da "AURORA" n° 17 (Maggio 1994)

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Licenziare subito:

la parola d'ordine del nuovo governo

 

Giovanni Mariani

 

I licenziamenti sono di moda! E questo è un dato oggettivo incontrovertibile, che nulla ha a che vedere con lo spauracchio antiberlusconiano faziosamente agitato da certa sinistra progressista per salvaguardare il proprio cadreghino. 
È una realtà di fatto che si può cogliere in modo esplicito dai tanti colloqui intercorsi fra il neo-Presidente del consiglio Silvio Berlusconi e le associazioni imprenditoriali.
Questa volta si fa sul serio, il mondo imprenditoriale è deciso ad imporre le sue leggi utilizzando la reggenza del Polo delle Libertà.
Ai milioni d'italiani che credevano di aver finalmente superato la fase più acuta della crisi, grazie allo slogan miracolistico di Forza Italia che prometteva un milione di nuovi posti di lavoro, vengono ora servite le dure parole di Vito Gnutti, deputato leghista, il quale, senza troppi giri di parole sostiene che: «Gli italiani dovranno imparare a rinunciare all'idea di nascere e morire nello stesso posto di lavoro. Questa società è da cambiare -afferma il deputato leghista-, bisogna dare maggiore flessibilità nel mondo del lavoro; il licenziamento non deve più rappresentare un tabù». Ma le parole di Gnutti appaiono, tutto sommato, modeste se confrontate con i suggerimenti delle associazioni di categoria al governo, che puntano a scardinare lo "Statuto dei lavoratori". Alessandro Cociro, presidente della Confapi (associazione delle piccole e medie imprese) non esita a dichiarare: «Diamo agli imprenditori la libertà assoluta di licenziare fino al 3% del personale e ne migliorerà la produttività aziendale».
Suggerimenti in piena sintonia con le tendenze restauratrici vengono dalla Confartigianato, il cui presidente Ivano Spallanzani promette a Berlusconi 300.000 nuovi posti di lavoro in due anni a patto che le imprese fino a 5 dipendenti abbiano mano libera nei licenziamenti. 
E le proposte di Spallanzani vanno oltre ogni limite sopportabile, per chiunque possieda un minimo di coscienza sociale, quando propone di poter licenziare, nelle aziende con pochi dipendenti, quei lavoratori che non godono della piena fiducia del padrone. 
Non è difficile immaginare che simili proposte siano finalizzate ad allontanare, dalle piccole imprese, quei dipendenti impegnati a difendere le conquiste sociali e sindacali.
Quindi è evidente che la voglia di licenziare non può che essere condivisa da tutti coloro che intravedono, nel nuovo governo, la possibilità di restaurare il "vecchio ordine", che aspirano a ricreare quelle situazioni da privilegio che le lotte del lontano autunno caldo del 1969 avevano sgretolato.
La situazione è drammatica, lo Stato sociale è nel mirino dei gruppi di pressione neo-liberisti che intendono smantellare ad ogni costo l'insieme delle garanzie sociali; eliminare le garanzie sindacali all'interno delle aziende sarebbe, in questo senso, un primo, necessario passaggio. 
Gli stessi sindacati perdono consistenza giorno dopo giorno, cedendo il passo ad aggregazioni pseudo-sindacali funzionali ad un corporativismo nel quale il garante delle mediazioni sociali non è più lo Stato, ma il Mercato.
Le premesse di questa involuzione reazionarie si erano già intraviste quando, senza nessuna protesta sindacale (e con la complicità fattiva di Occhetto), sono state decise le privatizzazioni, e lo stato ha rinunciato alla sua presenza in settori strategici dell'economia. Quindi si è passati ai licenziamenti di massa del triennio '91-'92-'93 che sono costati mezzo milione di cassaintegrati, 150.000 lavoratori in mobilità, senza contare che nello stesso periodo i dati ISTAT segnalavano 900.000 ulteriori disoccupati.
Ma la reazione neo-liberista aveva già le spalle coperte grazie a tre alleati senza i quali non avrebbe potuto conseguire, in modo indolore, i nefasti risultati attuali:
1) l'inesistenza della Consob, che ha facilitato le peggiori speculazioni borsistiche ai danni dell'economia italiana.
2) l'Antitrust che esiste solo di nome, e normalmente penalizza solo quei monopoli scomodi alla grande finanza internazionale.
3) La sinistra liberista, che non ha mosso un dito per impedire che gli abominevoli progetti dei grandi finanzieri andassero in porto, ma che, al contrario, ha indirizzato le manifestazioni di massa su tutta una serie di falsi problemi; l'antifascismo, ecc.
E per completare il panorama il fallimento, nel solo '93, di 105.000 aziende e un bel 25% delle famiglie italiane che, nonostante l'ottimismo del Cavaliere, guadagnano meno di venti milioni l'anno, il che, specie nelle grandi città significa vivere alle soglie della povertà.
Da questo quadro si deduce che la voglia degli imprenditori di riavere mano libera all'interno delle aziende con licenziamenti e quant'altro sia utile all'aumento dei profitti, configurava un epifenomeno di un progetto dalle dimensioni ben più ampie, che noi di Sinistra Nazionale avevamo ben individuato da Maastricht in poi. È chiaro, quindi, che ancora una volta si voglia far pagare il costo dell'ennesima ristrutturazione economica, di questo capitalismo da "padroni delle ferriere" alle masse dei lavoratori dipendenti.
Come opporsi ad un simile progetto? Innanzi tutto concentrare tutte le nostre energie nella battaglia sociale; il che significa soprattutto impegnarsi nella lotta ai tentacoli periferici della piovra liberista. Per fare questo è necessario scendere nel concreto, anche nei posti di lavoro, interpretando le istanze sociali che non hanno, o quasi, più riferimenti politici reali, coinvolgendo i tanti delusi dalla sinistra riformista in forme di lotta organizzate. 
Perché è bene chiarire agli eterni dubbiosi, che ancora oggi si sentono a disagio nella collocazione a sinistra, che combattere sul posto di lavoro l'arroganza liberista significa difendere, oltreché la giustizia sociale, anche l'indipendenza nazionale.
Lo sforzo del nostro movimento deve andare in questa direzione; le trincee non sono sul Monte Grappa, ma nelle fabbriche, negli uffici, nelle campagne.
I tempi cambiano, ma l'obiettivo resta quello di sempre: spazzare via la feccia liberalcapitalista.

 

Giovanni Mariani

 

 

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