da "AURORA" n° 14 (Febbraio 1994)

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Per una politica oltre le scadenza e le occasioni

 

Alberto Ostidich

 

Ordunque, con tante scuse per «l'incredibile offesa» intentata al Popolo Eletto, verrà prorogata di 24 ore la prima Repubblica. Dopo di che, aperte le urne e disperse le ceneri avrà finalmente inizio la Nuova.
Riguardo alla Vecchia, di Repubblica, sono in tanti a rivendicarne -con scarsa eleganza, a me pare- i diritti di sepoltura. Tutti gli aspiranti necrofori stanno infatti là, attorno al sepolcro ancora vuoto, a rinfacciare alla moritura i facili costumi, i favori elargiti -elargiti agli altri, ossia ad alieni, ad ignoti, agli extraterrestri!... Eppure, oltre alla scandalosa condotta e ai torti arrecati, gravano sul suo curriculum di Prima Repubblica: assistenzialismo, sperperi, diseconomie di ogni tipo.
Così van dicendo ed enunciando queste anime belle, questi folgorati sulla via di Damasco. Così vanno predicando a destra e a manca, da moralisti e fedeli DOC a pronto uso della futura, radiosa Seconda Liberazione.
Sicché la Prima Repubblica -quella nata dalla vecchia Resistenza- muore senza rimpianti. Muore a 48 anni non ancora compiuti, al termine di una vita dissoluta, segnata da debiti ed imbrogli, ammanchi e ipocrisie, che ora lascia al nuovo che avanza e subentra.
In vista di subentrare al cambio della guardia (al Palazzo), gli aspiranti -sempre più numerosi e vocianti- rinnovano il funereo guardaroba, s'incipriano il naso, ripassano il fard, metton su barbe, baffi e parrucchino, e si presentano come nuovi. Il cambiamento -si sa- esige idonei locali di trucco: camerini e toilletes, oppure cessi alla turca, sgabuzzini, sottoscale. Ognuno, certo, secondo le proprie possibilità, secondo le personali inclinazioni e disposizioni (di Palazzo).
C'è proprio di tutto, in questi luoghi di servizio e di fortuna: ciò che manca è la politica.
Il prossimo 28 marzo dunque, non segnerà solo la data di morte (presunta) di una inservibile, laida repubblica. Sarà anche la fine di tutto un repertorio di metafore, aggettivi e locuzioni che avevano contraddistinto il linguaggio della vecchia politica (: doroteismo e craxismo, "balena bianca" e biancofiore, camerati e compagni...). E, insieme alle parole, se ne andrà un certo modo di essere e di fare politica così come, nel bene e nel male, essa era stata praticata e vissuta dal '45 ad oggi.
Potrà persino succedere, paradossalmente, di rimpiangere qualcosa di quel «certo modo di essere». Possiamo dirlo da insospettabili di servo encomio come di codardo oltraggio. «Il Regime» ci ha sempre avuti quali fieri ed intransigenti antagonisti; quando la stragrande maggioranza degli attuali pentiti e dissociati ne traeva ragioni di carriere e guadagni, titoli e licenze, seggi e prebende. E molti di costoro sono ancora lì, dove le antiche e rinnegate appartenenze avevano loro consentito di arrivare...
Saremmo dunque noi -oppositori veri- tra i pochi legittimati a rallegrarsi del cambiamento. Ma non è così. Con una battuta: «c'è del nuovo e del bello in questo cambiamento, ma il nuovo non è bello e il bello non è nuovo». Quanto insomma sta succedendo sul fronte delle novità non c'entra con il Rinnovamento, con l'auspicata fine del Sistema partitocratico.
Non è questione di strategia delle alleanze, ove è giocoforza che ognuno rinunci a qualcosa di sé , alle proprie spigolosità, a qualcuno dei propri dogmatismi. No, non è questo che non va. Arrivo anzi a sostenere che i famosi «poli», che le varie alleanze partitiche intrecciatesi in questi ultimi mesi, avrebbero potuto avere una loro serietà, una loro plausibilità, una loro dignità se fossero state fondate -anziché sul comun denominatore di ideologie posticce e di uomini di paglia- su convinzioni serie, su idee e programmi e persone serie, plausibili, dignitose.
C'è, invece, in quella polarizzazione obbligata -questo è il punto nodale- un che di artificioso, di falso di trompe-oeil. Più ancora del «vecchio modo» di far politica. C'è sentore di essere sempre meno autonomi nelle scelte. Che tutto venga a svolgersi con cadenze da robot o da replicanti. Che tutto questo nuovo sia opera di clonazione... C'è in buona sostanza, il sospetto di essere tutti dentro una (ir)realtà plastificata, fra figure del tubo catodico e con personaggi e situazioni virtuali...
Un insieme di sensazioni, queste, che assumono contorni meglio delineati, quando ci si accorge di come le varie proposte elettorali altro non siano se non una serie di luoghi comuni, semplificati e spottizzati con toni e accenti diversi, a seconda della «fetta» di pubblico cui intendono rivolgersi.
Non si vuole nemmeno più persuadere la gente, persuaderla ad un'idea o ad un'ideologia.
Unico, semplice obiettivo è quello di far acquistare un prodotto. Il quale prodotto, poi, risulta essere sempre lo stesso, seppure differentemente confezionato.
In altre parole, questi gran patti per l'Italia, questi blocchi nazionali, queste sante alleanze per il progresso sono soltanto programmi stesi a tavolino, fra grafici, sondaggi e ricerche promozionali; fra uno stage ed un briefing.
Altro non c'è nella politica-mercato.
Non c'è, soprattutto, l'anima. Non c'è spazio per i sentimenti, per la rabbia, per la passione. Non c'è più posto per un'autentica partecipazione, nel «modo nuovo» di far politica.

