da "AURORA" n° 12 (Dicembre 1993)

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Destra e sinistra: non solo parole vuote?

 

Alberto Ostidich

 

«Né di destra né di sinistra. Siamo più avanti». Questa dichiarazione di Per Engdahl (1) costituisce, assieme alle varianti lessicali siamo fuori/siamo oltre, un filo conduttore per quanti -fuoriusciti dalla politica politicante- vanno interrogandosi sulla loro personale collocazione. Ed è una (possibile) chiave di risposta, quella indicata una trentina d'anni orsono dall'ideologo svedese, che francamente piace. Piace per la sua immediata visibilità e per la puntuale, orgogliosa affermazione di alterità che sottende. Sicché da parte nostra (se posso così arrogarmi un plurale di rappresentanza) non dovrebbero esservi difficoltà di sorta nel riconoscersi in quella frase, come recentemente ribadito in un'intervista a "Il Sabato" da Marco Tarchi, se non sussistessero -esprimo subito la mia tesi- validi motivi per una diversa scelta di campo; scelta forse anche riduttiva, ma in qualche misura obbligata, nel senso che avrò poi modo di specificare.
Una prima annotazione: il ripensare al proprio "essere politico" e quindi il riconsiderare anche topologicamente il proprio ruolo -così come va facendo oramai da anni un certo ambiente alternativo di destra- non è questione nominalistica, frutto di più o meno brillanti astrazioni. No, il problema dello schieramento esiste, ben oltre le etichette di comodo; e pesa. Pesa in quanto si tratta di compiere scelte che, non volendo essere incapacitanti, tengano presente che nella società odierna massima importanza rivestono l'immagine, la griffe, l'apparire ancor prima dell'essere; che, oggi, l'abito fa il monaco. Come e quanto tutto ciò costituisca un fatto degenerativo appare evidente. Ma tale evidenza non sposta affatto il limite interno del problema: nel sistema in atto pesa, pesa molto, come e dove ci si presenta. E per contare e presentarsi e rendersi autonomi e funzionali occorre possedere una identità forte e subito riconoscibile. Nel caso nostro, dare per scontato che dal superamento delle tradizionali categorie destra/sinistra/centro emerga con chiarezza l'ubi consistam dove fissare il nuovo, più avanzato radicamento.
Non è che mancherebbero appigli o punti d'orientamento al riguardo. Tutt'altro. Sappiamo bene, del resto, della crisi concettuale cui è pervenuta quella tripartizione, vista da più lati quale labile o fittizia linea di demarcazione; sappiamo anche della sua tragica insufficienza a spiegare, ad interpretare, a comunicare le variegate realtà degli eventi contemporanei. E basterebbe, per suffragarlo, il riferimento ad una serie di interventi, di diverso taglio e su diverso argomento, apparsi su uno stesso numero -il primo- di "Elementi". «Destra, sinistra, centro sono tutte parole vuote. Quello che è decisivo sono i contenuti. (Lucio Colletti); «topologia rancida e stantia [...] cui ancora facciamo ricorso e che non vale più nulla» (Franco Ferrarotti); «l'asse destra-sinistra [...] non è più rilevante per la definizione dei contenuti, come invece era una volta; non ha la capacità di coagulare e distinguere» (Loredana Sciolla). E Umberto Bossi (si componere licet...) proclama, come si apprende nello stesso fascicolo, sé ed i suoi «sopra» la destra e la sinistra.
Potremmo persino aggiungere, a fronte di una tale plebiscitaria convergenza anticlassificatoria, che essa non può che confortare quanti, non da oggi, rivendicano la loro estraneità a formule mutuate da schematismi ottocenteschi, già di fatto superate dai movimenti politico-culturali in auge tra le due guerre mondiali. Ma non sarebbe questo il punto, ovviamente. Il punto è (o mi pare chiaramente sia) che la naturale attrazione verso nuove frontiere -al di là della destra e della sinistra- è legittima, politicamente e non solo storicamente o dottrinalmente legittima, solo se viene reso suasivo e partecipato il proprio "essere altrove". Ma questo altrove è individuabile e raggiungibile ai più?
Per rispondere compiutamente non si può prescindere dal processo di omologazione culturale in atto, il quale fa si che ogni prodotto rimanga irrimediabilmente fuori mercato se non entra nel circuito promozionale. Il che rende competitivi solo coloro che già posseggano capacità d'attrazione ad hoc. Di qui l'insufficienza operativa per chi sia fuori giuoco. Stando fuori dal giuoco non si può pretendere di dettare regole nuove. Situarsi al di là della destra e della sinistra senza adeguata copertura equivale a prendere una posizione in sé perdente, che verrà resa subalterna da forze in grado di assorbire ed assumere, simultaneamente, tutte le posizioni non adeguatamente attrezzate a rendersi distinte e distinguibili.
