da "AURORA" n° 15 (Marzo 1994)

APPELLO ELETTORALE

Chi di noi, in famiglia, non si trova ad avere una vecchia prozia, magari zitella, un po' sorda e rimbambita, missina dalla nascita?
Non è il caso di farne un dramma: son cose che succedono, e alle quali non c'è rimedio.
Ma se, nel giro delle nostre frequentazioni familiari ed extra c'è qualcuno che «valga l'interessamento»
-e che, ciononostante, esprima temerarie intenzioni di voto
pro-Fini & Fiori-
ebbene, in tal caso può essere utile e doveroso (sempreché, ripetiamo, quel qualcuno sia in grado d'intendere e di volere) fargli leggere la seguente intervista-verità

[da "La Stampa" del 11-12-93, titolo "La Destra d'urto"].

Fotocopiamola e distribuiamola.
Siamo certi che i destinatari ringrazieranno per avere loro aperto gli occhi. Non è anzi da escludere che, dall'episodio, usciranno rafforzati i rispettivi vincoli di amicizia e/o parentela.

Se, malauguratamente, così non avesse ad accadere... 
ma voi, che razza di gente frequentate?!?


 

Caradonna:

la nostra storia nera fra pugni, dollari, assalti e colpe

«Non mi vergogno di dire che nel '72 vincemmo grazie al denaro degli USA»

Omnibus

 

