da "AURORA" n° 14 (Febbraio 1994)

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Oltre il voto di marzo

Gianni Benvenuti

 

Questa volta non ci possono, né ci debbono essere dubbi. Il 27 di marzo non si va a votare. Per una serie infinita di ragioni. Ma anche e soprattutto per una questione di buon senso e di dignità morale e politica.
Sono cinquanta anni che gli italiani vengono presi in giro prima e dopo il voto. 
Ma mai come in questa occasione. 
Abbiamo più volte sottolineato come più si parla del nuovo e più si sprofonda nel vecchio, anzi nello stantio. Per cinquanta anni gli italiani hanno votato, perché rassegnati e costretti, contro. 
Mai per. Fino a ieri democristiano contro il comunismo, o viceversa. Consentendo così il perpetuarsi di un sistema politico bloccato dove chi governava e chi era alla opposizione profittavano di questa situazione traendone enormi vantaggi politici e finanziari.
Non a caso in questa perversa logica è nato, si è sviluppato ed ha prosperato il consociativismo. Fino ad arrivare a quella che è stata chiamata tangentopoli. Da qui si è invocato il nuovo. 
Ed ecco che gli italiani sono stati chiamati alle urne per cambiare il sistema elettorale.
Si è detto loro che ciò era la conditio sine qua non per spazzare via il vecchio sistema dei partiti e dei ladri, per avviarsi verso una fase diversa di radicale cambiamento. 
Niente di più falso. Ne è uscito un ibrido e, se si vuole, ridicolo meccanismo elettorale che complica ulteriormente le cose, aggiunge confusione alla confusione, consentendo ai vecchi schieramenti e ai ladri di sempre di riciclarsi.
Chi scrive invitò, già in occasione degli ultimi referendum, a disertare le urne. Molti lettori di "Aurora" si ricorderanno l'articolo "Questa volta non facciamoci fregare". In esso, in sintesi, veniva rilevato come votare per il proporzionale o per il maggioritario fosse del tutto inutile e fuorviante. Proprio perché, qualunque fosse stato l'esito referendario, la sostanza non sarebbe cambiata. Vinceva, sempre e comunque, il vecchio. I problemi restavano irrisolti. Così come restava in sella la stragrande maggioranza dei responsabili del sistema consociativo. 
E così è stato. Hanno cambiato i simboli e le sigle. Si sono rifatti il trucco, hanno mescolato un po' le carte. Qualcuno addirittura, nella foga di presentarsi più nuovo, ha rinnegato ideali, radici e memoria storica. 
Ma tutti, sempre e comunque, per restare a galla. Per occupare poltrone e poltroncine. 
Ed ecco così la nascita di incomprensibili e allucinanti alleanze. 
Costruite non su programmi e valori, ma su meri interessi elettorali e di sopravvivenza. Eccoci al cosiddetto "polo progressista" (orribile parola priva di senso), al "polo moderato", al "polo di centro", di centrodestra e di destra. Ecco ritornare l'uso incondizionato degli ottocenteschi termini destra e sinistra. Una babele. 
Si parla da mesi di alleanze, di squadre, di tavoli delle trattative, di candidature. 
«Vengo con te se mi dai questo; se non mi dai questo esco dalla cordata». 
Si passa con estrema disinvoltura, nel giro di pochi giorni, se non di poche ore, da uno schieramento all'altro. 
A dimostrazione che, in definitiva, sono tutti uguali. E questo è un dato essenziale. Non si discute sui programmi, sui drammatici problemi del Paese, non ci si divide sui valori. Niente è cambiato. Appare già scontato che entro due anni, o forse meno, ci sarà una nuova chiamata alle urne.
Quella che doveva essere la panacea di tutti i mali si è ridotta, come era logico e prevedibile, in una vera e propria farsa. Una solenne buffonata. Ci attendono, dopo il voto di marzo, mesi difficili, pieni di incertezze, tensioni e sacrosante proteste sociali. A questo occorre attrezzarsi per essere protagonisti. Soprattutto per chi, come noi, vuole un radicale cambiamento del sistema. Soprattutto per chi, come noi, sente e sa di poter interpretare le aspirazioni e le giuste istanze popolari. 
