ravenna, di fronte alla Caserma di Cavalleria. 
Nel 1914, alle scuole tecniche, gli diedero il tema: «Lo studente esemplare». Lui, naturalmente, lo svolse secondo gli intendimenti dei professori ma, alla fine, si affrettò ad aggiungere: «Questo, però, non è un ragazzo, ma un aborto di natura». Esuberante e vivacissimo (a tredici anni aveva già un fisico perfetto) era tutt’altro che intenzionato a seguire la carriera impiegatizia alla quale voleva destinarlo il padre (che poi tentò di farlo lavorare come avventizio presso la locale filiale della Banca d’Italia). 
Il 24 maggio 1915, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa (avevamo stracciato il trattato che ci legava alla Triplice Alleanza) un aereo austriaco sorvolò Ravenna e lanciò un paio di bombe che colpirono l’unico tram allora in circolazione, uccidendo il manovale della linea tramviaria. "Bib" Muti (lo chiamavano così, poi l’avrebbero ribattezzato "Gim") assistette all’incursione e decise di correre al fronte. 
A 14 anni, nel 1916, tentò così di raggiungere la linea del fuoco. Fu fermato a Cormons nel Friuli, dov’ebbe occasione d’incontrare il generale Cadorna al quale chiese di potersi arruolare. Poiché gli fu obiettata la troppo giovane età, rispose: «La Piccola Vedetta Lombarda era più giovane di me...». 
Rimandato a casa, l’anno dopo scappò ancora da casa e finì per arruolarsi nel 1° Reparto Arditi d’Assalto. Era l’ottobre di Caporetto e lui prese parte alla battaglia sul Monte Crigna (aveva scritto alla madre: «Sento che il mio posto è dove la Patria chiama»). Per 27 anni sarebbe stato volontario in tutte le guerre ed avrebbe guadagnato numerosissime medaglie (ben 46 - l’Ordine Militare di Savoia, la Medaglia d’Oro al V. M., 3 promozioni per merito di guerra, 10 medaglie d’Argento al V. M., 4 di bronzo al V. M., 5 Croci di Guerra, la Medaglia d’Oro spagnola, le Croci di Guerra tedesche di Prima e Seconda Classe, ecc.) tanto da essere definito «il più bel petto d’Italia». 
Restò sempre un ragazzo pieno di vita e amante delle burle, come quando faceva parte della Società della "Crecca". Fra le sue diavolerie, oltre alle burle ai frati, si ricorda l'impresa del '18, quando con gli amici fece, per galanteria, una incursione all'Istituto Tecnico per cambiare in ottimi voti le insufficienze delle compagne di classe. L’anno dopo, in settembre, tentò di partire da Cervia su un barcone a vela, per raggiungere D’Annunzio a Fiume, con gli amici Rambelli, Urbinati, Sarti ed Eros Guadagnini. Ostacolato dal maltempo, tentò poi la via ferrata, ma fu bloccato a Mestre. Finalmente, con gli stessi amici più Testoni Roldano (e il consenso paterno) finì per raggiungere la capitale della Reggenza dannunziana del Carnaro. D’Annunzio (del quale Edouard Herriot aveva detto: «Io vedo in lui un Byron rinnovato») notò ben presto il giovanissimo legionario ravennate, lo ammirò e lo amò. 
«Muti nec mutu» («Muti non muto»). 
Il giovanetto, infatti, si distinse per la sua ardita guerra corsara: Luigi Barzini jr., il grande giornalista, avrebbe ricordato i suoi colpi di mano a Castua e la cattura, per sua iniziativa, di un piroscafo carico di vettovaglie nel porto di Pola. 
Furono i sedici, esaltanti, mesi dell’impresa fiumana. Fu allora che, fra l’altro, Ettore Muti si legò di fraterna amicizia col forlivese repubblicano Spazzoli (più tardi impiccato dai fascisti durante la RSI); un’amicizia mai smentita e rinnegata, neppure durante i tempi della sfortuna politica di Spazzoli, come ha ricordato Stefano Servadei... Durante quell’avventuroso periodo il giovane Muti, ferito, ebbe occasione di scontrarsi con un legionario napoletano (per via d’una scherzosa battuta sui meridionali): un ufficiale intervenne, Muti non lo riconobbe, prese a pugni anche lui e finì così in cella di rigore. Era, s’è detto, un burlone: un giorno mise il ritratto di Giuseppe Mazzini sul messale del suo amico P. Reginaldo Giuliani. 
Gabriele D’Annunzio, come s’è detto, s’era affezionato a "Gim dagli occhi verdi", come lo chiamava, ed avrebbe coniato per lui altre suggestive definizioni: "Ettore da Ravenna", "L’Uscocco", "Il Corsaro". Gli regalò una sua foto con questa dedica: «A Gim, piccolo filibustiere, il grande filibustiere Gabriele D’Annunzio». Soprattutto, coniò per lui questa straordinaria definizione: «Voi siete l’espressione del valore sovrumano, un impeto senza peso, un’offerta senza misura, un pugno d’incenso su la brage, l’aroma di un’anima pura»...
