da "AURORA" n° 15 (Marzo 1994)

RECENSIONI

 

Renato Pallavidini

Hegel critico dell'autoritarismo. 
Il confronto critico con la Rivoluzione Francese

alle origini dei modelli teorici del giovane Hegel

Arnaud, Firenze 1992     pp. 142   £. 25. 000

 

Il giovane Hegel come il giovane Holden? Ovvero il manifesto di una generazione? Quella per intenderci che accolse con l'entusiasmo dei vent'anni la burrasca della Rivoluzione Francese, per poi accorgersi -ma solo a cose fatte- che quella burrasca aveva lasciato il suolo imbevuto di sangue.
Fatte le debite proporzioni, e senza voler commettere la blasfemìa di accostare l'eroe di D. J. Salinger ad un gigante del pensiero occidentale moderno, non è improbabile: anche se sul giovane Hegel, come nota Remo Bodei nella sua prefazione a questo originale saggio di Renato Pallavidini, «sembrava tutto fosse già stato detto». Legittima quindi la domanda: era proprio necessario un altro libro su Hegel?
Si, senza ombra di dubbio: perché (notiamo con Bodei) in questo suo scritto Renato Pallavidini intuisce con lucidità e lungimiranza che ci troviamo oggi alla fine di un ciclo iniziato teoricamente con Rousseau e politicamente con i giacobini. Gli esiti del connubio sono ben noti: le tre libertà trascinate su e giù per gli scalini dei patiboli, e -dopo la breve stagione napoleonica di sangue e di gloria- quella Restaurazione destinata a sfociare in un inevitabile 1848. I giacobini, in qualche modo, pagarono per le loro idee; Rousseau, invece, il bizzarro pedagogo che -a quanto dice lui stesso nelle sue "Confessioni"- abbandonò all'orfanotrofio tutti e cinque i figli avuti dalla lavandaia Levasseur, morì nel castello di Girardin, nel 1778, undici anni prima della mitica e mitizzata presa della Bastiglia, e proprio mentre oltreoceano le colonie ribelli prendevano le armi contro la madrepatria.
Ma torniamo ad Hegel; che, a partire dal 1788, frequenta i corsi universitari di teologia di Tubinga, dove ha per compagni Schelling e Hölderlin, già tutti presi dai nascenti entusiasmi romantici -se la scoperta delle rovine di Pompei risale già al 1748 e al 1750 l'Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray, il Goetz di Berlichingen di Goethe e la Leonora di Burger sono soltanto del 1773. Impossibile resistere a certe tentazioni.
È così che tre pilastri della cultura ottocentesca europea si trovano a studiare e sognare sotto le quiete, austere volte dello Stift tubinghese, da dove seguiranno con partecipazione intensa e spesso commossa le vicende della Rèvolution. Affratellati dall'ideale e dall'analisi i tre vivono in una comunione di spirito e d'intenti destinata a concludersi nel volgere di pochi anni. La divina follia coglie Hölderlin intorno al 1802, e se lo porta via senza rimedio nel 1806 (morto tra i vivi, vivo tra i morti, come sarà di Nietzsche ottant'anni dopo, Hölderlin concluderà la sua esistenza nel 1853), mentre pochi anni dopo la laurea Hegel e Schelling entrano irreparabilmente in conflitto e le loro idee non potranno incontrarsi mai più.
Gli anni di Tubinga lasciarono comunque un segno indelebile nell'animo e nel pensiero di Hegel. Poco dopo la laurea, in una lettera ad Hölderlin del 10 luglio 1794, Hegel scrive: «io sono certo che tu hai talvolta pensato a me da quando ci siamo separati con questa parola d'ordine: "Regno di Dio". Con questa parola d'ordine noi ci riconosceremmo, credo dopo ogni metamorfosi». Pochi mesi dopo, alla fine del gennaio 1795, scrivendo a Schelling, egli ripropone lo stesso ideale, dimostrando un forte interesse pratico verso la sua realizzazione. «Venga il regno di Dio e diamoci da fare. Ragione e libertà restano le nostra parola d'ordine e la chiesa invisibile resta il nostro punto di riconoscimento». (p. 9)
Soltanto un lettore frettoloso e distratto, però, potrebbe vedere in queste parole di Hegel nient'altro che un'ispirazione da seminario: va detto che soltanto da un mezzo secolo è stato sollevato il problema delle origini politiche del pensiero hegeliano, e proprio grazie alla critica marxista. Al di là di una certa schematicità ideologica, è segnatamente a Lukàcs che va il merito di aver discusso per la prima volta e in modo organico la questione. Superando i due orientamenti dominanti sulla matrice politica del pensiero hegeliano -quello che attribuiva ad Hegel una formazione mistico/religiosa, e quello che individuava nel pensiero hegeliano e in generale nell'idealismo tedesco il risultato di una riflessione sui problemi lasciati irrisolti dal criticismo Kantiano-, Lukàcs «introduceva l'idea che il momento centrale del pensiero di Hegel, come nell'intera filosofia tedesca, fosse la Rivoluzione francese» (p. 17).