Si parla tanto di «recessione mondiale» da parte dei politici, degli economisti, dei politologi ufficiali, e ufficialmente riconosciuti in Italia.
Volendo in qualche modo prescindere dalle loro paludate diagnosi macro-economiche e alto-finanziarie, si potrà ugualmente pervenire ad una (modesta, ma esatta) conclusione politica. Partendo da un dato statistico certo: da un decennio, la ricchezza collettiva degli italiani continua «indisturbata» a distribuirsi in modo sperequato e disomogeneo. Sono almeno dieci anni che si registra -senza che qualcuno faccia qualcosa per invertire la tendenza- una progressiva concentrazione di ricchezze in determinate aree geografiche e in delimitate fasce socio-economiche. Insomma, «la forbice» sta producendo ferite -non solo metaforiche- e feriti sempre meno rimarginabili nel tessuto connettivo del Paese.
La pur primaria ferita economica non è la sola ad essere stata inferta. Col passare del tempo, la società italiana ha assunto sempre più le caratteristiche di una «società scissa» su diversi e non comunicanti piani del vivere assieme.
È una crisi metaeconomica, è crisi esistenziale quella che attraversa l'Italia. Qui i frutti avvelenati del consumismo, del menefreghismo, dell'americanismo hanno prodotto lacerazioni particolarmente profonde. È una nazione, l'Italia, dove i periodici richiami alle emergenze sociali, ecologiche, morali cadono regolarmente in un allarmato silenzio. Il pubblico è distratto, e la «società civile» è stata troppo abituata e democraticamente educata a non rispondere, a frapporre la barriera dell'indifferenza, dell'impotenza, della sazia assuefazione...
Quanti fra «i politici» fanno caso a questo genere di cose, e le traducono in termini di riflessione e di risposta politica? Ben pochi.
Non certamente quanti appartengono al variegato schieramento liberal nazionale. E neppure larga parte del cosiddetto cartello progressista. Sono tutti, o quasi, ammalati di Mercato e quasi tutti al Suo servizio.
Basterebbe, io credo, una tale indifferenza ufficiale a dare un senso e una volontà di alternativa politica. Per costruire un fronte antagonista agli egoismi e all'omologazione. Per una politica dai contenuti nazionali, sociali e morali che innalzasse il proprio vessillo di lotta contro la grande mafia internazionale costituita dal capitalismo.
E poiché giochiamo in casa ci proponiamo -schivando ogni distaccato intellettualismo, così come gli alibistici impegni nel metapolitico o nel geopolitico- di fare della Sinistra Nazionale un referente riconoscibile per quanti nel nostro Paese abbiano consapevolezza che non è fallito solo «il socialismo reale», ma anche «il liberalismo reale».