Poi, dopo l’avventura fiumana, ci fu l’avventura squadrista. Al ritorno dalla guerra, indignato per le aggressioni sovversive ai reduci (quelle che, secondo Sandro Pertini, furono il più assurdo e tragico errore delle sinistre nel primo dopoguerra), lasciò i repubblicani e si iscrisse al Fascio nei primi mesi del 1921, appunto come reazione contro la canea che insultava e scherniva gli ex-combattenti. D’altronde anche Pietro Nenni, allora direttore del "Giornale del Mattino", era stato tra i fondatori del Fascio di Bologna ed uno dei cinque componenti della Giunta esecutiva di quel Fascio con Guido Bergamo, Zanetti Dino, Fontanesi Renzo e Pedrini Adelmo (cfr. "Il Popolo d’Italia", pag. 3, dell’11-4-1919). Italo Balbo, nel suo "Diario 1922", elogia Ettore Muti per il coraggio dimostrato nei molteplici scontri di quel drammatico periodo, dalla battaglia di borgo San Rocco alle lotte e rappresaglie di Fornace Zarattini, S. Zaccaria, Pievequinta, Coccolia, Cervia, Porto Corsini, San Marino... alle incursioni a Mezzano, S. Alberto, Fusignano, Villarsa. Si ricorda la memorabile ardimentosa impresa del marzo '19 quando, appreso che a S. Arcangelo di Romagna era in corso una riunione di tutte le sezioni socialiste della zona, Muti, con tre amici in moto e sidecar, si recò sul posto, entrò nel circolo, spense con un colpo di pistola il lume a carburo, staccò la bandiera rossa dalla parete e, fra lo sbigottimento dei numerosi avversari presenti, dopo aver sparato un altro colpo in aria, balzò sulla moto e se ne ritornò spavaldamente a Ravenna col trofeo strappato ai rossi. Il 19 luglio 1922, dopo l’uccisione del barrocciaio fascista Giovanni Balestrazzi, organizzò i funerali e poi s’impadronì della città; nello stesso mese partecipò alla "conquista di Rimini". Ancor prima della "marcia su Roma", per aver domato la sommossa dei birocciai, fu insignito della Croce di Cavaliere all’età di circa vent’anni (con quella, poi, faceva giocare i ragazzini). Dopo aver partecipato all'"adunata di Napoli" (anche Benedetto Croce assistette al comizio di Mussolini) ed alla fatidica "Marcia", il 29 ottobre arrivò a Ravenna, occupò la Prefettura, destituì il Prefetto: c’è una celebre foto che ce lo mostra in piazza del Popolo, con Fregnani, Bedeschi dei garibaldini superstiti (con la barba bianca), Nino Plazzi, Mezzetti Umberto e Bogioli. Fra gli squadristi amici di Muti si ricordano, in particolare, Eros Guardigni, Nino Plazzi, Tambini, Babbini e poi, in particolare, Corrado Baldassarri (detto "Pel e Oss"), Nino Cerchiari e Mario Balestrazzi... 
Il Fascio ravennate sarebbe stato diviso fra Giuseppe Frignani, federale, e Muti (Alessandro Messeri avrebbe cercato di sanare i contrasti). 
Nel '21 Muti è consigliere comunale. 
Il 13 settembre 1927 è in piazza a Ravenna, sta parlando con un amico per l’organizzazione di un pellegrinaggio a Fiume. Arriva l’anarchico Leopoldo Massaroli di Mezzano e gli spara due colpi, colpendolo al braccio destro e al fegato. Interviene Renzo Morigi, futuro Campione olimpionico di tiro alla pistola a Los Angeles e poi Vice Segretario Nazionale del PNF, che, tirando da una distanza di 100 metri, con un colpo solo uccide l’attentatore. Muti è trasportato, gravemente ferito, all’Ospedale (dove resterà per tre mesi): operato al fegato, con poche speranze, da un’equipe medica di prim’ordine (Lesi, Rossi, Solieri, assistiti da Badiali, nonché da Ortali e Nigrisoli): riuscirà a sopravvivere; gli resterà una brutta cicatrice sotto lo stomaco di oltre 20 cm. Sul settimanale ravennate "La Santa Milizia" la cronaca dell’attentato (va a ruba). 
Mussolini telegrafa al Console Ettore Muti Comandante 81ª Legione (è l'"Alberico da Barbiano") presso l’Ospedale Civile di Ravenna: 
«Giungavi mio fervidissimo augurio. Sangue versato vi rende sacro alla causa della rivoluzione». Si ristabilirà, Muti, e, nel tempo degli assi del volante (Bordino, Brilliperi, Nuvolari, Antonino Ascari) prenderà a correre, ad oltre cento all’ora, sulla sua Bugatti da corsa tutta azzurra. «La morte continuava a sfiorarlo, e lui ne godeva», scriverà qualcuno. 