Sappiamo, in effetti, che «nel corso degli anni '90, all'interno della cultura tedesca, si apre un confronto critico con la Rivoluzione francese che conduce, a partire dal '92-'93, ad un vero e proprio distacco rispetto ai contenuti e alle forme assunte dal processo rivoluzionario, in modo particolare durante la fase democratico-giacobina (che) non coinvolge però unanimamente tutti gli intellettuali tedeschi. Ne sono, ad esempio, immuni Fichte, che prende pubblicamente le difese della Rivoluzione proprio nel 1792-1793 (...). Anche Kant, che pure dopo il 1792 aveva assunto posizioni politiche apertamente moderate, in uno scritto del 1798 («se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio», in "Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto", UTET, Torino 1978, pp. 223 e segg.), sembra giustificare il processo rivoluzionario, partendo dall'idea che in esso si esprimerebbe una «disposizione morale dell'uomo, in base alla quale egli tende al perfezionamento della propria esistenza e della costituzione politica (...). Nonostante queste posizioni, è tuttavia indubbio che la maggior parte degli intellettuali tedeschi diventi sempre più ostile alla Rivoluzione in rapporto al suo processo di radicalizzazione, che sfocia in violenze di massa e in forme di aperto autoritarismo. Questo distacco e particolarmente visibile a partire dal 1792, ma le prime manifestazioni di disagio della cultura tedesca, di fronte agli avvenimenti francesi, si avvertono già 1790-1791» (p. 17).
Il giovane Hegel non sfugge alla regola; fin verso il 1972 non abbiamo notizie di un suo atteggiamento critico nei confronti del fenomeno francese -è pur vero che Georg Wilhelm Friedrich all'epoca è poco più che ventenne-, ma il rapporto che Hegel matura con la rivoluzione, a partire dal '92-'93, ha un carattere complesso. Da un lato si avverte l'adesione e l'entusiasmo per un processo politico che si propone di rifondare su basi libertarie l'intera vita umana. D'altro però egli si rende conto (...) della differenza fra la Rivoluzione francese e quella americana iniziando a criticarne il carattere radicale e violento, e le evidenti forme di dispotismo in cui essa sfocia negli anni dell'egemonia giacobina (...). Questa posizione di Hegel e di Hölderlin è tutt'altro che isolata in Germania; essa si inserisce in una più generale tendenza degli intellettuali tedeschi, dopo il 1792, a rifiutare gli aspetti violenti e dittatoriali della rivoluzione, che conduce molti autori, quali Schiller, Novalis e gli altri esponenti del gruppo romantico, ad un rifiuto complessivo del processo rivoluzionario (pp. 9-10). Ricordiamo che il 10 agosto 1792 il popolo assaltò le Tuileries imprigionando Luigi XVI e la famiglia reale al completo: l'evento segnò l'inizio di una serie di sopraffazioni e violenze che difficilmente avrebbero potuto essere giustificate anche da un accanito sostenitore della libertà ad oltranza, figuriamoci da un prussiano...
Fatto sta che Hegel apre lo scritto del 1793 (Volksreligion und Christentum - N.d.R.) affermando: «La religione è una delle questioni più importanti della nostra vita (...) in quanto può, come religione "soggettiva", operare la mediazione estetica della persona umana (...essa) deve penetrare nell'intero tessuto dei sentimenti dell'uomo», entrinsecandosi in «sentimenti e azioni». Una siffatta religiosità, improntata alla tradizione luterana e al pietismo, ha il compito di dare «un nuovo e più alto slancio alla moralità ed ai suoi moventi» (p. 2O).
Alla luce di questo, si comprende ora il significato più profondo di quel "regno di Dio" argomento delle conversazioni epistolari fra il filosofo e il poeta: «sia Hegel che Hölderlin (...) intendono, con la loro opera porre le basi per un mutamento radicale dei rapporti politici e sociali in Germania (...). In sostanza l'espressione "regno di Dio", che pare al centro degli interessi e del lavoro filosofico-culturale di Hegel come di Hölderlin (...) propone, con una terminologia a sfondo religioso, il problema della libertà umana e della sua affermazione nei rapporti sociali e politici (...) credo si possa affermare che proprio questa problematica politica non solo stia all'origine del pensiero hegeliano, ma ne muova tutto lo sviluppo sino al sistema della maturità» (p. 9).
È questo in poche e lucide parole, il succo del saggio di Renato Pallavidini, che abbiamo sin qui cercato di illustrare; per affrontarne la non facile ma appassionante lettura val meglio l'amore per il sapere che non un supponente accademismo.

