da "AURORA" n° 11 (Novembre 1993)

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Riflessioni sulla Somalia

Francesco Moricca

Che la politica africana e medio-orientale dell'Italia sia stata dal dopoguerra ad oggi largamente subalterna agli interessi e alla volontà delle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, è cosa indiscutibile e quasi ovvia. Come anche che l'Italia abbia avuto e in parte abbia tuttora la sua parte di responsabilità in ciò che correntemente viene designato come "neo-colonialismo": una responsabilità che non ricade soltanto sulla classe politica, ma anche su quel popolo che questa classe politica avrebbe soltanto subìto, e la cui pretesa intolleranza razziale verso gli extracomunitari mostra in realtà, ora che molti nodi sono venuti al pettine ed è sfatato il mito, prevalentemente democristiano, degli «Italiani brava gente», la sua origine nel mero istinto naturale alla prevaricazione e allo sfruttamento dei più deboli, quell'istinto totalmente bestiale e non umano che è tutt'uno col vecchio imperialismo plutocratico come con la sua più recente versione usurocratica.
È pur vero, tuttavia, che la sudditanza dell'Italia non ha impedito che essa riuscisse a trovare spazi per una sua politica relativamente autonoma nei confronti del Terzo Mondo, e in particolare nei confronti dei Paesi che fecero parte del nostro impero coloniale e verso i quali si sono sempre mantenuti rapporti privilegiati, anche, ma non solo, con il consenso dei vincitori.
Non ci sembra corretto spiegare questa nostra autonomia col ricorso alla teoria delle contraddizioni interne al sistema . Il sistema può infatti, in certi casi, non funzionare. Ma se non interviene la comprensione, la decisione e l'azione dei politici, la cosa resta senza conseguenza alcuna.
Ora questa nostra relativa autonomia non si è avuta soltanto ai tempi di Craxi. È esistita molto prima e in casa democristiana. 
La misteriosa morte di Enrico Mattei è una lontana e quasi artigianale prefigurazione della morte politica -da Tangentopoli- che toccherà a Craxi & Company. E che dire poi della liquidazione di Aldo Moro "ad opera delle Brigate Rosse"?
Si può dissentire quanto si vuole dalla classe politica che ci ha condotto all'attuale sfascio e dalla quale è quanto mai difficile -però non impossibile- liberarsi, ma non si può misconoscere quel che le è dovuto. E ciò, si badi, non è soltanto lealtà ed onestà intellettuale. È anche intelligenza politica e capacità propositiva di concrete, future e desiderabili alleanze con quei cattolici di cui, dice Pallavidini, abbiamo assolutamente bisogno.
Personalmente sono assai diffidente nei confronti del cattolicesimo nostrano, anche nei confronti di quel Buttiglione "consigliere pontificio" che sembra piacere a Marcello Veneziani. E tuttavia tale diffidenza non è preclusiva, a condizione che non si rinunci da parte nostra all'intransigenza su alcuni punti fondamentali. 
Una cosa è infatti riconoscere certi meriti dell'esecrata DC, quando esistono e forniscono per noi sufficienti garanzie per alleanze future coi cattolici. Ben altra, correre il rischio di lasciarsi egemonizzare ideologicamente e strumentalizzare politicamente, come è accaduto in passato al MSI quanto al PCI, e come non è affatto escluso che possa accadere ancora allo stesso MSI e a ciò che resta del vecchio PCI. È il caso per altro di aggiungere che, come Movimento Antagonista, noi siamo alternativi al sistema. Ci proponiamo non come elemento ma come centro di aggregazione.
È troppo presuntuoso? Le ipotesi possono essere anche presuntuose, ma in politica ciò che veramente conta è la presunzione da intendersi come capacità di proporre grandi progetti e di provare a realizzarli. 
Diversamente, chiunque potrebbe avanzare, e a ragione, il sospetto che, come gli altri, perseguiamo soltanto l'obiettivo realistico del potere con tutto quel che vi si associa in termini negativi. 
Il pericolo che incombe e che non è certo una novità storica, è che anche con noi il cattolicesimo abbia buon gioco, data la nostra relativa attuale debolezza, con la sua sperimentata tattica del compromesso con cui ha svolto nella direzione e alla fine omologato a sé tutte le forze antagonistiche, a partire dal ghibellinismo medioevale.
Sia ben chiaro, quel che mai potremo accettare del cristianesimo è la sua radicale sfiducia nella politica, quella sfiducia che risale almeno alla stroncatura agostiniana della politica come feccia di Romolo e alla irriducibile contrapposizione teorizzata dal Santo fra Roma città degli uomini e Gerusalemme città di Dio, contrapposizione che non a caso rispunta nell'intervento di Andreotti a Rimini onde giustificare le colpe sue e del Partito su basi teologiche, perfino chiamando in causa ad hoc la mater et magistra col suo classificare la politica al settimo posto delle priorità etiche del buon cristiano (!).