Ebbe incidenti a Bagnacavallo, Bologna, ai Fiumi Uniti, a Rimini. Uno, particolarmente spettacolare, a Savio di Ravenna, con l’Alfa Romeo. Compagni spericolati del popolare capo fascista, Francesco Pezzi ed Eros Guardigli. Non era solo un appassionato corridore motociclista ed automobilista: amava anche i fiori, i prati, il giardinaggio. Un giorno si presentò a casa del Presidente della Cassa dei Risparmi e gli chiese, quasi con noncuranza, la mano della figlia, la bionda, alta e formosa Fernanda Mazzotti. «Se me la dà, -disse allo sbigottito genitore- va bene; se non me la dà, me la sposo lo stesso». Nel 1929 nascerà Diana. 
L’anno dopo è al comando della 120ª Legione, in Monferrato. Poi passa a comandare la Terza Legione Portuaria a Trieste, dove diventa amico del Duca d’Aosta (il futuro eroe dell’Amba Alagi) col quale va a fare i bagni ad Abazia (più tardi residenza estiva del maresciallo Tito...). 
Sul campo di Gorizia, questo romagnolo della stessa tempra dell’asso di Lugo, Francesco Baracca, conquista prima il brevetto di pilota civile e poi quello di pilota militare (suo istruttore di volo Luigi Acerbi). Nel 1935 da Trieste scrive alla madre una lettera in versi: «Penso un poco ai miei diletti/ Qui non faccio quasi niente/ c’è una vita inconcludente/ Vado sempre giù in caserma/ Allenandomi alla scherma/ Vecchie cose! Vecchi affetti!...». 
Ma ecco che il 24 ottobre parte per l’Etiopia col grado di tenente aviatore. Opererà in Eritrea, con la squadriglia Libica di Macallè, volando sulla Dancalia in appoggio alla colonna Litta che marcia verso il Sultanato dell’Aussa. Bombarda Dessiè, partecipa alle battaglie del Tembien, dell’Endertà e del lago Ascianghi (contro la Guardia imperiale etiopica), compie audaci ricognizioni su Addis Abeba, spesso ama atterrare, in segno di sfida, oltre le linee nemiche. 
In Africa frequenta Ciano e il suo entourage, Mario Badoglio (il figlio del Maresciallo), il Duca d’Aosta. Compie spettacolari voli sull’Amba Aradam, partecipa alla battaglia di Mai Ceu. Gli abissini, ammirati, lo chiamavano "Badron Muti con Kristos rioplano" (e i compagni d’arme "il matto volante"). S’era portato dietro il volume "Teneo te Africa" di Gabriele D’Annunzio e nel portafoglio teneva il santino della Madonnina di Loreto, protettrice degli aviatori, regalatogli dal caro Padre Reginaldo Giuliani (che lo chiamava sempre e soltanto "Gim", come ai tempi di Fiume). Quando Padre Giuliani cade, col crocifisso in mano, nella leggendaria battaglia di Passo Uarieu, Ettore Muti apprende la notizia con una commozione unica... Moltiplicherà, allora, i suoi voli spericolati, coi bombardieri della squadriglia "La Disperata", sulle ambe abissine. Il sottotenente pilota Tito Minniti, catturato, viene decapitato. Della squadriglia fa parte anche Dalmazio Birago, colpito a morte da una pallottola dum dum ... (aveva un amico, Dalmazio Birago, che si chiamava Walter Audisio: diventerà famoso per i fatti di Dongo...). 
L’Africa affascinava Ettore Muti, che andava a caccia di selvaggina nella foresta e si faceva fotografare a torso nudo col turbante in testa. Il 30 aprile 1936, quando le avanguardie italiane sono a 100 km: di distanza, al torrente Gadula, ed il Negus è ancora nella sua capitale, Ettore Muti, da solo, tocca il suolo ad Addis Abeba sfidando i mitraglieri scioani (farà ben 45 atterraggi in territorio nemico). Alla fine del conflitto etiopico il suo medagliere s’è arricchito di due medaglie d’argento, una di bronzo, coi galloni di capitano. Subito dopo l’Africa, la Spagna, dove è in atto la più sanguinosa guerra civile (oltre un milione di morti), scoppiata all’indomani dell’uccisione di Calvo Sotelo il 13 luglio 1936 e della fucilazione di Josè Antonio il fondatore della Falange (che rifiutò la benda): sono i nazionalisti di Franco che dal Marocco passano in Spagna contro il governo repubblicano di Madrid. Si formano le Brigate Internazionali da una parte, mentre gli italo-tedeschi intervengono dall’altra in appoggio ai franchisti. 
Comandante del Corpo ausiliario italiano in Spagna è il generale Gastone Gambara di Imola. Ettore Muti s’arruola volontario nel "Tercio" (la Legione Straniera fondata da Millan Astray) e partecipa alle operazioni belliche dell’aviazione legionaria col nome di "Capitano Gim Valeri". L’inno per i piloti dell’aviazione legionaria è scritto dalla contessa Paolina Baracca, mamma dell’eroe caduto sul Montello... 