A. C.

 


 

Furio Jesi

L'accusa del sangue, mitologia dell'antisemitismo

Morcelliana, Brescia 1993     pp. 133    £. 15.000

 

Chi avesse nutrito qualche dubbio circa la fondatezza delle accuse di "omicidio rituale" tradizionalmente rivolte agli Ebrei, si sarà dovuto ricredere dopo la strage alla moschea di Hebron.
Tale massacro, infatti, è avvenuto in corrispondenza del 13 del mese di Adar, ossia il primo giorno della "festa dei Purim", nel quale gli Ebrei leggono il Libro di Ester: «Così i Giudei colpirono di spada tutti i loro nemici: fu un vero massacro, un autentico sterminio: fecero dei loro nemici quello che vollero. Nella sola cittadina di Susa i Giudei uccisero 500 uomini...». (Ester, 9, 5-6)
In tutta la Persia, ne ammazzarono 75.000. «Era il giorno 13 del mese di Adar. Il 14 i Giudei si riposarono, fu per loro un giorno di convitti e di allegrezza». (Ivi, 9, 17)
Anche nel 1994, dunque la festa dei Purim è stata pienamente celebrata, con una strage conforme al paradigma esemplare proposto dalla scrittura biblica. 
Sul tema degli "omicidi rituali" verte un interessante saggio postumo dell'intellettuale israelita Furio Jesi, tragicamente deceduto nel '80 per una fuga di gas nel bagno della sua abitazione genovese.
Rievocando un caso di "omicidio rituale" che avrebbe avuto luogo a Damasco nel 1840, nel quartiere degli Ebrei, Jesi si guarda bene dal respingere come falsa e infamante l'accusa rivolta agli imputati. Anzi, il suo resoconto dell'episodio sembra voler convalidare la versione dell'omicidio rituale! Certo, quello che preme essenzialmente all'Autore è mostrare il «funzionamento della macchina mitologica» (pag. 37) antisemita; ma è anche vero che lo stesso Jesi (come fa notare con la postfazione al volume Davdi Bidussa) stabilisce una sorta di equazione tra l'Ebreo e il vampiro.
E ciò non emerge solo nella seconda parte de "l'accusa del sangue" (dove, ad esempio, viene rilevato da Jesi il vampirismo di Heine), ma anche in un racconto sui vampiri scritto dallo stesso Jesi e pubblicato dall'editrice cattolica Marietti nel 1987. 
Tale racconto, "L'ultima notte", aggiorna, secondo la variante del "regno dei vampiri" il "regno d'Israele" preconizzato dai "Protocolli dei Savi di Sion": i vampiri popolo eletto da Dio, lottano vittoriosamente contro le schiere sbandate del genere umano e finiscono per «ereditare la terra».
Anche nell'accusa del sangue, come nota David Bidussa, «Ebrei e vampiri risultano reciprocamente omologabili», sicché «la raffigurazione vampiresca si accosta, per alcuni tratti, tutt'altro che secondari, a quella dell'Ebreo». (pp.116-117)

