da "AURORA" n° 16 (Aprile 1994)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Enrico Landolfi, pubblicista, componente di consigli d'amministrazione e di strutture esecutive di Enti statali, organizzatore culturale. Collaboratore di vari periodici -tra i quali "Economia e Potere", "Lettera Repubblicana", "Ragionamenti", "TabulaRasa"- e di alcuni quotidiani tra cui "L'Avanti!" (che ha sospeso le pubblicazioni) e "L'Umanità", ha operato prima nella corrente di sinistra del PSDI, e, quindi, dopo l'unificazione socialista del '66, nel PSI come dirigente nazionale (membro del Comitato Centrale) e provinciale (esponente della Segreteria della federazione romana), incaricato per la cultura, la scuola e i diritti civili. Ha diretto per vari anni il settimanale socialista "Calabria Oggi". Dal 1981 ad oggi ha pubblicato con vari editori i seguenti volumi: "Scipio Sighele - un giobertiano fra democrazia nazionale e socialismo tricolore", "Gualtiero Castellini, l'azzurro in camicia rossa", "Franco Rodano e la rivoluzione in Occidente", "Rosso Imperiale, le sorprese espansionistiche in Antonio Labriola e altri saggi", "Gramsci e Gioberti nel discorso nazionalpopolare". È eminente l'uscita di "Vincitori e vinti, a mezzo secolo dalla guerra civile in Italia". È presente in vari volumi collettanei. La sua azione pubblicistica e politica si ispira ad un ideale di superamento creativo delle negative eredità della guerra civile e alla costruzione di una unità nuova, rifondativa, della Sinistra, che comprenda -in una chiave popolare-nazionale e in uno spirito di pari dignità- anche realtà culturali e aggregazioni espressive del mondo post-fascista che rifiutano le scelte reazionarie, moderate, conservatrici, filo-capitaliste dei gruppi dirigenti della destra.


 

Questioni del socialismo all'inizio

della seconda repubblica e del terzo millennio

Enrico Landolfi

 

