da "AURORA" n° 16 (Aprile 1994)

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Economia antagonista:
l'anello mancante dell'anticapitalismo

Giovanni Mariani

 

Un movimento politico che intenda farsi "avanguardia" dell'anticapitalismo deve essere in grado di trarre insegnamenti anche da esperienze marxiste inserendole nella sua dinamica politica. 
Questo non rappresenta una rinuncia alle esperienze precedenti, né tanto meno significa abbracciare il marxismo. Ma è indispensabile rinunciare ai nostri settarismi ideologici riconoscendo la validità, qualora la si voglia cogliere, di quel socialismo rivoluzionario di inizio secolo che ben prima, di noi avvertì la minaccia del capitalismo, e quindi dell'imperialismo. Altrimenti rischiamo di negare le origini di quel processo sociale ed economico del quale il nascente fascismo fu portabandiera. Le radici stesse del movimento di Mussolini traggono linfa politica da precedenti esperienze socialiste e socialdemocratiche del primo decennio del secolo, un dato di fatto innegabile. Alla luce di questa premessa dovremmo essere in grado di analizzare serenamente, in modo oggettivo, alcune rielaborazioni marxiste di Rosa Luxemburg, nelle quali vi sono analisi di rara efficacia che hanno retto all'usura del tempo.
Nella sua "Introduzione all'economia politica" Rosa Luxemburg mette a nudo un fatto incontrovertibile; ovvero la suddivisione del capitalismo a seconda del suo grado di sviluppo. 
La Luxemburg individua le tre strutture economiche principali del capitalismo, la prima delle quali è costituita da quei paesi dove esso domina (Inghilterra, Germania e Stati Uniti), e nei quali continuano ad esservi malgrado tutto, segmenti economici non capitalistici (artigianato e agricoltura); la seconda è quella dei paesi più arretrati, in cui il capitalismo ha da poco iniziato la sua espansione, e l'economia dei quali è dominata essenzialmente da un tessuto produttivo non capitalistico (Russia, Italia, ecc.); infine la terza rappresentata da quei paesi, la grande maggioranza, nelle cui economie non ha ancora messo radici.
Per meglio classificare questi paesi non capitalistici la Luxemburg adotta l'espressione in seguito criticata da Bauer: «nichtkapitalistiche schichten und lander» («fascia di paesi non capitalisti»). Fino a questo punto l'analisi della Luxemburg procede di pari passo col pensiero marxista; in seguito l'analisi oggettiva del mercato mondiale permetterà, alla rivoluzionaria russa, di continuare quello studio che Marx, a suo giudizio, aveva interrotto nel terzo libro del Capitale (sarebbe più esatto dire Engels).
Questa analisi permette una prima conclusione: il capitalismo ha sviluppato il proprio dominio sulle economie non capitaliste, con le buone o con le cattive, imponendo un suo sistema produttivo.
Un'altro postulato enunciato dalla Luxemburg afferma: «... la fine del capitalismo è connessa all'acquisizione totale del mercato mondiale esistente, e la conseguente fine della sua espansione ne decreterà la morte».
Non è azzardato affermare che questi primi postulati marxisti riproposti dalla Luxemburg siano in parte veri e in parte infondati. Sicuramente l'analisi inerente alla suddivisione del capitalismo in tre differenti aree di sviluppo è quantomai attuale e sovrapponibile all'attuale situazione economica internazionale: un "primo mondo" composto dai membri del G7; un secondo composto dai paesi che aspirano a farne parte; ed infine, un terzo mondo che raggruppa quei paesi che lavorano e forniscono materie prime per la sopravvivenza del primo e del secondo.
Ben diversa l'analisi di merito sulla «fine del capitalismo». Analisi basata su un pretenzioso e pretestuoso meccanicismo evoluzionista del quale né Marx né la Luxemburg, né gli altri riformisti tedeschi riuscirono mai a liberarsi. Sicuramente il capitalismo crollerà quando non riuscirà più ad espandersi, ma prima di allora potrebbero passare secoli.... 
Rifarsi a questa teoria significherebbe morire di vecchiaia nell'attesa, senza considerare che nel frattempo il capitalismo potrebbe individuare una formula di autoconservazione.
Le analisi della Luxemburg divengono più interessanti man mano che la Rivoluzione polacca si allontana dalle teorie degli economisti marxisti a lei contemporanei; nel famoso "Akkumulation" introduce alcune considerazioni degne della massima attenzione:
«(...) Il capitalismo persino nel suo periodo di piena maturità dipende dall'esistenza di strati e società non capitaliste (...)». Si evidenzia in questa affermazione una ineludibile verità che, paradossalmente, mette a nudo il punto debole del sistema economico capitalista. In queste righe vi è la risposta alle innumerevoli domande alle quali la nostra area non ha saputo rispondere, vuoi per ignoranza, vuoi per malafede.
Dalla affermazione sopra riportata deduciamo che: il capitalismo nel suo divenire lascia intatti quei contrafforti economici dei quali si serve, e che non controlla completamente per diverse ragioni, non ultima il costo che ne deriverebbe!
La conferma la troviamo in una seconda affermazione della Luxemburg: «(...) il capitalismo vive su formazioni non capitalistiche, o più precisamente sulla rovina di queste formazioni (...)».
Le due affermazioni scardinano alla base il concetto catastrofico destrista per il quale il capitalismo rappresenta un mostro invincibile. Al contrario le affermazioni della Luxemburg evidenziano un dato oggettivo; ossia, che il capitalismo, per quanto possa apparire invincibile ai nostri occhi, mostra comunque dei punti deboli. La sua stessa esistenza ed espansione è proporzionale alla somma dei contrafforti economici -non capitalistici- dei quali si nutre!
Basterebbe spezzare il rapporto di simbiosi che intercorre fra economia capitalista ed economia non capitalista, per bloccare il capitalismo e quindi distruggerlo.
In questo senso non possiamo non cogliere in questo punto uno degli strumenti operativi che il nostro anticapitalismo deve servire: la disintegrazione dei rapporti economici che legano grande capitale ed economia sussidiaria (artigianato, agricoltura, turismo, piccola impresa). In pratica accelerare una sorta di "lotta di classe" fra grande capitale imperialista ed economia sussidiaria antagonista, legandola al "salariato" in una sorta di gemellaggio teso ad ampliare la base degli sfruttati.
Questa ci pare una strada percorribile se si vuole realmente recidere le cinghie di trasmissione della logica capitalista. In questo contesto lo sciopero di per se stesso non serve a nulla, se non è affiancato dal blocco produttivo dei segmenti economici sussidiari consci dei loro interessi antagonistici al grande capitale!
Incrociare le braccia non basta; è necessario che il piccolo imprenditore fermi le macchine! Può sembrare utopico, ma è l'unica strada percorribile. Solo quando il contadino, l'artigiano e il piccolo imprenditore avranno coscienza d'essere né più né meno che dei salariati oggettivi, sfruttati dal capitalismo quanto gli operai e gli impiegati, potremo realmente operare con qualche speranza.
Parimenti interessanti sono le affermazioni della Luxemburg in merito all'imperialismo che a distanza di oltre settant'anni conservano intatta la loro valenza, ed appaiono ben più lucide di certe elucubrazioni improvvisate da pseudo-marxisti e pseudo-fascisti contemporanei: «(...) l'imperialismo è l'espressione politica del processo di accumulazione del capitale; questa accumulazione provoca una violenta concorrenza per impadronirsi delle ultime parti del mondo non capitalistico, che non sono state ancora occupate (...)».
Questa citazione riportata in "Akkumulation" viene ripresa e sviluppata nell'"Antikritik", nel quale la Luxemburg elenca quei fenomeni tipici dell'imperialismo, fra i quali:
a) la concorrenza che si attua tra gli Stati capitalistici per avere la possibilità di investire il capitale in eccedenza;
b) il sistema internazionale di esportazione dei capitali;
c) il militarismo;
d) il ruolo predominante del sistema bancario e la cartellizzazione dell'industria.
Nel medesimo periodo Lenin affronta il «problema imperialista», ma l'analisi leninista apparsa sul famoso "Imperialismo fase suprema del capitalismo" denuncia palesemente i limiti derivanti dall'influsso degli studi su Hobson e Hilferding. Si delinea perciò uno studio più preciso e attento di quello stilato sulla Rivoluzione polacca, ma nello stesso tempo, e per certi versi, meno attuale.
Lenin definisce i cinque caratteri che costituiscono l'Imperialismo:
a) costituzione di monopoli;
b) formazione del capitale finanziario (fusione del capitale bancario con quello industriale);
c) esportazione del capitale, che diviene predominante;
d) creazione di associazioni monopolistiche che si spartiscono il mondo;
e) fine della spartizione del globo tra le grandi potenze capitalistiche.