Seguendo questo processo logico non resterebbe, a conclusione di un pluriennale dibattito, che rioccupare le vecchie postazioni nelle trincee di destra. Una collocazione ora di tutto riposo, che non avrebbe (almeno qui in Italia) grossi problemi di concorrenza e presenterebbe il vantaggio di una riappropriazione di spazi liberi da ogni seria rivendicazione. A destra non c'è (ufficialmente) nessuno, tranne una presenza del MSI-DN. Eppoi una tale riconferma non sarebbe ascrivibile a sole ragioni di convenienza.
Molte tessere combaciano nel disegnare una destra magari nuova ma sempre nobile: basterebbe rifarsi criticamente ai numerosi maîtres à penser di area. Ma a dare spessore e contenuti ad una scelta pro-destra interverrebbero anche altri fattori significanti. Il ritrovarsi a destra -si è più volte detto- è il portato di un modo di essere sorretto non tanto da scelte ideologiche e/o razionali quanto da una concezione innata di sé e del mondo circostante. L'uomo antropologicamente di destra è riconoscibile per alcuni tratti caratteriali che lo distinguono da altri e lo associano ad altri ancora: il gusto di sentirsi diverso, il fascino quasi fisico per l'invadenza, il dispregio per le mode culturali e non, la curiosità intellettuale disgiunta dal cerebralismo, il non conformismo, l'amore per l'organicità e dunque per le differenze, e così via. Appare poi non privo di interesse che in vari idiomi la parola «destra» sia sinonimo di giusto, retto, diritto, in antitesi al termine «sinistra», che si accompagna a significati quali obliquo, deviante o, appunto, sinistro. (2) Analoghi concetti, com'è noto, si esplicano attraverso la polarità destra/sinistra nella simbologia e mitologia di popoli di antica civiltà. 
A destra; hic manebimus optime, dunque?
Indubbiamente, ribadire (e ridefinire) questa opzione potrebbe essere non solo possibile, ma logico e lineare. Se, anche qui, non vi fossero di mezzo grosse remore. Remore trainanti verso un progressivo svuotamento di significato del termine «destra», il quale ha assunto nella presente epoca interpretazioni sempre più forti e "definitive", che si coniugano con termini come liberalismo, individualismo, occidentalismo. Di conseguenza sarebbe giusto, sul piano ontologico, opporsi ad un tale stravolgimento e (tentare di) rimettere le cose a posto. Ma, ecco il nodo nuovamente da sciogliere, quand'anche si riuscisse a dimostrare (faccio un esempio paradossale) che i Vandali furono storicamente un popolo pacifico e bonario, questa meritoria opera di ripristino della verità sarebbe poi riconosciuta al di fuori della cerchia degli specialisti? Basterebbe, in altre parole, a far sì che la gente -grazie a questi studi controcorrente- fosse finalmente portata a ritenere «vandalismo» sinonimo di quieto vivere, o indotta ad associare l'idealtipo del Vandalo con quello del laborioso borghese svizzero?
Voglio dire, con questa metafora, che per i "revisionisti" il situarsi a destra si presenta come una scelta facilmente equivocabile e sicuramente non vincente. A meno di un'integrazione alla grande destra conservatrice e tecnocratica che non fa al caso nostro. Non resta che riaffermare, allora, che le scelte di campo si debbono fare, e debbono farsi con la consapevolezza che i distinguo dialettici (sulla 'vera' destra, nella fattispecie) ben poco rilevano -e interessano- in un contesto socio-politico come l'attuale, dal quale nessuno può esultare e nel quale i mass media tendono a frantumare ed appiattire ogni emergenza. Pertanto, coloro che si riconoscono in posizioni "revisioniste" ed "emergenti" non possono utilmente attestarsi su linee ormai ritenute (da altri, dai più) di retroguardia; né d'altronde possono utilmente allontanarsi in eremi dove, inascoltati, discettare del significato ultimo delle (loro) verità.
La funzione di una destra interiore resta. Resta e può essere autosufficiente in una dimensione, sacrale e totalizzante, di destra quale Tradizione, lasciando peraltro impregiudicata la questione della sua traducibilità in termini politici o, se si vuole, anche metapolitici. 