Ai prudenti, ai timorati, ai rassegnati, agli impazienti vorrei e vorremmo comunque ricordare che «la» politica è qualcosa di più di un seggio a Montecitorio e domani a Strasburgo, o dopodomani a Roccacannuccia. Deve esserci un grande obiettivo, un mito, un'Idea a dare le coordinate per la politica di tutti i giorni.
Non ci si può limitare a farsi interprete del (legittimo) desiderio di avere un lavoro ben retribuito, di non pagare (giustamente) troppe tasse, di non avere (è vero) tanta delinquenza in giro, di assicurare (com'è naturale) ai figli un sicuro avvenire: ciò non basta per avere e per dare una linea politica, per un qualcosa che abbia dignità di politica.
Alla vigilia delle elezioni del 5 aprile '92 -ci si perdoni ... l'autocitazione- su "Aurora" si poteva leggere: «(...) senza idee forti, portanti, non intercambiabili non si fa, non si costruisce politica. Al più azzeccando qualche slogans alle fiere d'occasione e mettendo in mostra la nipote di Sophia Loren, si può aspirare alla spartizione del bottino elettorale». Non c'è stato nel frattempo motivo di cambiar idea.
Allora ci si riferiva (com'è evidente) all'ex-MSI-DN, ma -a distanza di due anni- quella nostra frase risulta sovrapponibile un po' a tutte, indistintamente, le forze che ora si apprestano a spartire il nuovo bottino.
Ripeto: la politica non si alimenta di sole cifre, dati, e programmi sterilizzati e computerizzati. C'è dell'altro, noi crediamo. E questo «altro» ha -lo si sappia o meno- a che fare con le suggestioni, con gli stati d'animo, con le ragioni della fantasia, con la solidità della speranza, con il materiale cioè di cui sono intessuti gli ideali.

C'è un vuoto che pesa, terribilmente, oggi in Italia.
È di «slancio vitale», è di «utopia», che nella politica italiana si avverte maggiormente l'assenza. A surrogare i quali non servono -e sono anzi alquanto ripugnanti- i richiami liturgici alla libera iniziativa o le continue giaculatorie alla libertà e alla democrazia.
Ascoltare, per esempio, l'on. Occhetto unire la sua stridula voce al coro di questi trafficanti di parole è per noi «anticomunisti storici», una nemesi della quale avremmo francamente fatto a meno. 
Così come avremmo volentieri rinunciato a sentir personaggi come l'on. Publio Fiori dichiarare, lui, «cessata la pregiudiziale antifascista»; o altri, come l'eurodeputato ex-socialista e supercraxiano Giuliano Ferrara, definirsi berlusconianamente «di destra». Potremmo a lungo continuare su questo versante, sconsigliato a chi sia debole di stomaco...
Infine, per citare un caso che ci tocca più da vicino, sarebbe stato per noi preferibile non vedere lo sbracamento, senza residui pudori... corporativi, dei residuati missini verso il liberalcapitalismo, e perdere in tal modo (definitivamente) la faccia «socializzatrice», ma salvare il sedere.
O almeno così, da bravi ascari, quest'ultimi, si aspettano e sperano; come si può leggere -a mo' di epitaffio- su un editoriale di "Iniziativa", organo degli ex-rautiani ora trapassati a finioti di complemento: "(...) per costruire una grande Alleanza Nazionale e (sic!) Sociale sui valori, prospettive e obiettivi sui quali possiamo e dobbiamo trovarci. Questo per far sì che il voto del 5 dicembre non prenda le tristi sembianze del bagliore vespertino, ma divenga luce di un giorno nascente. Il sole che sorge, appunto».
Sporcaccioni.

 

Alberto Ostidich

 

 

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