Questo benedetto socialismo esiste ancora oppure ha tirato le cuoia? 
Con questo pezzo tentiamo una risposta ad un interrogativo che si fa sempre più pressante, specie dopo la sconfitta elettorale della Sinistra e del socialismo di varia sfumatura e indirizzo in essa. La presente analisi, però, prescinde dalla vicenda triste delle urne di primavera, destinata a formare oggetto, magari di un successivo articolo, troppe essendo, e di grande momento, le considerazioni da proporre al giudizio del Lettore per essere contenute in un solo contributo. Faremo, quindi, come se il 27/28 marzo gli italiani non si fossero recati a votare e non avessero dato alla destra la strabiliante maggioranza che sappiamo.
Dunque, ripetiamo, il socialismo italiano è morto o è vivo? Stando a quanto ce ne dicono alcuni mostri sacri (più o meno) già militanti sotto le sue insegne nonché marcianti alla testa delle sue schiere, sarebbe giunta l'ora di collocare su di esso un'austera pietra tombale.
Più esplicito di tutti il sen. Antonio Giolitti, attualmente navigante nelle acque del Partito Democratico della Sinistra dopo aver ricoperto, fra gli anni Settanta e Ottanta, prestigiosi incarichi di partito, di governo, "europei" come esponente del Partito Socialista Italiano. Il parlamentare (da sempre) piemontese ha detto, con il linguaggio lodevolmente immediato e diretto che gli è proprio -e perfino con una franchezza non avulsa da qualche brutalità intellettuale- che avendo ormai raggiunto e anzi ampiamente superato un secolo di travagliatissima vita di questo socialismo sono desiderabili solo le ceneri. Naturalmente riferiamo a memoria, ma il senso del discorso è certissimamente questo. Altrettanto naturaliter è che il Giolitti per socialismo intendeva non soltanto il partito ma anche, staremmo per dire soprattutto, l'idea, la dottrina, il movimento storico.
Suppergiù allo stesso modo, benché con espressioni più sfumate, ha esternato un altro senatore pidiessino, Vittorio Foa, personaggio dotato di un pedigree non meno prestigioso del collega di Palazzo Madama, pur se da lui notevolmente diverso quanto a cursus honorum. Egli infatti, fin dalla remota giovinezza, instancabile cospiratore e affezionato cliente di radice giellista del Tribunale Speciale, esaurita la fase breve della militanza nel Partito D'Azione, aderì al PSI da cui ricevette il viatico per un impegno pieno nella Confederazione Generale del Lavoro, nella segreteria della quale venne in evidenza anche per la sua raffinatissima e profonda cultura economica. Nel '64 fu tra i protagonisti della scissione che diede vita al Partito Socialista di Unità Proletaria, costituito in oppugnazione della politica di partecipazione alle responsabilità governative poste in essere da Pietro Nenni. Nel PSIUP capeggiò subito l'ala più estrema, fortemente polemica nei confronti dello stesso Partito Comunista Italiano e in special modo della componente amendoliana.
Quanto finora esposto attiene ai casi più clamorosi di dissociazione soggettiva e confessata, ma ci sarebbe materia per diffondersi su quelli di separazione oggettiva e dichiarata. Per esempio, sul caso del PDS, la cui linea ideologica, culturale, strategica, politica non ci convince né punto né poco. Anzitutto, ci lascia perplessi la genericità della sigla. La definizione "democratico di sinistra" è troppo larga, addirittura omnicomprensiva. Tutti coloro che, essendo di sinistra, teoricamente o nella concretezza dell'agire politico danno prova di fedeltà inconcussa e ineludibile ai contenuti e ai metodi della democrazia -chi scrive è fra questi- è un "democratico di sinistra". Ma per esserlo non ha alcun bisogno di una tessera dalla troppo imprecisa identità come quella del PDS oppure di sostenere questo partito col suffragio e la propaganda. Insomma, per dirla fuori dai denti, la Quercia sembra passata da una connotazione comunista ad altra non socialista. Opinione, questa, condivisa da coloro, e non sono pochi, che interpretano la cultura del partito di Achille Occhetto come una sorta di revival dell'azionismo intuito e vissuto in una dimensione di massa. E anche da chi preferisce parlare del PDS come di un «partito interclassista della classe operaia».