Muti vola sui cieli della Catalogna, delle Sierre e del Mediterraneo: gli spagnoli lo chiameranno "Cid aereo", nonché "Il Gaucho" e "Il Corsaro". Il 27 agosto 1936, al largo di Malaga, centra con 4 bombe (da 300 metri d’altezza) l’incrociatore "Cervantes". Attaccato in dialetto romagnolo da Radio Barcellona («venite qua, se avete coraggio») entra per primo nella grande città catalana, forzando il gabinetto del fuggiasco Negrin, dove troverà una Relazione sull’aviazione legionaria. 
Bombarda Oviedo, liberando la città dall’assedio, si batte nel cielo di Alcaniz contro 18 caccia avversari (abbattendone 2), distrugge gli aeroporti di Guajon e Alcalà di Henares, compie con spavalderia guascona quattrocento azioni di guerra, battendosi in duello contro i Rata e i Curtiss. Diviene amico del torero Lorenzo Marquez, vola con la "Cucaracha" e gli "Asso di bastoni", riceve dal Re l’Ordine Coloniale della Stella d’Italia, il 15 marzo 1937 è promosso Maggiore per merito di guerra, vola ripetutamente su Madrid. I marocchini del campo lo adorano. Un giorno il generale Berti vuol fare una festa da ballo, ma gli manca il grammofono: Muti fa presto, va a prenderlo oltre le linee, nel bar di un paese occupato dai rossi... 
Si lega di grande amicizia con la Medaglia d’oro Nino Zanetti di Civitella di Romagna (che farà poi parte della squadriglia comandata da Muti di stanza a Rodi, e morirà nel cielo del Mediterraneo mentre l’altro suo fratello, pure Medaglia d’oro, era morto in Spagna). Muti vola sulle Baleari. Memorabile l’avventura di Talavera, quando una bomba, sganciatasi durante il bombardamento, era rimasta impigliata nel cestello e lui non poteva atterrare... (riuscirà, alla fine, con grande perizia e ardimento). In un anno compie complessivamente 400 voli di guerra e 160 azioni belliche: finirà la guerra con una Medaglia d’oro e 5 nuove d’Argento. Un giorno rientrerà all’aeroporto, dopo uno scontro con 15 caccia Rata, con oltre 100 colpi all’apparecchio... 
«Con Muti si va anche all’inferno», dicevano i fanti in terra di Spagna. 
È una guerra atroce e spietata. Da una parte ammazzano Garcia Lorca (pretenderanno poi di farla passare per una vendetta fra omosessuali...), dall’altra profanano le chiese e massacrano gli anarchici riottosi di Bonaventura Durruti (ucciso alle spalle sul fronte di Madrid) e di Camillo Berneri nonché i trotskisti del POUM... 
Nell’aprile 1938 Muti, stanco, scrive alla madre: «Per la verità sarebbe proprio ora che in questo Paese finissero di scannarsi l’uno con l’altro...». Vorrebbe andarsene in Africa, a gestirsi una concessione. Ma un anno dopo (al termine d’un soggiorno romano colorito e denso d’avventure, con la sua casa di buon romagnolo autentico porto di mare per gli amici, i pranzi delle allegre brigate e gli scherzi birboni al povero attendente "Panzòn") Ettore Muti arriva per primo a Durazzo, in Albania, con Umberto Simini e Giovanni Raina. 
Il "Pancho Villa della rivoluzione", come ormai lo chiamavano (e il titolo gli piaceva, a lui che aveva rifiutato l’offerta ufficiale ravennate d’un pugnale d’oro: «È ora di finirla con queste buffonate», aveva scritto all’amico Pezzi detto "Frazchì"), Muti insomma, arriva per primo anche a Tirana, occupando da solo l’aeroporto. Su un mezzo corazzato, poi, occupa la Reggia di Re Zogu, fra lo sbalordimento delle Guardie Reali incapaci di reazione, e s’impadronisce della bandiera del Re fuggiasco (che donerà poi alla Federazione di Ravenna).
Il 3 giugno arriva al Quirinale la missione ufficiale albanese che offre a Vittorio Emanuele III la Corona del trono skipetaro. Il 28 ottobre di quello stesso anno Ettore Muti è nominato Segretario del PNF in sostituzione di Achille Starace (zio del noto scrittore transessuale Giò Stajano), che teneva l’incarico dal 2 dicembre 1931. (Mi dirà un giorno Vanni Teodorani, nipote del Duce: «Guarda caso, le nostre disgrazie sono cominciate proprio con l’allontanamento del povero Starace...»). 
Galeazzo Ciano ha sponsorizzato la nomina di Muti («Mi seguirà come un bambino» dice, ma gli avvenimenti lo smentiranno). Commenta mamma Celestina: «Non era adatto il mio Ettore a stare dietro una scrivania...». Il giorno stesso della nomina Muti telefonò a Ravenna all’amico federale: «Ven cun de pèn rumagnol e cun di grassul...» («Vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli..»). Circolerà invece, fra le tante dell’epoca, questa barzelletta: «Appena nominato Muti manda un telegramma a Mussolini: "Duce, guiderò il partito secondo le vostre direttive e renderò gli italiani come voi li volete. Muti".»