Tornando alla politica coloniale dell'Italia democristiana, è in questo modo di essere del cristiano nei confronti della politica che si deve trovare la spiegazione delle contraddizioni e dei limiti che la caratterizzano. Anche senza la reale subalternità del nostro Paese agli interessi delle potenze vincitrici, questi vi sarebbero stati comunque, non solo perché i Capi dello Scudo Crociato erano e sono veramente cristiani, ma perché sono in aggiunta cattolici, asserviti cioè, nella sostanza e a dispetto del loro laicismo di facciata, al Vaticano, a uno stato il cui ecumenismo è stato favorevole alla Nazione (non solo italiana) solo e sempre subordinatamente alla propria ragion di stato. Quanto all'Italia nella fattispecie, la Chiesa ha agito in maniera antinazionale fin dall'epoca in cui sorgono i moderni stati: Petrarca, Machiavelli, Guicciardini insegnano al riguardo. Le eccezioni sono quanto mai rare e una potrebbe essere costituita dal primo periodo del pontificato di Pio IX. 
Per le altre nazioni europee il discorso è lo stesso mutatis mutandis. Per quelle non europee, le responsabilità della Chiesa in collusione con le potenze colonialistiche sono originarie e pesantissime, anzi più gravi rispetto a quelle di queste ultime date certe pretese spiritualistiche di evangelizzazione e missionarismo. Come non ricordare, in proposito, che preti cattolici accompagnarono sempre i conquistadores e nella ingloriosa conquista del Perù fu un sacerdote a convincere Pizzarro a non rispettare la parola data e ad uccidere l'Inca Ataualpa? Per venire ai nostri giorni, la differenza di atteggiamento del Vaticano sull'intervento dell'ONU nella questione del Golfo e nella questione somala, può essere attribuita soltanto a un errore di valutazione politica?
Pertanto la possibilità di un'interpretazione positiva dell'attuale politica italiana (democristiana) in Somalia va circoscritta al piano esclusivamente tecnico, alla maniera di un Machiavelli. In quest'ottica non solo si può, ma si deve riconoscere senza riserve che la posizione assunta dal nostro governo è antagonistica rispetto a quella dell'usurocrazia. 
E ciò non perché i democristiani si stiano convertendo al nazionalismo, ma perché, al contrario, continuano a tenersi ben lontani da esso. È comunque un fatto che la linea italiana ha raccolto il consenso dell'Europa e adesso perfino di una parte consistente del Senato statunitense, come è riportato in "la Repubblica" dell'11/9/93. Ciò non può essere da noi sottovalutato. Occorre dunque sostenere la politica governativa e favorirne, per quanto ci è possibile, gli sviluppi nella direzione da noi desiderata: intanto richiamando l'attenzione dell'opinione pubblica su quelle collusioni col Generale Aidid che ci sono state rimproverate da Boutros Ghali e dagli Americani. 
Se collusione con Aidid vi è stata, vi è stata molto prima che da parte italiana da parte americana, precisamente per mezzo della texana Conoco, interessata ai notevoli giacimenti petroliferi della Somalia a partire dal 1986. 
Questa società (ma altre tre delle "Sette Sorelle" hanno concessioni nel Corno d'Africa) ha prima appoggiato Aidid e il suo clan, poi il suo irriducibile avversario Alì Mhadi. Da ciò la guerra civile e l'esplosione di primitivi e feroci odi tribali cui l'intervento dell'ONU dovrebbe por fine con i metodi draconiani raccomandati da Boutros Ghali. Se i Paracadutisti del Generale Loi hanno protetto Aidid, il meno che si possa dire è che lo hanno fatto per mettersi concretamente super partes, soprattutto super partem americanam. E per questo è stato anche pagato un tributo di sangue che è di per se una garanzia. 
Ma se vogliamo dire la verità senza peli sulla lingua, forse noi non avremmo il diritto di difendere i nostri interessi economici in Somalia usando tutti i mezzi a nostra disposizione? 
In Somalia noi ci siamo da molto tempo prima degli Americani e nessuno può contestare che il nostro colonialismo è stato di gran lunga il più vantaggioso che mai i popoli d'Africa abbiano sperimentato. Per quanto sarebbe stato meglio per tutti, Europei e Africani, che mai vi fosse stato il colonialismo. Ciò che il fascismo ha operato per il superamento delle condizioni che esso caratterizzano, è cosa su cui la storia non si è ancora definitivamente pronunciata. 
Ma è innegabile il fatto che prima e durante il secondo conflitto mondiale i popoli oppressi dall'imperialismo anglofrancese abbiano visto l'Italia e il suo imperialismo come un potente fattore di liberazione, da Gandhi al Gran Muftì di Gerusalemme. 
