da "AURORA" n° 11 (Novembre 1993)

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da "Tabularasa" - anno II, n° 6, 30 settembre '93

Se il profitto non basta

Alberto Ostidich

Fra «gli otto peccati capitali» della civilizzazione odierna che minacciano il futuro della specie umana, Konrad Lorenz annovera la generale acquiescenza all'indottrinamento
Cresce infatti nel mondo il numero d'individui disposti a riconoscersi «naturalmente» in uno stesso «grande gruppo» socio-culturale; e tale espansione planetaria si rapporta al perfezionamento dei mezzi mass mediali atti a persuaderli della bontà di entrarvi a far parte. Ne risulta da una simile coercizione pacifica, un tipo d'uomo «domestico» la cui uniformità di pensiero e omogeneità di atteggiamenti mai s'erano manifestati così totalitariamente nel corso della storia.
Inoltre -prosegue il Padre nobile dell'etologia moderna- la capacità suggestiva esercitata da una dottrina unica e vincente (e dunque esercitata da una dottrina assolutamente «vera») aumenta con l'aumentare dei suoi sostenitori: ovvero, con l'opinione pubblica -ormai onnipresente e onnivalente- la quale considera casi patologici, o esseri alieni, coloro che rifiutano il coinvolgimento educativo di massa.
In tale scenario epocale, i manipolatori delle volontà altrui non possono vedere che di buon occhio il progressivo restringersi della personalità nei «loro» cittadini e/o consumatori e/o elettori... Sondaggi, pubblicità, effetti-moda servono allora -ai grandi gruppi economici come ai grandi funzionari politici- a meglio orientare i «gusti» degli utenti ed attrarli, quindi, al loro potere.
Sin qui l'analisi di Lorenz, collimante per molti aspetti con quelle di un Claude Polin o di una Hannah Arendt. Ed è un'analisi che, precedente la caduta del comunismo, testimonia come il Nostro considerasse l'allora «altra metà del mondo (politico)» meramente complementare e speculare ad uno stesso, unico sistema disumanizzante
Per ciò la denuncia di quei «peccati capitali», tra loro collegati in un rapporto a catena di causa-effetto, assume oggi un significato, se possibile, di ancora maggiore pregnanza. Alla luce del fatto che non si può più attribuire, oggi, al trascorso modello comunista una qualsiasi nostalgica «alternatività». Oggi più di ieri, rimarca infatti, in tutta la sua evidenza, come e quanto i sistemi a socialismo reale non avessero antidoti all'americanizzazione della Terra, ma costituissero semmai, rispetto all'altro «modello», un insieme politico con diversi -e coadiuvanti- elementi di tossicità.
Questo resta in eredità di quei Regimi, che nel gorgo del proprio fallimento ideale e materiale hanno trascinato l'intero impianto «metafisico» su cui reggevano: la fede nell'eguaglianza, nelle magnifiche sorti e progressive, nel domani che canta, nella liberazione degli oppressi... 
Giunti così al termine di un lungo sogno catartico e salvifico, molti di quanti ci han davvero creduto (e lo hanno creduto «reale») si sono accodati al corteo universale dei laudatori d'Occidente. Autoassolvendosi dalle realtà passate, dimenticando -e facendo «urbi et orbi» dimenticare- quel loro sogno «di che lacrime grondi e di che sangue»...
A rinnegati e smemorati è stato dato, insomma, di tramutare in onorevole armistizio quel che resta la più ignobile e catastrofica delle sconfitte. Con pelosa carità è stato concesso, agli orfani dello storicismo marxista, di sentirsi nuovamente figli legittimi dei «fatti» e figli adottivi dei «valori» che da quei fatti discendevano. Tanta generosità è stata -come sappiamo- ripagata ai padri putativi: è tutt'un elevarsi di cori apologetici al Libero Mercato, al Capitalismo, all'Iniziativa Privata... e c'è anche chi vorrebbe un recupero più razionale, o una «rilettura» dell'esistente, della modernità.
In questo climaterico «disincanto», in questo lamentoso e logorroico «ripensamento a sinistra» in cui soccorrono i profeti della rievangelizzazione (Bobbio, Duverger, Dahrendorf), emblematico appare il caso Flores d'Arcais. Sicché costui tenta in «Esistenza e libertà» di esorcizzare l'incondizionata resa/accettazione dei suoi sul Modello Unico; tenta cioè di trovar loro qualcosa da fare. Fissando i «nuovi» ruoli: «Il futuro contro il passato, i molti che hanno troppo poco contro i pochi che hanno troppo, il mutamento contro la tradizione, l'autorità della ragione contro le ragioni dell'autorità, la pari dignità dell'individuo che si riconosce attraverso l'altro individuo contro il principio di nascita e di censo». E così via, in un crescendo di tesi ed antitesi...
Lasciamo pure alla loro onanistica inutilità gli sforzi dialettici di questi neo-Illuminati, e poniamoci -noi, stavolta- il classico «che fare?».