Per la verità, invece, Muti cominciò subito a muoversi all’insegna del più risoluto anticonformismo. Lo scrittore Bruno Corra, sull'"Illustrazione Italiana" del 24 dicembre 1939, rilevava ch’egli «non voleva feste e applausi». Era ben deciso a ripulire gli angolini. Una volta gli capitò di fare una delle tante improvvise ispezioni: in Romagna, ad una sede Littoria. Il federale non c’era. Lui si mise ad aspettarlo, seduto sui gradini della Federazione e quando il gerarca ritardatario arrivato fu investito in modo tale che non se lo sarebbe più dimenticato... Fece inchieste sulle malversazioni, anche all’Opera nazionale Dopolavoro, redarguì aspramente i burocrati del regime, mise a posto gerarchi e gerarchetti, si mosse sempre con grinta autentica. 
Naturalmente si fece anche dei nemici. Ciano, per esempio, che sperava di poterlo controllare agevolmente, ben presto dovette ricredersi e non mancò di alimentare certi mormorii sul suo conto... Così qualcuno lo accusò di aver favorito a Ravenna un suo amico, facendogli ottenere un’importante concessione petrolifera. Donna Rachele, che stimava Muti al quale era sinceramente affezionata, gli chiese di smentire quelle voci. Muti, forzando una certa scrivania, fu in grado di dimostrare, a quanto pare, che quella famosa concessione era avvenuta prima della sua nomina a Segretario del partito e che, al riguardo, c’era proprio il nulla osta di uno dei suoi accusatori. E qui non è davvero il caso di essere reticenti: l’amico in questione era il Cavalier Attilio Monti, il futuro grande capitalista petroliere. Gianfranco Stella ha scritto un libro, "Petrolio e piadina" SO.ED.E. 1993, dedicato appunto alle "vicende del cavalier Attilio Monti" in cui, fra l’altro, rievoca dettagliatamente le origini della lunga grande amicizia fra i due celebri ravennati, l’eroe combattente (morto ammazzato) e l’abile affarista e commerciante (divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo e più potenti d’Italia). 
Monti, figlio d’un piccolo artigiano di borgo San Biagio, ed Ettore Muti, figlio dell’impiegato dell’Anagrafe, si frequentavano fin da ragazzi ed insieme avevano fatto parte del circolo repubblicano "Barsanti". Più tardi, un giorno Monti s’offrì d’aiutare Muti in difficoltà presso una banca locale che gli aveva chiuso il conto e gli imponeva il rientro. Quando, a sua volta, perduta la possibilità di diventare agente AGIP per Ravenna e Forlì, Monti fu costretto ad andarsene a lavorare per la Petroli Italo Rumena di Ottolenghi, Muti intervenne in favore del giovane rappresentante. Più tardi fu Bottai ad autorizzare Monti ad importare direttamente il petrolio dai paesi produttori. Restarono sempre amici, Muti e Monti, e ci sono molte fotografie che ci mostrano, appunto, il futuro "Cavaliere", col distintivo fascista all’occhiello, attento e compunto dietro il grande gerarca dalla faccia maschia e cordiale... 
Quando poi le cose si misero male, dopo l’assassinio di Muti nell’estate del '43, Monti si avvicinò ai confini della Svizzera neutrale e si rifece vivo nel '45 sotto la protezione del grande capo antifascista Leo Valiani (ebreo ex-comunista di Fiume) e del Partito d’Azione, il più antifascista di tutti i partiti (compreso quello comunista!). Scrive Stella: «Abbondanti furono le elargizioni di Monti al giornale di quel partito, "L’Italia libera", tanto che egli si compiaceva ritenerlo sua proprietà. Infatti altri industriali come lui saranno meno fortunati: Vischi delle Officine Reggiane, Marini di Alfonsine, Weber di Bologna etc., tutti morti in quei mesi, ammazzati da partigiani comunisti»... (Non immaginava, Monti, che un giorno avrebbero tentato di coinvolgerlo in storie golpiste e di finanziamenti al neonazista Pino Rauti...). Per la verità, il Cavaliere mantenne i suoi legami morali verso la famiglia di Muti, tant’è che quando, nel '46, fu revocata la pensione a Fernanda Mazzotti Muti «perché elargita dal governo di Salò», lui la sostituì con un vitalizio e quando, negli anni 70, Diana Muti si sposò con Giancarlo Baldini, viceconsole svedese a Ravenna (sono nate due figlie, Marina e Caterina), Attilio Monti le regalò una villa a Milano Marittima... 