 


 

Kostantin Leont'ev

Bizantinismo e mondo slavo

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1987     pp. 185    £. 22.000

 

Precursore del morfologismo di Spengler e di Toynbee, il russo Kostantin Leont'ev può davvero essere considerato come «il solo che possa essere in qualche modo accostato ai grandi interpreti occidentali delle dottrine tradizionali» (A. Dughin). 
E può a buon diritto essere definito, come ha fatto un autore insospettabile, A. Yanov, «un gigante mentale». 
Particolarmente degno di nota è quindi l'iniziativa editoriale che lo rende noto al pubblico italiano, soprattutto se si considera che proprio in questi anni il pensiero di Leont'ev attira l'interesse di quanti, in Russia, cercano di approfondire la basi dottrinarie della corrente eurasiatista.
Infatti Kostantin Leont'ev, contrapponendosi alle ristrettezze del pensiero slavofilo e panslavista, individuò le fondamenta storico-culturali della Russia non nell'appartenenza etnica al mondo slavo, ma nella fedeltà alla tradizione bizantina. 
Solo l'identificazione con la matrice bizantina, secondo Leont'ev, può preservare la Russia dall'infezione democratica che devasta l'Europa, anzi, questo recupero della propria cultura tradizionale costituirà il punto di partenza necessario perché la Russia possa costituire, insieme coi popoli della Siberia dell'Asia Centrale, un blocco eurasiatico alternativo all'occidente.
È questo il senso della cosiddetta «turcofilia» di Leont'ev. Più che essere una forma di esotismo, l'amore di Leont'ev per la "Vecchia Turchia" nasce dalla convinzione secondo cui l'Impero ottomano ha avuto il merito d preservare le comunità cristiane dell'Oriente e dei Balcani da quella degenerazione modernista che ha invece travolto il Cattolicesimo occidentale.
Russia ortodossa e Turchia musulmana, nell'ottica di Leont'ev, rappresentavano le uniche possibilità, ai fini di un'alleanza di forza, spirituali e politiche che proteggesse l'Europa dal liberalismo.
Prima di liquidare Leont'ev come un generoso utopista, si legga "Bizantinismo e mondo slavo": vi si potranno trovare spunti e indicazioni che ancora oggi, a cent'anni di distanza, mantengono la loro validità e, in certi casi, si sono fatti ancora più attuali di allora.

 


 

Johannes Pohl - Karl Georg Kuhn - H. Vries de Heekelingen

Studi sul Talmud

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1992    pp. 102    £. 15. 000

 