Non andando a votare, urlandolo, significa chiamarsi fuori dalla tragicommedia che tutti stiamo vivendo. È veramente triste e deprimente andare ancora una volta alle urne per votare semplicemente contro. Lo si sente in giro. È un luogo comune. 
Chi si recherà ad apporre il segno sulla scheda lo farà solo ed esclusivamente per impedire a questo o a quello di vincere. Si vota Occhetto contro Berlusconi, Fini contro Bossi, Bossi contro Segni. E via dicendo. E dopo? 
Il vuoto. Il caos. L'ingovernabilità. I problemi irrisolti. Le ibride ammucchiate che si sfaldano. 
Nessuno dice, né dirà, come e con chi governerà. Sempre più si caratterizzano come le elezioni del dispetto. Inutili.
Chiunque vinca, tutto resta immobile, niente si sposta di una virgola.
I ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. 
Tutti hanno già giurato fedeltà al sistema liberalcapitalistico e al padrone americano. Da Occhetto a Fini, da Berlusconi a Bertinotti. È un dato incontestabile. Non andare a votare assume quindi un significato politico ben preciso. Un impegno per l'immediato futuro chiaro e inequivocabile. È un ragionare finalmente con il proprio cervello, senza farsi finalmente abbindolare da chi si assomiglia sempre di più. Non vuol dire affatto stare alla finestra. Né tantomeno attendere o defilarsi. Significa l'esatto contrario. Significa farsi carico di un impegno enorme, gigantesco. 
Significa tenere vivi certi valori oggi calpestati.
Significa non tradire certe istanze sociali. Significa anche, per molti di noi, continuare ad essere se stessi. E ciò non è poco. Significa gridare, ovunque, che il problema principale dell'Italia di oggi è la occupazione. Che tale problema non si risolve con il libero mercato perché se gli stranieri investono in Italia i dividendi li portano a casa loro. Significa ribadire che sociale è una nazione che si interessa di tutte le categorie e quindi è in grado di evitare le ingiustizie, di sanare gli squilibri. Significa che occorre dire basta al capitalismo selvaggio e prevaricatore, affermando che il mercato in se non garantisce l'equilibrio. 
Il disoccupato o il licenziato non possono aspettare che il mercato si stabilizzi. Sta qui la crisi endemica della economia capitalista. 
Significa poi interpretare i bisogni alti della società, le grandi tensioni ideali e spirituali contro l'invadenza del consumismo e del materialismo. 
Significa dare voce al malessere esistenziale, parlando della comunità nazionale e della dignità di popolo. 
Ma significa anche altro ancora. Superare il mercantilismo, processando culturalmente e politicamente la società del degrado sociale e morale, civile e ambientale. Difendere il diritto al lavoro, alla casa, ad una vita dignitosa, Tutto questo ha bisogno di una rappresentanza forte e decisa. 
E chi può farlo se non noi, da sempre e orgogliosamente, fascisti di sinistra? Da sempre sostenitori della imprenscindibile unione del nazionale con il sociale. Ecco alcune delle mille valide ragioni per i dire no al voto ipocrita, inutile e acchiappa imbecilli del 27 di marzo.
«Una destra esiste, nella tradizione storica del nostro Paese, ed è liberale. Quella che non esiste invece, è una tradizione di sinistra nazionale. Ed è appunto questa sinistra che occorre creare.» Così si esprimeva negli anni cinquanta Alberto Giovannini. 
Su questa strada ci siamo finalmente incamminati, forti di un patrimonio storico, culturale e sociale inestimabile, insopprimibile ed attuale più che mai.
Aperti, come già sta avvenendo, al decisivo apporto di altri soggetti e altre componenti che assolutamente non accettano il momentaneo appiattimento su logiche liberiste e liberali.
Occorre quindi andare oltre l'inutile voto del 27 di marzo. Considerare, sin da ora, quella data estremamente dannosa e pericolosa, comunque vadano le cose.

 

Gianni Benvenuti

 

 

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