Ma tornando a Muti Segretario del PNF, ricordiamo quanto scriveva Guido Nozzoli nel suo "I Ras del Regime" (Bompiani 1972): «Se Ciano ne aveva favorito l’ascesa sperando di rinsaldare la propria candidatura di delfino del Regime, aveva sbagliato i conti di grosso. Perché Muti, uomo d’azione e di ventura, era incapace di elaborare tattiche di corridoio, ignorava le sfumature della diplomazia, odiava la burocrazia e non sapeva destreggiarsi nel sottobosco del politicantismo cortigiano per preparare trabocchetti o cogliere favori. All’occorrenza poteva ancora allentare una sberla a chi gli pestasse i piedi, ma non sarebbe mai stato capace di ordire trame, di controllare i pensieri della gente o di ispirare correnti d’opinione nella corte mussoliniana. Infatti non fece lo sbirro, lasciò che gli italiani sparlassero liberamente anche del "generissimo", fece finta di non accorgersi delle riunioni degli arpinatiani, buon amico com’era di Tonino Spazzoli e dello stesso Arpinati. In fondo non la pensava in maniera tanto diversa dalla loro, anche se lui era sempre "per Mussolini" e la sua fedeltà al duce restava fuori di ogni sospetto». Fra parentesi, ho conosciuto Guido Nozzoli (futuro giornalista del "Giorno") nell’ufficio di Adamo Zanelli, il federale comunista forlivese e celebre capo partigiano ("Giovanni"), quando raccontava compiaciuto del fallimento d’una manifestazione studentesca bolognese per Trieste italiana... 
Muti, tornando a lui, fu un Segretario davvero singolare. Amante, oltre che delle raccolte d’armi e dei dischi di Petrolini (che lo divertivano e gli piacevano tantissimo), dei film Western alla John Wayne, se ne andava a vederli, da solo, nelle sale di periferia mangiando i salatini di cui era ghiotto... Sempre scanzonato e genuinamente anticonformista. Anche imprevedibile. Attaccato a Mussolini, ma senza piaggeria. Osava parlargli con simpatica confidenza (pur col dovuto rispetto). Restò celebre l’episodio, verificatosi quand’era ancora al comando della Legione Portuale di Trieste, allorché un giovane Principe orientale, omosessuale, affascinato dalla sua maschia figura tentò delle avances e lui, naturalmente, reagì prendendolo a cazzotti. Ne nacque un incidente diplomatico, presto soffocato, ma Mussolini si credette in dovere d’intervenire per redarguire il suo manesco gerarca. Ad un certo punto della reprimenda il Duce sbottò: «Ma insomma, Muti, come mai a me queste cose non accadono?». Muti, che se n’era stato buono fino a quel momento, replicò subito, in dialetto romagnolo: «Mo vo an si miga un bell’oman coma me!» («Ma voi non siete mica un bell’uomo come me!»). Ecco, Muti era fatto così, aveva anche di queste uscite davvero simpatiche. 
La maggiore iniziativa della sua Segreteria resta, comunque, la famosa "Marcia della Giovinezza", che si svolse nella prima decade dell’ottobre 1940 (quando l’Italia s’avviava verso la disastrosa spedizione di Grecia): 24.000 ragazzi della GIL, la Gioventù Italiana del Littorio, classe 1922, una grandiosa marcia (culminata a Padova) degli entusiasti soldati diciottenni. Quella Marcia fu lui ad organizzarla, come Ministro segretario del Partito: chi vi prese parte non l’ha più scordata, per il clima di grande entusiasmo giovanile in cui si svolse. 
Ma il 28 ottobre dello stesso anno Muti, ormai stanco delle beghe di partito e del clima romano, chiese l’esonero a Mussolini per poter tornare a combattere. Lasciò così a Capoferri le funzioni di Segretario del Partito (l’avrebbe poi sostituito Adelchi Serena) e se ne andò nelle isole italiane del Dodecanneso, in Egeo, a Rodi ("l’isola delle rose") quale comandante di un gruppo da bombardamento. 
Ricordo ancora la rivista illustrata "Tempo", che mostrava il giovane ardimentoso Segretario a bordo d’un trimotore sul mare... La Principessa Maria Josè di Savoia gli scriverà, offrendosi quale sua Madrina di Guerra. Naturalmente Muti accetterà ed a Roma, nel corso d’una suggestiva cerimonia, riceverà dalla Principessa di Piemonte (futura "Regina di Maggio") un mazzo di fiori. Ma Muti s’accorge che il mazzo è puntato con uno spillo e ferma subito Maria Josè: «Porta sfortuna», le spiega. Che fare, allora?, chiede lei. «Bisogna che la punga», lui le dice. E, detto fatto, le pungerà il dito con lo spillo. Dirà poi, con la consueta allegria: «Ohei, anche la Principessa ho trafitto!». 
La guerra. Trentasei azioni sul fronte greco, dopo i voli da Ciampino su Gibilterra e la Corsica. Sognava di partecipare al colpo di mano su Gibilterra, ma Franco, che pure era stato aiutato da italiani e tedeschi, non volle unirsi alla guerra dei dittatori (dirà Hitler, dopo l’incontro di Hendaye: «Piuttosto che parlare ancora con quell’individuo, preferisco farmi strappare sette denti...»). 
Da Rodi Muti vola in Sicilia, dove si troverà col Ten. Piaggio (quello delle future motorette) e parteciperà alla battaglia navale di Pantelleria. 
Con la sua squadriglia bombarda Alessandria, incendia le grandi raffinerie di Haifa in Palestina (dove gli ebrei dell'"Irgun Zwei Leumi", del partito di Jabotinski, sono paradossalmente alleati dell’Asse in quanto stanno facendo attentati contro gli inglesi...). È celebre il suo marconigramma: «Chi vuole vedere il più grande incendio del mondo vada a Caifa. Nerone»... 