Comechessia, noi ci permettiamo di segnalare ai dirigenti di Botteghe Oscure -e, tanto per non impostare e risolvere tutto in chiave verticistica, anche ai militanti e ai quadri pidiessini- un notevole deficit se proprio non vogliamo parlare di vera e propria assenza, di socialismo nell'immagine e nei comportamenti del loro partito, specie da quando la scelta di qualificarlo come «sinistra di governo» ha proiettato la segreteria in una corsa a velocità supersonica verso la conquista del voto moderato, con i brillanti risultati da tutti ammirati subito dopo le votazioni. Soggiungeremo che di tale corsa l'ultima più conturbante e meno commendevole tappa è stato il viaggio di Occhetto a Londra, vero e proprio pellegrinaggio nella «Mecca del capitalismo», dove il leader del post-comunismo non si è peritato di dichiarare ad una platea di esponenti dell'alta finanza internazionale che «quello del PDS verso il capitalismo illuminato è un viaggio senza ritorno». Viaggio, ci sia consentito dire, che -ove effettivamente ponesse in atto questo sconsigliabilissimo divisamento- non solo farebbe in non numerosissima compagnia, ma che gli si rivelerebbe inutile perché i signori della City trattano con chi ha il potere e non con chi se lo è lasciato sfilare sotto il naso e, in ogni caso, dà minore affidamento di chi il mestiere del moderato lo ha sempre fatto e, costituzionalmente essendolo, non suscita timori di provvisorietà e di ripensamenti.
Ci rendiamo conto che tali considerazioni possono suscitare, fuori e dentro l'area della Sinistra, accuse di massimalismo, di estremismo, di comunismo. Andiamo allora a vedere cosa pensa degli atteggiamenti estero/capitalistici dell'on. Occhetto il quotidiano torinese "La Stampa", edito dalla FIAT. In un editoriale firmato da Sergio Romano, ex-ambasciatore a Mosca, storico e politico illustre, uomo di area laica molto vicino a La Malfa, si legge quanto segue:
«Non mi preoccupa e non mi sorprende che i comunisti -persone intelligenti- abbiano cambiato pelle e idee. Mi preoccupa l'arroganza con cui censurano qualsiasi allusione al loro passato o fanno quadrato intorno ai compagni che ne sono espressione. E non piace che i loro leaders vadano a Washington o a Londra per tranquillizzare l'imperatore americano e la finanza internazionale.»
Molto bene. Sarebbe però ulteriore atto di giustizia impartire uguale, al contempo diversa, lezione ai vari comparti della ormai variegata area socialista. Non ci sta bene, ad esempio, che l'on. Margherita Boniver e l'on. Franco Piro, rispettivamente presidente e segretario della craxiana Federazione dei Socialisti Democratici e Liberali, abbiano fatto e continuino a fare un tifo indiavolato per Forza Italia, portatrice di un liberismo economico selvaggio di segno reaganiano-tatcheriano unitamente alla destra missina, da tempo, guadagnata alle tesi liberal-conservatrici.
Questo perché così comportandosi distruggono ogni coerente collegamento con i fondamentali postulati del socialismo e finiscono per assolvere al ruolo mortificante di «garofano rosa all'occhiello del Cavaliere».
Naturalmente tale necessaria reprimenda non ci vieta di lealmente dichiarare il nostro apprezzamento per una iniziativa della Giovine Italia (organizzazione giovanile legata alla federazione e presieduta da Luca Josi, già segretario degli juniores del PSI) diretta contro le privatizzazioni e la dominante cultura che le ha espresse, contestatrice di ogni ruolo economico e quindi sociale dello Stato; iniziativa intuita, programmata, realizzata nell'ambito di un forte recupero dei valori nazionali in una chiave pronunciatamente popolare.
All'ala socialista che si riconosce nelle scelte e nelle piattaforme di Ottaviano Del Turco può e si deve rimproverare una versione dell'antifascismo di tipo azionista che, isolando gli elementi del MSI più aperti e disponibili al dialogo con le formazioni del movimento operaio sia di derivazione storica che di recente costituzione, ha finito per fare il gioco della destra di Fini dilatandone oltre ogni dire le proporzioni elettorali e le strutture organizzative nonché marcandone i contenuti reazionari. Di più, ha costruito un rapporto col il PDS -di per sé positivo- senza nulla però obiettare non soltanto al già accennato filo-plutocratismo ma anche a vari comportamenti settari del partito della Quercia. A chi poi si è Adornato con il rosso (??!!) Quadrifoglio di Alleanza Democratica il minimo che si può dire è che ha optato per una soluzione sicuramente pulita ma estremamente moderata, che con il socialismo c'entra come i cavoli a merenda. E non può non destare meraviglia il fatto che una preferenza del genere sia stata esternata da Giorgio Ruffolo, già leader della corrente di sinistra del PSI e rappresentante della medesima in vari governi, oltre che da Giorgio Benvenuto, guida storica della UIL ed eccezionale protagonista dell'ormai remotissimo "autunno caldo" del '69.