Che fare, dinanzi all'irrompere tumultuoso di un liberalismo senza più remore; quasi senza più avversari, molti dei quali hanno già abdicato ai titoli di benemerenza antagonistica, che sino a ieri avrebbero potuto vantare ed impiegare?
La soluzione -se c'è- non dà luogo a semplificazioni o ad ottimismi.
Un primo addendo di risposta viene da Maurras, il quale nel 1937 scriveva: «Da qualunque parte lo si prenda, un dato risulta certo: è il Denaro che «fa» il potere, in democrazia. Lo sceglie, lo crea, lo genera. Esso è l'arbitro del potere, perché in sua assenza tale potere precipita nel nulla o nel caos. Niente denaro, niente giornali. Niente denaro, niente opinioni espresse. Il denaro è il genitore e il padrone di ogni potere democratico, di ogni potere eletto, di ogni potere tenuto nella dipendenza dell'opinione espressa [...] Comunque lo si rigiri, qualunque grido emetta, il povero popolo è governato dall'oro o dalla carta, da quelli che li detengono e da quelli che li vendono, essi soli gli fabbricano i suoi padroni e i suoi capi» (in «Mes idées politiques»).
Ciò premesso e sottolineato, il quadro viene a complicarsi ulteriormente in questa seconda metà del secolo, a seguito della sconfitta bellica dei fascismi, dell'irrompere della Tv e del diffondersi del cosiddetto benessere: sono macrofenomeni a valenza antropologica che Charles Maurras non poteva certo preventivare.
In un solo concetto: con l'atomizzazione sociale e l'omologazione individuale sono venuti a restringersi paurosamente gli spazi di libertà. Beninteso, per quanti posseggono la «volontà» di libertà, ché -in assenza di una presa di coscienza e affermazione di sé- tale principio si riduce ad un dato esteriore anagrafico, da cogliere in senso egoistico e limitativo.
Parafrasando il messaggio multimediale odierno potrebbe dirsi: la libertà economica quale destino. È l'interesse, è il bene, è l'utile -la realtà unica, l'unica misura delle cose. La visione globale dell'uomo, in questa gigantesca opera di condizionamento, si riduce alla sola dimensione economica, dove -per usare le parole di Cesare Romiti- «il massimo profitto non è solo un diritto, ma un dovere». 
I possibili controargomenti ad una siffatta visione del mondo e della vita sono noti, venendo dai «classici» Evola e Marcuse, e passando attraverso Alain Caillé e alla sua «Critica alla ragione utilitaria». Non mi pare il caso di dare ripetizioni. Ma è partendo da qui, dal rifiuto al perverso meccanismo posto in essere dagli interpreti della coscienza collettiva, che occorre fondare le tante ragioni etiche per trasgredire. Trasgredire e opporsi, ben sapendo che, di fronte, non abbiamo un «Palazzo d'Inverno» da assaltare, romanticamente e sanguinosamente da conquistare.
Lo scontro, quando avverrà, non si farà muro contro muro; dal momento che «il muro che non è caduto» è di gomma, capace di assorbire e neutralizzare tutto e tutti in un continuo, incessante processo di metabolizzazione-assuefazione.
Che fare, dunque?
Non conosco personalmente strumenti capaci di bucare questo babelico e metamorfico muro che ci sta d'intorno, invisibile ai più, e che molti credono edificato a loro difesa. Non ho risposte, e la capitolazione -devo ammetterlo- sarebbe la soluzione più logica. È, del resto, quanto hanno ragionevolmente fatto (magari «in attesa di tempi maturi»!) tanti amici, tanto più intransigenti e audaci e rivoluzionari di me.
C'è tutta «una generazione che si è arresa» fuori di qui. A destra e a manca, accomunati da «mutuo, televisore, salotto e doppio mento...». Una generazione di delusi e di pentiti. O di riciclati. Di gente che ora si fa i fatti propri, che ha già dato, che ti dice di ripassare. Di gente con «la moglie grassa, i figli e la panciera...», ora fautrice del quieto sopravvivere: niente più salti nel buio, e nemmeno salti. Si striscia solamente, dietro i feticci della carriera, dell'auto, del week end prossimo venturo...
Epperò resta. Resta la curiosità (che a volte si muta in speranza) di scoprire se e dove in quel muro di gomma vi sia una crepa, una breccia. Tutto ciò sarà pure irrazionale ed illogico: ma non è stato forse scientificamente dimostrato che il bombo («bombus muscorum» fam. imenotteri) non può volare? 
Eppur si muove, e vola, il bombo.
O resta la presunzione, magari, di costituire noi stessi (il plurale è qui consolatorio) una «breccia». Grazie alla nostra «volontà di libertà», grazie alle energie culturali di cui disponiamo, grazie agli esempi che sappiamo fornire.
Altrimenti, amici miei, non sentendoci vocati al ruolo di missionari eretici, senza dei e senza dogmi - ci restano le torri presumibilmente d'avorio, dalle parti di Lucera, dove attendere la fine. Del ciclo.

Alberto Ostidich

 

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