Il 19 ottobre 1940 ha compiuto la sua più rischiosa impresa: con un volo di oltre 4.500 km: si spinge fino al Golfo Persico e bombarda, nel futuro teatro di guerra di Saddam Hussein, gli oleodotti di Barhein. Nel marzo 1942, Tenente Colonnello dell’Arma Azzurra, affonda nell’Egeo il suo secondo incrociatore. In agosto, entrato a far parte del Servizio Informazioni dell’Aeronautica, trasporta i nostri paracadutisti per missioni speciali nei territori della Siria, del Libano e della Palestina. 
Il 25 luglio 1943 è a Roma, appena reduce da una missione in Spagna. Mentre ovunque s’abbattono le insegne del fascismo, s’incendiano i circoli, si malmenano i gerarchi, Ettore Muti, riconosciuto dalla folla in piazza Barberini, viene calorosamente applaudito: la gente sa che lui è sempre stato un gerarca di tipo particolare, un fiero anticonformista, soprattutto un combattente coraggioso. Continuerà, pertanto, a farsi vedere in giro, mentre gli altri si nascondono o scappano: la sera, in via Veneto, in giro per Roma, in divisa e nessuno mai gli muoverà critiche, rimproveri e, tanto meno, gli lancerà insulti o tenterà di colpirlo. 
È stato proclamato che «la guerra continua» e Muti vuol vederci chiaro. Umberto di Savoia, però, non ha il coraggio di riceverlo, mentre Aimone d’Aosta (il ridicolo "re di Croazia" che non s’è mai arrischiato di mettere piede nella terra degli Ustascia) ha pure la faccia tosta di dirgli, alludendo al 25 luglio: «Hai visto, Muti, come siamo stati furbi...». 
Badoglio, invece, lo riceve, lo rassicura, gli dice di restarsene a Fregene ed arriva al punto di carezzarlo affettuosamente. Dirà poi Muti: «Ne sento ancora il ribrezzo...». 
È in quella circostanza che Muti, essendogli stato richiesto perché mai continuasse a frequentare tanto i tedeschi (specialmente il generale Richthofen della 2ª Flotta Aerea), replica a Badoglio: «Ma non avete assicurato nel vostro proclama agli italiani che la guerra continua a fianco degli alleati tedeschi? Devo credere che è stata una menzogna? E si manda la gente a combattere e a morire per sostenere una falsità?»... 
Il 10/8 ha luogo una riunione dei generali congiurati: viene decisa l’eliminazione fisica di Muti, ritenuto troppo pericoloso. Si teme, infatti, che, d’accordo coi tedeschi accampati non lungi da Fregene, egli progetti la liberazione di Mussolini. 
Ettore Muti, Ten. Col. dell’Arma aeronautica, Comandante del 41° Gruppo Autonomo Aerosiluranti, viene ucciso nella pineta di Fregene la notte del 23-24 agosto 1943. 
Ucciso con un colpo di mitra alla nuca, dopo esser stato prelevato dai Carabinieri al comando del Ten. Ezio Taddei nella sua villa, dove si trovava con la sua amante cecoslovacca Edith (Tana) Ficherowa, in arte Dana Havlova, soubrette (dalle bellissime gambe) della Compagnia di Odoardo Spadaro, nonché dell’attendente Masaniello Marracco, della cameriera Concettina Verità e dell’amico Roberto Rivalta, un piccolo industriale di Ravenna. 
Come andarono esattamente le cose, in quella tragica notte, non s’è mai saputo con certezza. Si disse ch’egli avesse tentato la fuga, in direzione di un accampamento di paracadutisti tedeschi (e pensare ch’egli aveva rifiutato l’aereo messogli a disposizione da Hitler per raggiungere la Germania!). In verità, come poi si seppe anche dalle confessioni del carabiniere Antonio Contiero (passato poi alla GNR durante la RSI), Muti, per quanto sorpreso e perplesso per quell’irruzione armata in casa sua, se n’era uscito col necessaire per la barba e un po’ di biancheria, abbastanza tranquillamente. Non senza, peraltro, aver prima redarguito il Taddei che gli aveva detto: «Sarebbe meglio l’abito civile, perché tanto le vostre medaglie non contano». «Tenente, ricordatevi che io sono un Colonnello». 
Fuori, nel buio, mentre era circondato dagli armati, si udì ancora la sua voce: «Ma dunque, non sono forse fra italiani?». Le ultime parole, poi il colpo. Sparato dopo un fischio nel buio. Quella notte avrebbero dovuto essere uccisi anche il Principe Valerio Pignatelli e Francesco Barracu. Senise, l’ex-capo della polizia, dopo l’uccisione di Muti (annunciata laconicamente sui giornali) avrebbe voluto dimettersi. 