Gli autori dei tre saggi riuniti in questo volume sono studiosi di competenza indiscussa nel campo dell'ebraistica. 
Uno di loro, il Kuhn, è di origini ebraiche: e ciò dovrebbe essere sufficiente ad allontanare dallo studio in questione il sospetto della parzialità o addirittura ... dell'ispirazione antisemita!
L'iniziativa editoriale in questione ha avuto una certa tempestività, poiché è coincisa con un convegno sui talmudisti che si è svolto a Roma, nella sede dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 
A tale convegno partecipò nientemeno che il rabbino Steinsaeltz, coordinatore dell'edizione del Talmud alla quale si lavora da alcuni decenni a Gerusalemme. 
Dopo aver rivendicato il contributo fondamentale dato dagli Ebrei alla costruzione della civiltà occidentale, il rabbino Steinsaeltz ha annunciato un nuovo decisivo intervento dell'ebraismo nel mondo moderno, un intervento che avrà luogo all'insegna del Talmud.
Che cosa ci si debba aspettare, lo si intuisce da questi studi sul Talmud. 
Il precetto talmudico che l'Editore ha riportato con caratteri ebraici sulla copertina del libro suona così: «il migliore dei non ebrei deve essere ammazzato». 
Non pare dunque che si possa essere molto ottimisti circa la buona novella annunciata dal rabbino tamuldista.
Comunque, data l'importanza programmatica dei testi talmudici in relazione alla funzione dell'ebraismo, e quindi in relazione al futuro stesso dell'umanità, non resta che rinviare il lettore agli Studi sul Talmud. 
Si troverà la sistemazione generale di una summa di precetti che nelle accademie rabbiniche viene studiata letteralmente di giorno e di notte e che ogni buon israelita si sforza di conoscere nella misura del possibile.

 


 

Muhammed Asad

Jihad

Ed. all'insegna del Veltro, Parma 1980    pp. 78    £. 10.000

 

«Mussolini è nel cuore dei musulmani di tutto il mondo, perché è giusto, coraggioso, deciso e perché difende la loro fede».
Queste parole di Halsuia el Morgani, discendente del Profeta ed esponente della "tariga khatmiyya" (un ordine iniziatico islamico presente in Sudan, in Egitto e sulle rive del Mar Rosso) sono emblematiche dei sentimenti che animarono le popolazioni musulmane dell'ex-Africa Orientale Italiana nei confronti del Fascismo.
Molto diversamente, purtroppo, andarono le cose nella colonia libica, dove fin dal 1912 l'Italietta liberale aveva avuto a che fare con la guerriglia senussita. Il Fascismo ereditò una situazione difficilmente rimediabile, che fu probabilmente aggravata dalla funzione di un individuo come Pietro Badoglio, governatore della Tripolitania. Fu lui, Badoglio, a chiedere la testa del capo senussita, Omar al Mukhtâr, del quale viene revocata l'eroica figura in queste pagine di Muhammad Asad, un europeo entrato in Islam negli anni venti di questo secolo.
Muhammad Asad, morto recentemente, quasi centenario, in Spagna, scrisse un'autobiografia, "La via verso la Mecca", che è stata tradotta in una quindicina di lingue, dall'olandese al giapponese. In Italia, il libro non è stato pubblicato, perché l'editore aveva posto come condizione che venisse eliminato il capitolo relativo alla guerriglia senussita. È questo «capitolo dello scandalo» che le Ed. all'insegna del Veltro hanno pubblicato col titolo di "Jihad": e ciò nel medesimo anno in cui un regista arabo girò un film, "Il leone del deserto", che si ispirava appunto alla storia di Omar el Mukhtâr. Nemmeno il film è mai circolato in Italia, se non in qualche circolo privato.
Ai censori del libro ed ai sabotatori del film (antifascisti di regime ma anche post-fascisti come l'on. Olindo del Donno, egualmente preoccupati di impedire la «propaganda di Gheddafi») dedichiamo queste righe di Rodolfo Graziani, che rendono un cavalleresco onore delle armi al mugiàhid libico e manifestano una serenità di giudizio esemplare.
«Era dotato di intelligenza pronta e vivace; era colto in materia religiosa, palesava carattere energico e irruente, disinteressato e intransigente; infine, era rimasto molto religioso e povero, sebbene fosse stato uno dei personaggi più rilevanti della Senussia».

 

 

articolo precedente