Indubbiamente l'analisi leninista a distanza di oltre settant'anni si configura attuale e il suo studio metodico ripropone in modo chiaro le tematiche antimperialiste che, bene o male, anche una certa area di Destra, più o meno radicale, ha sempre cercato di affrontare con evidente insuccesso.
In ogni caso il divario che separa la concezione di Lenin da quella della Luxemburg è ben più che formale, e ciò diviene più evidente mano a mano che si affronta l'oggettivo riscontro attuale. Lenin enuncia la fase iniziale dell'Imperialismo, la sua nascita, e perfino la sua adolescenza, ma a differenza della Luxemburg non riesce a concepirne la fase adulta, della piena maturità.
Ad esempio la quinta enunciazione di Lenin preconizza il trionfo dell'Imperialismo conseguente alla spartizione del mondo fra grandi potenze. Un mondo per lo più ristretto al Vecchio Continente.
Alla luce della realtà odierna dobbiamo rilevare l'errore di valutazione di Lenin. Rosa Luxemburg al contrario non ignorò l'aspetto "geo-monopolistico" finalizzato alla spartizione del globo, ma in modo più adulto, cerca di oltrepassarlo configurandone persino le conseguenze.
Lenin concepisce erroneamente lo sviluppo imperialista come fenomeno prioritario dei «vecchi paesi capitalistici», e lo ribadisce ne "L'Imperialismo fase suprema del capitalismo": «La politica coloniale dei paesi capitalisti si è conclusa con la conquista dei territori non occupati del nostro Pianeta (...)».
Ecco l'errore di Lenin! Credere di poter consegnare l'imperialismo nell'ambito di una battaglia da giocarsi tra vecchi paesi capitalisti.
In sostanza, Lenin, pur tentando di affrontare il tema dell'imperialismo si limita ad osservare una fase adulta del capitalismo, o meglio come direbbe il Sombart «una fase matura».
La Luxemburg, invece, evidenzia la caratteristica basilare dell'imperialismo moderno: «La lotta per la spartizione dei paesi non capitalistici, o meglio per quei paesi, la cui economia non è capitalista. Queste considerazioni avveniristiche vennero pesantemente criticate da Bucharin nella sua opera "Imperialismus und Akkumulation". Bucharin muoveva colpa alla Luxemburg d'aver sintetizzato il conflitto imperialista riducendolo «alla lotta per le zone non capitalistiche».
Povero Bucharin! In quale altro modo si può riassumere l'imperialismo se non come la lotta fra una o più potenze per la spartizione dei paesi non capitalisti? Indubbiamente né Marx, né Engels, né Lenin, né tutti gli altri economisti della scuola tedesca (e per scuola tedesca non intendiamo "la scuola di Francoforte") erano riusciti ad evidenziare in modo chiaro e conciso l'essenza dell'imperialismo al pari della Luxemburg e, come vedremo innanzi, di Mussolini.
Ma il ragionamento della Luxemburg va ben oltre, introducendo nella sua analisi sull'imperialismo un concetto rivoluzionario: l'importanza del militarismo dal punto di vista economico. Scrive, infatti, su "Akkumulation": «Da un punto di vista puramente economico il militarismo è per il capitale un mezzo privilegiato per la realizzazione del plusvalore, in altri termini, è per esso un campo di accumulazione».
A distanza di solo un anno dall'uscita di questo studio della Luxemburg, Benito Mussolini scrive sulle pagine de "l'Utopia", nel novembre 1913, sull'esattezza dell'analisi luxemburghiana: «... il militarismo -scrive Rosa Luxemburg a pagina 43 del volume che abbiamo dinanzi citato- esercita nella storia del capitale una precisa funzione: egli accompagna tutte le fasi storiche della accumulazione del capitale ...».
Questa affermazione ribadita da Mussolini mette in luce una caratteristica basilare del concetto di militarismo, che né Marx né Lenin avevano analizzato appieno. Secondo la Luxemburg, infatti, l'esercito, il militarismo nel senso più esteso, non rappresenta solamente la difesa armata del capitalismo, ma si configura come un «nuovo mercato», una vera e propria fonte di profitti che divengono strumento efficace della politica capitalista, e quindi imperialista.
Anche in questo caso troviamo, come unico sostenitore delle tesi innovative della Luxemburg, Benito Mussolini che dalle pagine dell'"Avanti" del gennaio '14 evidenzia il dualismo militarismo/capitalismo, con un buon anticipo sui riformisti da salotto quali Treves e Bissolati.