Durante Salò fu pubblicato un biglietto badogliano, datato 20 agosto, in cui si parlava di Muti come di una continua minaccia e si faceva appello ad un «meticoloso lavoro di preparazione» («Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso»), evidentemente per farlo fuori. Scriveranno Giorgio Pini e Duilio Susmel: «Falso è risultato un preteso ordine di Badoglio a Senise di agire contro Muti, più tardi fabbricato a fini polemici. Ma il delitto fu compiuto. Premeditata o no, l'uccisione fu un assassinio, che nulla giustificava, nemmeno l’eventuale tentativo di fuga, con ogni probabilità non compiuto da Muti, rimasto vittima di un colpo alla nuca, sparato a freddo e proditoriamente, nel più deteriore stile balcanico, ispirato dall’odio e dalla paura». 
Così Muti morì a 41 anni, ucciso da italiani, dopo 27 anni spesi a combattere in nome del nazionalismo. «Povero Guidarello Guidarelli fascista», scriverà Silvio Bertoldi sul "Giorno" (25 marzo 1973). 
Dana Havlova, rifugiatasi a Madrid, sposerà un ricco medico madrileno, l’ex-falangista del "Tercio" Alberto Diaz Lopez. Divorziata nel '45, riparte per gli Stati Uniti, a New York prende a frequentare il mondo delle corse automobilistiche. In Messico, durante la Carrera, conosce un campione, il conte Manuel de Teffè: sarà il suo secondo marito. La neo-contessa Vera de Teffè si trasferisce a Rio de Janeiro, patria di lui, assumendo agevolmente il ruolo di stella della mondanità locale. Poi nella sua vita appare il giovane avvocato messicano Leopoldo Hector Mendes e per lui abbandona famiglia e rango. Un anno dopo scopriranno il suo cadavere: è stata assassinata. Qualcuno sosterrà che lei era stata, durante la guerra, una spia dei nazisti. 
Un altro dei presenti a quella tragica notte del 1943, l’industriale Rivalta (che aveva assistito all’arresto dell’amico), come ricorda Gianfranco Stella, «tornato a Ravenna dopo una sosta a Regina Coeli, andava in chiesa ogni giorno e non nascondeva di aver paura. Fu trovato morto lungo il viale che portava da casa sua al tempio, con una ferita alla testa. Cosa gli fosse successo, è un altro dei misteri di questo giallo»... 
Ettore Muti, quella notte, dopo aver gridato (l’udì un fornaio vicino, che stava impastando): «ma insomma che fate? Sono o no con degli italiani?», morì nell’oscurità (lui che aveva tanto amato il sole e gli spazi azzurri) ad opera di sicari che, bene o male, vestivano la divisa italiana. Chi rivide la sua salma dice che «aveva un sorriso, sprezzante, ma il volto sereno» (come il Feldmaresciallo Rommel, costretto al suicidio: la stessa espressione sprezzante, ma la serenità del soldato che ha fatto il suo dovere senza lasciarsi sporcare dalla bassa politica...). Così, dunque, morì Ettore Muti. 
L’eroe popolare che all’Ulpia di Roma, nel '40, il famoso chitarrista Del Pelo salutava con la strofetta: «Fiorin d’alloro/ vogliamo salutare/ Ettore Muti/ la medaglia d’oro...». L’atletico combattente, sessualmente vorace ed appetito dalle belle donne, che ad una serata di gala s’era sentito chiamare da una splendida signora alquanto scollata: «Fatemi ammirare questo petto» (ovviamente le numerose scintillanti medaglie) e lui, spiritosamente, le aveva risposto: «Guardi pure, l’ammirazione è reciproca!». Il gerarca che aveva protetto il giornalista antifascista Battistini e non aveva mai rinnegato la sua amicizia per Tonino Spazzoli futuro eroe della Resistenza. L’uomo senza paura che non aveva esitato a criticare apertamente anche il Duce, che pure amava, e che di Ciano diceva: «Sarebbe più utile per lui che sorvegliasse i suoi amici che gli sono vicini e particolarmente il marchese Pucci» (l’amico di Edda che poi portò in salvo i famosi "Diari" coi quali Ciano pretendeva di ricattare i tedeschi...). 
Dopo l’8 settembre 1943, con l’avvento della RSI, la salma di Muti fu traslata, il 19 febbraio '44, nella chiesa di S. Francesco, nel corso d’una solenne cerimonia con la partecipazione di Alessandro Pavolini e di Franz Pagliani. La banda militare germanica suonò "Ich hatte ein Kamerad" ("Avevo un camerata..."). Ezio Maria Gray (che di lui scrisse, il 24 agosto: «Stava preparando silenzioso e metodico la fulminea liberazione di Mussolini»...) proclamò: «Il sangue del pilota romagnolo sfavilla come un ostensorio». 
Più tardi, nel 1951, la medaglia d’oro Leandro Franchi avrebbe sfidato a duello Giuseppe Saragat, per difendere la memoria di Muti. Saragat avrebbe precisato che il suo giudizio riguardava «solo gli atti squadristi» del romagnolo (più tardi sarebbe divenuto Presidente della Repubblica dopo aver ottenuto i voti comunisti concedendo la grazia a Moranino). 
Mamma Celestina ignorò per sette anni che il figlio era stato ammazzato. 
Lo apprese dai giornali. 
Lei credeva che fosse caduto nel Mediterraneo.

 

Daniele Gaudenzi

 

 

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