da "AURORA" n° 15 (Marzo 1994)

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Il Cavaliere dell'etere

e i nuovi politici dell'Azienda Italia

 

Alberto Figliuzzi

 

Prendendo spunto dall'esordio politico di Silvio Berlusconi, si presenta il rapporto tra politica ed economia in maniera critica rispetto all'orientamento liberaldemocratico oggi prevalente a destra come a sinistra. 

La vicenda politica italiana, da sempre caratterizzata dalla confusione delle lingue all'interno della nutrita schiera di partiti dalle più varie tinte e idiomi, propone oggi, invece, quasi volesse con ciò rappresentare la tanto mitizzata semplificazione del confronto democratico, una vera e propria paralisi della parola, che sembra non permettere più dei due termini (e relativi sinonimi) che in maniera incessante, da ora in avanti, dovrebbero scandire la rinnovata vita civile del Paese.
Essere "moderati" o "progressisti" (ma comunque "liberaldemocratici" e paladini del libero mercato, più o meno corretto da questa o quella forma di "solidarietà" sociale, nessuna delle quali immune da vicendevoli accuse di tentazioni stataliste): ecco quella che dovrebbe essere la fatale alternativa dei nostri tempi.
In questa situazione, in cui la povertà lessicale quando non è indice di scarsità di idee svela prudenti tatticismi elettorali, in cui le differenze nei programmi riguardano quelli che in altri momenti sarebbero apparsi semplici dettagli nell'ambito di una pressoché identica visione delle cose, in cui persino chi fino ad ieri poteva vantare, nel bene e nel male, una forte specificità politica tende a nasconderla per allinearsi con quanto richiesto dalla formula moderatismo-progressismo neo-liberista; in una situazione del genere succede che ci si azzuffi, ipocritamente e interessatamente, di fronte a fenomeni in tutto e per tutto omogenei alla sostanza del sistema e perciò tali da non destare meraviglia alcuna. Ecco, per esempio, in merito al diretto impegno in politica del "Cavaliere dell'etere", il perdurante litigio tra chi pensa di poterne trarre vantaggio e chi ritiene invece di esserne danneggiato.
Ma non si era sempre detto e ridetto che, diversamente dal passato, il nuovo sistema elettorale, ridimensionando i connotati ideologici dei partiti, avrebbe invece messo in risalto i "personaggi", ovviamente (ingenuo pretendere che si credesse il contrario) quelli più potenti in apparati e mezzi finanziari? E non era forse stata considerata da più parti l'eventualità che lobbies nemmeno tanto occulte diventassero così apertamente manifeste da proporsi come dirette protagoniste sul terreno elettorale, contemporaneamente alla autodelegittimazione di una classe politica incapace non solo di esprimere una qualche autonomia ideale e progettuale, ma persino di presentare in maniera un po' meno indecente di come ha fatto la sua ben retribuita collaborazione ad un certo mondo capitalistico? Di conseguenza, dati i presupposti, risulta del tutto regolare che frotte di imprenditori, fino ad ieri apparentemente estranei alla politica visto che questa ne curava gli interessi, si sentano chiamati, ora, ad impegnarsi in prima persona, a sinistra come a destra, a riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, della pressoché totale omologazione di quasi tutte le forze in campo rispetto al modello ed alla retorica del libero mercato; per cui appaiono formalistiche e capziose le argomentazioni che la regolarità o meno del suddetto impegno imprenditoriale vorrebbero deciderla misurando la forza dei mezzi di comunicazione di massa che lo sostengono, come se non fosse comunque possibile al potente di turno determinato a debuttare nell'agone politico avere a sua disposizione i canali propagandistici più idonei pur senza esserne il legale titolare.
L'episodio in questione è, in verità, la dimostrazione che, una volta imboccata (e non certo da oggi) la strada della stretta commistione di politica ed economia, essa viene inevitabilmente percorsa nelle forme più varie fino al completo asservimento dell'una all'altra, non essendo più le istituzioni l'emanazione di una forte coscienza della priorità ideale dello Stato rispetto agli interessi particolari dei singoli e dei gruppi; ciò indipendentemente sia dalla maggiore o minore onestà personale dei soggetti della vita politica che della dose di liberismo e dirigismo presenti nel mercato. È perciò assai deprimente come un problema che nei tanto vituperati tempi delle "ideologie forti" avrebbe sollecitato approfondite analisi (per esempio, a seconda dei versanti culturali, relativamente alla dimensione sovrastrutturale delle istituzioni oppure in merito alle condizioni per una effettiva organica composizione tra pubblico e privato) venga ora ridotto alla conta delle emittenti e delle testate giornalistiche di chi evidentemente ha potuto realizzare una simile concentrazione con l'ausilio di leggi varate da uomini i quali, sempre, fosse il capitalismo italiano più allo scoperto o prudentemente dietro le quinte, sono stati al servizio di interessi di parte.
Insincero è perciò chiunque momentaneamente faccia finta, prendendo a pretesto questo o quell'episodio, di voler ridare moralità ad un sistema probabilmente destinato ad essere più di ieri saturo di particolarismi nel segno della liberaldemocrazia destrorsa o sinistrorsa. Del resto, l'Azienda Italia, quale si e ridotto il nostro Paese sia nella realtà che nel gergo di taluni politologi per la cui dottrina la vita di una nazione si esaurisce nell'andamento della "borsa", che cosa potrebbe meritare di più se non l'illuminata guida di collaudati imprenditori?
E nient'altro, in fondo, rimane da dire riguardo alla sostanza della cosa qualora lo sguardo non si spinga oltre i soliti orizzonti illuministici variamente reinterpretati.
Diverso il giudizio, invece, se si provasse a vedere, nella volontà di protagonismo del mondo imprenditoriale, una diffusa voglia di diretta partecipazione alla vita delle istituzioni comune anche a tutte le altre categorie sociali di fronte alla crisi ideale e morale del partito politico, almeno com'è stato fino ad oggi. In tal caso, il fenomeno, anziché presentarsi come una più virulenta manifestazione della egemonia del momento economico su quello politico, parlerebbe a favore del bisogno di una fisiologica rappresentanza di tutte le forze produttive, sociali, culturali, in seno alla nazione per un'organica composizione di interessi, fini, esigenze. Si avrebbe cioè un mondo economico davvero capace di esprimere un'anima, politica nel momento in cui accettasse di subordinarsi non già ad interventi volti a limitare senza necessità la libertà di mercato bensì ad un progetto che consideri l'economia nel suo complesso, la pubblica non meno della privata, nel più ampio quadro di ciò che attiene al benessere materiale e spirituale dell'intera comunità.
Ma ovviamente tutto ciò non ha niente a che fare con la mentalità manageriale che, in diversa misura, segna tanti vecchi e nuovi soggetti della scena politica nazionale, non solo il "cavaliere dell'etere", ma anche i suoi più acerrimi avversari...

 

Alberto Figliuzzi

 

 

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