Le origini del MSI, i randelli, i dollari, il golpe, Gedda, la P2, un paio di generali capi dei servizi segreti, la boxe, l'Occidente e i veleni del Palazzo...
La lotta, in fondo, contro il comunismo vissuta e raccontata come in un esclusivo, per certi versi formidabile, per altri versi deprimente miscuglio de "I tre moschettieri" e di un film con Bud Spencer. Non senza scivolamenti nel comizio, puntatine nell'hard core e perfino nel malinconico-rievocativo.
Ora che «il comunismo non c'è più» Giulio Caradonna, 66 anni, romano e più ancora romanesco, otto legislature, una dozzina di processi, sette condanne, semplicemente non ci crede: «ma chi l'ha detto che è morto? Ma manco pe' gnente!». Agli occhi di chi non è mai stato fascista, la singolarità di questo personaggio, di poche parole e di fin troppa azione, appare comunque una conferma di quanto sia complessa la destra italiana. E, ancora di più, di quanto sia complesso il partito che Fini vorrebbe cambiare.
Ormai un anziano, Caradonna. I baffi di sempre, la voce un po' stridula, con rumorosi scatti vocali che segnalano un'irresistibile accalorarsi: «Uh!», «Eh!». La stampella, inseparabile, brandita spesso come arma impropria (l'ultima volta sottocasa, qualche mese fa per "fronteggiare" un improvvido scippatore armato di coltello). Con scanzonata gigioneria spiega che se di qualcosa deve pentirsi, è solo perché «ai comunisti gli ho menato poco». E tuttavia adesso è dal MSI che vuole ripartire. Un MSI che proprio Caradonna vorrebbe paradossalmente più liberista e occidentalista, meno chiuso. Si parte dagli albori, da quel primo segretario che «a differenza di quanto è stato fatto credere, non fu Almirante».
E chi fu allora?
«Si chiamava Giacinto Trevisonno. Dietro di lui vi era una specie di Senato occulto, una serie di gerarchi che come Augusto Turati non avevano partecipato neanche alla Repubblica Sociale, ma non potevano fare politica. Almirante era solo una specie di caposegreteria. In poco tempo, dando impulso all'anima della sinistra della RSI, riuscì ad estromettere completamente il vecchio Senato. Condannando il MSI a rimanere piccolo».
Ma lei che rapporti aveva con Almirante?
«Non buonissimi. Mi ha sempre guardato con l'occhio porcino perché di lì a poco riuscimmo a toglierli la segreteria».
E adesso, questa Alleanza Nazionale?
«Senza un'identità più netta, rischiamo di farla tra noi. Fini deve imboccare una strada più occidentale, tecnocratica. Basta parlare male dell'America, flirtare con il mondo arabo. Oppure quelle altre frescacce esoteriche tipo guardare il sole, la mattina, e ammazzare il gallo».
Il gallo?
«Si, nel partito c'è stata tutta una discussione, una volta su una federazione, mi pare fosse Pisa, dove alcuni ragazzi sacrificavano il gallo, lo offrivano non so a chi cavolo. Io, all'inizio, non avevo capito. Chiesi: scusate, ma questi, dopo, se lo mangiano 'sto gallo? Gallo toscano di tre mesi, capisce. E invece era un rito. Ma allora sono matti! Questo deve finire».
Però anche lei, in quanto a riti, risulta iscritto alla P2.
«Io veramente ho conosciuto Gelli e poi mi sono ritrovato iscritto. Mi serviva, questa Loggia più vasta, per contattare deputati su una certa legge agraria che mi stava mandando in rovina. Vidi Gelli all'Excelsior, sembrava un saltapicchio. Mi fece affacciare ad una specie di spioncino che aveva in camera da cui vidi Fanfani che stava bussando».
Proprio da lei comunque, tornando al MSI, questa lezione di moderatismo...
«Moderatismo occidentale e patriottico. Guardi ai tempi della Giovane Italia, dell'attivismo giovanile, fino a montare la campagna su Trieste. E anche quando andai all'assalto delle Botteghe Oscure lo feci per la CED, per allontanare i ragazzi dal rautismo, che li portava contro l'America, contro l'Occidente. Questo equivoco, anche adesso, va chiarito. A questa gente che si mette la kefiah, Fini deve dire: jatevenne. Io, alla fine, preferisco un vero comunista a un nazionalcomunista».
Altrimenti?
«E che, facciamo gli ipocriti? Io non ho paura a dire che il MSI ha vinto, nel 1972, con i soldi degli americani, 6-700 milioni di allora procurati attraverso una mia iniziativa da un italiano d'America, emerito, Pierfrancesco Talenti, uno degli uomini di punta del partito repubblicano americano. Amico di Richard Nixon. I soldi del Dipartimento di Stato che vennero attraverso il generale Miceli, allora capo del SID e quindi alta autorità della NATO. Li portò con le valigie direttamente ad Almirante».
A proposito, ma perché il generale Miceli, come in precedenza De Lorenzo, dopo aver guidato il SID e il SIFAR sono finiti nel MSI?
«Ce li ha mandati la DC. Eravamo la "sputtacchiera amica". De Lorenzo, per l'esattezza, ce lo mandò Andreotti, Miceli, Piccoli. Tutto qui».
Servizi o non servizi, lei intanto s'era già costruito quella sua particolarissima fama di, diciamo, attivista.
«La destra d'urto. Trieste, appunto, l'università di Roma, e prima ancora le botte quando per sputtanare i comunisti tentammo di prendere l'ambasciatore cinese e di buttarlo, senza pantaloni nella fontana della Minerva. Cantavamo "Avanti arditi", contro le disposizioni del MSI che prevedevano l'inno ufficiale, scritto da Almirante, che diceva: «siamo nati in un cupo tramonto...». Ma c'era chi intonava: «Se non ci conoscete - ohèi, per la Madonna, noi siamo gli arditi di Giulio Caradonna». Ricordo il parapiglia quando, d'accordo con Scalfaro e Scelba, andammo a Firenze per far saltare il centrosinistra di La Pira, che scappò dal retro di un edificio facendo una breccia. Tornammo con i pullmans scortati dalla stradale. Con me c'era Angelino Rossi, che oggi sta con Ciarrapico...».
Conosceva già Ciarrapico?
«L'ho tirato su io, politicamente, da ragazzino. Sveltissimo, bravissimo».
E Sbardella?
«Truce. Silenzioso. Era chiamato "il Chiodo"».
Quindi se entrambi sono entrati in politica, in qualche modo bisogna ringraziare lei?
«Senta, io ripeto ciò che dissi al mio carissimo amico Evangelisti a cui, una volta che i comunisti lo stavano ammazzando di botte, salvai la vita. Comunque, a Evangelisti che voleva farmi dire se alcuni dei nostri, passati con loro, s'ingroppavano gli uomini o meno, dissi: «guarda, Franco da noi questo non succedeva. Se poi, una volta entrati nella DC, hanno preso questo vizio...» Eh. È come quando mi domandando: «ma erano onesti?» Certo, da noi erano onesti, poi, da voi sono diventati miliardari. Facevano il fuoco con la legna che c'era».
Gente...
«Di mano».
Di mano, l'Accademia pugilistica romana...
«Di cui ero onorevolmente presidente. Beh, insomma, senta, l'attivismo, a me la prima volta mi gonfiarono di botte. Avevano anche loro le squadre di pugilato. Quando fui eletto per la prima volta al consiglio comunale fecero eleggere un medio-massimo».
Fino al famoso scontro nell'università occupata, nel '68, con il frigorifero tirato sulla schiena di Scalzone.
«Li veramente ci andò Almirante, con gente venuta da fuori. Lui tentò di entrare a Lettere, e fu respinto. Io stavo a guardare con sette dei miei, dell'Accademia. Mi ricordo "il postino", un armadio, uno che mangiava 50 uova sode, e poi Gianfranco Rosci, un altro passato alla DC, quello che l'altr'anno la moglie gli tirò via i soldi dalla finestra. Fummo coinvolti nella fuga dei missini e solo in un secondo tempo ci rifugiammo a Legge, dove io, naturalmente, diressi le operazioni».
Intanto si cominciava a parlare di un suo coinvolgimento nei vari golpe...
«Già da tempo, in realtà. La prima volta per via di uno scherzetto che senza volere ci tirò Luigi Gedda con il quale avevo avuto dei rapporti ai tempi della "operazione Sturzo". Insomma proprio Gedda mi presentò ad un gesuita, Alighiero Tondi, confessore di Pio XII, teologo, ingegnere, che parlava e proponeva (un) colpo di Stato, ma che poi, sul più bello, si rivelò essere comunista».
E il golpe Borghese?
«Beh, qui ho avuto subito la sensazione che me lo volessero scaricare addosso. Mi chiamò pure Vitalone, allora giudice. Fu una scena comica. Chiedeva, mellifluo: «Ma chi può averlo organizzato?» Io rispondevo che poteva farlo, il golpe, solo il presidente del Consiglio o il ministro della Difesa».
Come dire Andreotti.
«E già. La morte di Borghese, piuttosto, fu tenebrosa. Per me è stato avvelenato».
Le ha mai detto nessuno che lei avrebbe ispirato il protagonista del film "Vogliamo i colonnelli"?
«Beh, non so. Credevo che Tognazzi fosse ricalcato su Saccucci».
Ma ai tempi del golpe Borghese, Saccucci non era deputato, mentre nel film di Tognazzi lo è...
«Ah si? Allora sarò io»

 

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