«(...) Il militarismo -scrive il futuro Duce- è divenuto l'espressione tipica, fondamentale, necessaria della società borghese. Capitalismo e militarismo sono due modi dello stesso fenomeno: si condizionano a vicenda. L'uno non è pensabile senza l'altro. Non appena il capitalismo esce dalla sua fase primitiva di formazione, esprime dalle sue viscere il militarismo. Colpire questo è colpire il capitalismo (...)».
Ma il Rivoluzionario di Predappio non si limita a comprendere appieno, e con buon anticipo, le analisi della Luxemburg, ma le arricchisce con lungimiranza politica nell'evidenziare per primo la necessità del capitalismo di uscire dalla crisi economica grazie al suo accessorio militare: la guerra (*).
«(...) Si parla già di una nuova guerra (...) La spaventevole eventualità turba la coscienza dei popoli, ma rallegra gli industriali della guerra, coloro che convertono il sangue in denaro e in una speculazione di borsa i risultati delle battaglie. Dicono i bilanci che la ditta Krupp nel 1913 ha guadagnato 16 milioni in più che l'anno precedente (...) Il 1914 vedrà acuirsi ancor di più questo conflitto tra militarismo e socialismo (...)».
Quindi possiamo dire che la Luxemburg per un verso e Mussolini per l'altro avevano capito la dinamica dell'imperialismo moderno prima ancora che si manifestasse; questa è la realtà.
Gli Stati Uniti, che a ragione possiamo definire l'unica potenza imperialista, nel senso più esteso del termine, persegue la medesima politica evidenziata con tanta efficacia da Rosa Luxemburg. 
Una politica divisibile in sei fasi ben distinte:
a) incentivare le spese del riarmo per uscire dalla crisi economica;
b) scatenare guerre "settoriali" grazie alla occulta e sapiente regia della CIA;
c) esercitare pressioni sull'ONU per fermare il conflitto;
d) intervenire militarmente sotto la bandiera della Nazioni Unite, trasformando i conflitti in una sorta di propaganda attiva dell'arsenale militare statunitense;
e) al termine della guerra impossessarsi dell'economia del paese sconfitto;
f) vendere al mondo intero le nuove armi così efficacemente pubblicizzate anche con l'ausilio dei mass media compiacenti tipo CNN.
Morale: uscire dalla crisi rigenerando le forze produttive a scapito del Terzo Mondo.
Questa involuzione dell'imperialismo si snoda attraverso delle fasi ben precise che, probabilmente, la Luxemburg avrebbe potuto individuare facilmente se nel '19 non fosse stata uccisa. È quindi necessario ripartire anche dai postulati più consapevoli di un certo marxismo d'inizio secolo, applicandoli alla realtà odierna per ottenere un quadro, il più organico possibile, del capitalismo di fine secolo.
Non possiamo affidarci alla speranza dell'imminente "catastrofe capitalista", perché se accettiamo i presupposti della Luxemburg il capitalismo non morirà fin quando non avrà completato la sua espansione totale. Né possiamo pensare che il capitalismo non sia riuscito a realizzare il suo trionfo grazie alla "rivoluzione bolscevica", della quale è lontano anche il ricordo. Ma dobbiamo fare affidamento unicamente su una lotta fra grande capitale e tutte le forze economiche antagonista coalizzate nell'interesse della comunità nazionale. Questo ci permette l'aggancio con l'anello mancante della lotta anticapitalista, che il marxismo non ha mai preso in considerazione, vuoi per non deviare su posizioni riformiste, vuoi perché la strada della rivoluzione bolscevica appariva più semplice e veloce.
La nostra lotta deve svilupparsi su due fronti: su quello nazionale, coinvolgendo l'economia antagonista nella lotta al capitalismo finanziario, e su quello internazionale; incentivando la lotta al militarismo statunitense, che come abbiamo detto funge da puntello al capitalismo internazionale.
Altre soluzioni al momento non esistono. 
È bene mettere da parte ogni soggettivismo fannullone ed iniziare sul serio ad operare. 

 

Giovanni Mariani

 

(*) Per crisi economica non intendiamo una crisi nel senso "classico" bensì un'accumulazione inverosimile di capitale bisognosa di trovare al più presto nuove redditizie occasioni d'investimento che al tempo stesso fermassero la concorrenza.

Fonti:

"L'accumulazione" - Rosa Luxemburg
"L'Antikritik" - Rosa Luxemburg
"Il Capitale" vol 1° e 2° - Marx, Engels
"Imperialismo fase suprema del capitalismo" - Lenin
"Imperialismus und akkumulation" - Bucharin
"Storia del marxismo contemporaneo" vol. 12 - Hilferding, Bauer, Adler
"Utopia" - Benito Mussolini, Novembre '13
"Avanti" - Benito Mussolini, Gennaio '14


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