Come non ricordare che nell'ultima fase delle operazioni in Africa Settentrionale con noi combatterono una legione indiana e una legione araba? Ed è senza significato che i bambini eritrei salutino ancora romanamente i turisti europei gridando «Taliàn»?
La continuità del regime democristiano col fascismo in politica coloniale (e non solo: si pensi al mantenimento dello stato sociale pur nel suo stravolgimento e nella sua totale subordinazione alla logica clientelare), e per noi la ragion sufficiente che spiega la linea assunta dal governo Ciampi in Somalia, linea che è stata ferma e antagonistica come non mai, e sempre nei limiti del possibile, per il riassestamento del quadro internazionale dopo la caduta dell'impero sovietico e la pressoché totale impreparazione americana a sostenere il ruolo di unica potenza planetaria.
Solo che in ciò, per quel che si è detto fin qui, non è da scorgersi altro che il permanere del vecchio stile democristiano di intendere la politica italiana come strettamente subordinata alle direttive della Chiesa, al suo modo di vedere il suo ecumenismo in termini drasticamente antinazionali: antinazionali sia in relazione all'Italia che in relazione alla Somalia e a tutti i Paesi schiacciati dal potere dell'usurocrazia. 
Anche se come istituzione politica la Chiesa è in crisi, non per questo ha rinunciato a considerare un unico interlocutore. Nel Medioevo era l'Impero, oggi non può che essere l'America, il referente ufficiale dell'usurocrazia. Denver ne è una prova palmare e incontrovertibile.
Non vi è quindi da entusiasmarsi affatto per la nostra impresa africana, che comunque non è ancora conclusa ed è possibile riservi altre sorprese.
Ma occorre non minimizzarne il significato, le implicazioni e i potenziali sviluppi, per essere preparati a un'azione positiva per quanto ci è consentito dai nostri mezzi.
Se la politica del governo è antinazionale e tuttavia oggettivamente antagonistica, è nostro dovere prenderne atto e trarne le conseguenze.
Anzitutto bisogna sfruttare le condizioni interne dei cattolici per tentare di condurne il più possibile dalla nostra parte: senza alcun machiavellismo, solo con la chiarezza delle nostre posizioni e proposte. Le quali possono anche essere urtanti per la loro sensibilità e per il loro modo di essere, ma tuttavia dovrebbero essere ben accolte proprio in virtù della cristallina sincerità con cui le presentiamo, quasi come una sfida alla nostra quanto alla loro autenticità di uomini, una prova per costruire qualcosa che loro definirebbero comunitario e noi nazionale senza che si dicano con questo cose sostanzialmente divergenti.
In secondo luogo è necessario saper cogliere nei fatti di Somalia, come in analoghi episodi che potrebbero ancora verificarsi, gli addentellati esistenti con la politica interna: nella fattispecie con i problemi connessi alla presenza sempre più numerosa in Europa di extracomunitari provenienti da altri continenti. 
Una accorta politica di integrazione razziale all'interno della società italiana, possibile solo a patto di combattere l'intolleranza naturale che si sta diffondendo a livello di massa e che è sintomo di egoismo bovino nonché di incapacità ad affrontare una convivenza imposta da irreversibili fatti storici, sarebbe un precedente oggettivo a sostegno della credibilità a livello mondiale di un modello italiano alternativo di sistema multirazziale: una ripresa e uno sviluppo aggiornato -non già una nostalgica riproposizione- della politica coloniale del fascismo, dell'idea imperiale romana contrapposta decisamente all'imperialismo moderno e alla sua più recente versione usurocratica.
La proposta italiana per una risoluzione politica delle questioni relative all'integrazione razziale potrebbe concretarsi all'impegno delle potenze ex-colonialiste a farsi carico, ognuna per proprio conto, esclusivamente dei Paesi che già furono sotto la loro egemonia. Questo comporterebbe una semplificazione dei problemi ad ogni livello, e sarebbe altresì il mezzo più idoneo per estromettere l'America da un ruolo arbitrale internazionale che non è assolutamente in grado di sostenere. E sarebbe per altro l'unico modo per restituire all'Europa l'importanza e la centralità che ha perduto alla fine del secondo conflitto mondiale.
È chiaro che la riconquista di questo primato europeo deve avvenire su basi rigorosamente spiritualistiche, se vogliamo anche morali e civili.
Questa è certamente un'utopia. 
Ma è un'utopia che non essendo estranea a una certa tradizione cattolica autenticamente nazionalista -a quella giobertiana, per esempio- non dovrebbe lasciare insensibili i cattolici... di cui abbiamo assoluto bisogno.

Francesco Moricca

 

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