Diciamo subito che non abbiamo la benché minima intenzione di cooperare con chicchessia nel frettoloso allestimento di funerali, neppure di prima classe, per il socialismo, italiano e non italiano. Per noi l'idea socialista intesa nel senso più rivoluzionario e più ampio; collocata cioè in orizzonti che di gran lunga superano quelli di una o più strutture partitiche per manifestarsi nelle massime traiettorie e nei più vasti spazi del mondo è più valida che mai. Niente e nessuno l'ha ancora superata. Casomai, è stata vittima di tradimenti, di conformismi, di imborghesimenti, di mediocrità, di insufficienze culturali, di scadente spessore etico.
Il problema, dunque, è di ricostruirlo non solo sul piano del reclutamento culturale e militante, ma pure su quello delle dottrine, della riflessione teorica, delle elaborazioni progettuali, dei referenti ideali e sociali. Tenendo comunque presente che tutti coloro che ne hanno tentato il rinnovamento e il rilancio sul terreno del socialmoderatismo e del più gretto, del più avaro tra i riformismi possibili -o, addirittura, hanno preteso di omologarlo alla ideologia borghese attraverso le soluzioni liberaldemocratiche- in realtà lo hanno portato alla sconfitta, al disastro, quasi sull'orlo del suicidio. In altri termini occorre avere la profonda consapevolezza che il socialismo o è, al tempo stesso, democratico e rivoluzionario, libertario e rispettoso dell'idea di Stato, nazionale e solidaristicamente agganciato alle lotte di emancipazione e di liberazione dei lavoratori di tutto il mondo, popolare e formatore di èlites, impegnato a lottare nelle istituzioni e nella società civile, o non è.
A questo punto s'impone una enunciazione di grande importanza. E cioè: la condizione ineludibile per la Rifondazione Socialista è l'avvio tempestivo e concreto di un processo diretto al superamento di tutte le scissioni verificatesi nel nostro Paese dal 1892 al 1994. E diciamo tutte, nessuna esclusa. A cominciare da quella degli anarchici, ora che i nostri simpaticissimi agitatori col vessillo rosso-nero e il cravattone alla Lavalliere hanno smesso -e, ormai da un bel pezzo- di azionare bombe, revolvers e pugnali contro questa o quella testa coronata, questo o quel rappresentante dello Stato borghese per dedicarsi all'apostolato della non-violenza. Ivi comprese, quindi, quelle "nazionali" del '12 e del '14. Questo, è ovvio, non significa affatto astrattamente ipotizzare uno spazio socialista grande nel quale «tutti i gatti sono bigi».
Ci mancherebbe altro! Gli è che l'eventuale appello unitario cadrebbe in un mondo intellettuale e politico ove albergano culture, tradizioni, storie che affondano, tutte, nell'humus socialista tanto variegato e diversificato, ma gratificato dal comune referente del movimento operaio che conosciamo, dove però i rispettivi autori, protagonisti e comprimari da sempre si sono dissimilmente, duramente, anche sanguinosamente confrontati, scontrati.
Men che meno vuol dire ignorare l'esistenza di un antifascismo che informa di sé, da mezzo secolo, la vita politica e istituzionale dello Stato democratico, il senso comune e la cultura egemone del Paese. Ma è ormai gran tempo di cogliere in esso le «verità interne» -democrazia, libertà individuali e collettive, diritti civili, diritti umani, diritti sociali etc.- piuttosto che quell'arido, sacramentale, infencondo, stanco «formalismo vetero-antifascista» da noi anni or sono sottoposto a critica in un saggio pubblicato dal quotidiano "Avanti!", allora nelle mani di quel meraviglioso, unico, irripetibile direttore libertario che risponde al nome di Antonio Ghirelli, che ci valse l'ostilità di qualche influente imbecille con tessera PSI e di qualche autorevole comunista da tavolino del quotidiano "Il Manifesto".
Peraltro, ormai da lunga pezza detto modo di concepire e vivere l'antifascismo si è fatto -o è stato fatto?- occhiuto strumento di una truffa borghese volta a spaccare le forze democratiche e popolari, a obliterare le contraddizioni reali, ossia di classe, con quella, solo apparente, che opporrebbe un fantomatico fascismo ad una sorta di revival reducistico dell'antifascismo. Operazione, questa, nella quale è da sempre specializzato un filone di destra della cultura dell'azionismo che ama definirsi liberaldemocratico. Esso vanta inespugnabili e ascoltate, pervasive roccheforti intellettuali nelle medie e piccole formazioni della democrazia laica, ma, per così esprimerci, non conosce frontiere. Nel senso, intendiamo, che è riuscito a costituire densi e fortemente operativi insediamenti anche nelle compagini storiche del movimento operaio.
Su questi ed altri temi relativi alla riunificazione rifondatrice, non filo-capitalista, non moderata, non conservatrice della Sinistra in genere e del mondo socialista in particolare non mancherà certo occasione di nuovamente intrattenerci.

 

Enrico Landolfi

 

 

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