Il «portarsi non là dove ci si difende, ma là dove si attacca» richiamato da Evola in "Cavalcare la tigre" vale allora ad indicare dove sia doverosamente possibile, senza cadute di livello o alibi di sorta, porsi e proporsi quali referenti "forti" nel dialogo con il mondo contemporaneo. Questo mi pare il passaggio obbligato cui accennavo prima, per poter fare politica e non solo parlarne.
E dovendoci schierare, pur scettici sul valore degli schieramenti; dovendoci dare dei contenenti, pur consci della loro relatività in rapporto ai contenuti, resta aperta la via a sinistra. Hic Rhodus hic salta. Ovvero, individuato il passaggio, bisogna tracciale la linea di percorso; ricostruire cioè un rapporto dialettico con "il sistema" evitando i due opposti atteggiamenti tipici di una certa destra e mai a sufficienza stigmatizzati: il primo di netta chiusura e conseguente rifugio in un passato, prossimo o remoto che sia, ma -appunto- passato; il secondo di sostegno alle sopravvivenze residuali "positive" qua e là presenti nei sistemi occidentali. Atteggiamento che poi si traduce in tesi di fatto filo centriste. (Aprendo una breve parentesi, non sarà forse superfluo far notare che non ho preso in esame la via centrista in quanto considero il centro alla stregua di un'artificiosa camera di compensazione di istanze -reali- di destra e-o di sinistra. Aggiungo altresì di ritenere quella via senza sbocchi per chi non detenga il potere, per chi non abbia interesse alla conservazione dello status quo).
Qui poi, nella mega-civiltà occidentale che è andata stratificandosi in due secoli, non è questione di preservare o conservare alcunché: sarà semmai questione di recuperare e riscoprire in senso rivoluzionario-conservatore valori, idee, pulsioni che quella civiltà tiene sepolti. Atteso che tale recupero e riscoperta non avverrà spontaneamente o fortuitamente, ne discende la necessità di darsi una strategia per operare a tutto campo, come si suol dire. Strategia d'immagine, innanzitutto, che parta dalla piena consapevolezza che una politica alternativa è tale solo se sa presentarsi come forza innovatrice e non subalterna.
Nessun timore d'eresia, pertanto, se nell'equazione che ci resta dinnanzi l'incognita "sinistra" è l'unica a rappresentare il cambiamento. Né abbiamo alle nostre spalle una tabula rasa. Spunti stimolanti e non impertinenti -per cercare riferimenti in un recente passato- sono rinvenibili in un Sorel, in un Corridoni, in un Berto Ricci, in movimenti quali le Croci Frecciate o il primo falangismo. A voler rimanere in questo stesso ambito (che pure mi pare congeniale), può dirsi che il fascismo e stato di sinistra nelle fasi iniziale e terminale della sua espressione storica italiana, o anche riproporre la suddivisione defeliciana tra fascismo-regime e fascismo-movimento nei termini bipolari di destra e sinistra.
Proseguire, oltrepassando i confini di una semplice indicazione «a sinistra» quale è e vuol essere questa mia, significherebbe intraprendere un'affascinante esplorazione verso una nebulosa tutta -o quasi- da scoprire. Io mi fermo qui; altri non occasionali compagni di viaggio potrebbero essere tentati da un simile spirito d'avventura e riuscire per davvero ad andare oltre.
A sinistra, allora. 
Una sinistra che non avrà bisogno di richiamarsi solo a Gramsci o a Proudhon per definirsi elitaria e d'avanguardia. «Sinistra aristocratica», diremmo con sintesi audace. Sinistra aristocratica: un ossimoro che forse non sarebbe dispiaciuto a Spengler o ad altri esponenti della Rivoluzione Conservatrice. Sinistra aristocratica come provocazione, come sfida, come progetto.

 

Alberto Ostidich

Note:

1) È opportuno offrire al lettore qualche delucidazione sull'autore citato. Leader di un partitino svedese mai affacciatosi oltre l'uno per cento alle elezioni, creatore con Bardèche ed altri del Mouvement Social Europeen, effimero coordinamento continentale neo-fascista, Per Engdahl era noto al radicalismo di destra degli anni Sessanta-Settanta più che per le sue idee (ricordiamo solo un articolo su "L'Italiano" e un fascicolo in francese, "Corporatisme politique de l'avenir", edito da Les Sept Couleurs), per le descrizioni della sua figura -vecchio e cieco, ma tenacemente presente a convegni e incontri- e per qualche aforisma sul tipo di quello citato [N.d.R.].
2) Per approfondire questo spunto, si veda l'ottimo testo di Massimo Cacciari. "Sinisteritas", pubblicato originariamente in AA. VV., "Il concetto di sinistra", Bompiani, Milano 1982 (raccolta degli atti di un omonimo convegno) e ora riprodotto in «Trasgressioni» n°5, settembre-dicembre 1987 [N.d.R.]

 

 

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