da "AURORA" n° 17 (Maggio 1994)

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Liberismo e riforma istituzionale

Opposizione intransigente in difesa dello Stato sociale e della Costituzione

 

Renato Pallavidini

 

Il grande e antico polverone, sorto attorno alla spartizione dei ministeri e dei sottosegretari, rischia di nascondere problemi, programmi strategici e pericolosità della nuova coalizione che si appresta a governare il Paese nel nome dell'efficienza manageriale e del profitto capitalista.
Innanzitutto, gli eventi di queste ultime settimane hanno riconfermato la frattura, che si era creata in piena campagna elettorale, fra lo schieramento berlusconiano e i grandi gruppi imprenditoriali italiani, che guidano la Confindustria in stretta simbiosi con complessi equilibri finanziari internazionali. È vero che, di fronte all'ennesimo trionfo del trasformismo italiano, i vari Romiti, Agnelli e De Benedetti non hanno avuto altra scelta che schierarsi in blocco attorno al nuovo potere politico, inaugurando una nuova fase della tradizione consociativa che caratterizza la storia del nostro Paese dall'epoca di Agostino De Pretis. 
Tuttavia, nel momento in cui la Confindustria ed Agnelli si sono decisi ad appoggiare esplicitamente Berlusconi, sottolineando -purtroppo giustamente!- il dato culturale e politico nuovo emerso intorno all'imprenditore milanese, rappresentato dalla vittoria esplicita dei valori dell'impresa capitalistica, hanno anche posto dei precisi paletti sulle scelte di politica economica del futuro governo.
Su questo punto il più esplicito è stato proprio l'avvocato Agnelli. In un discorso tenuto all'assemblea della Confindustria, ha avvertito i vari Pagliarini, Gnuti ecc. che il liberismo esasperato può determinare nella società italiana, traumi e ulteriori motivi di crisi recessiva. 
Di conseguenza una svolta liberista non potrebbe seguire gli schemi del Cile di Pinochet, tanto cari a Pagliarini, se non a prezzo di uno scontro sociale troppo duro e pericoloso e di un eccessivo impoverimento del mercato interno conseguente alla caduta drastica dei redditi popolari. Da qui la sollecitazione a mantenere inalterato un quadro di garanzie sociali, che collocherebbe le politiche economiche del nuovo governo in continuità con quelle dei governi Amato e Ciampi.
Difficile dirlo, in questa fase, se la probabile accelerazione del liberismo economico, a cui la Destra berlusconiana non può sottrarsi, si manterrà in un quadro di continuità e di gradualità, oppure se prevarrà la logica cilena dei Pagliarini, Gnuti, ecc...
I pericoli più immediati sono per le pensioni e la sanità; ed è su questi terreni che si stanno accendendo le prime polemiche, come dimostrano le recenti dichiarazioni di Pagliarini, riportate dai giornali di domenica 8 maggio, in cui si fa esplicito riferimento alla privatizzazione integrale operata proprio da Pinochet.
Ancora più insidiosi sono i rischi di una involuzione autoritaria che potrebbe sorgere di fronte al problema delle riforme istituzionali. Per il momento, dopo le roventi dichiarazione di Miglio nei giorni immediatamente successivi al voto, le questioni rimangono in ombra, ma possono esplodere come una bomba ad orologeria da un giorno all'altro.
Il problema più insidioso, su questo piano, non è più il federalismo. Mi sembra molto chiara la perdita di forza contrattuale della Lega, la cui base sociale medio-borghese è stata risucchiata da Forza Italia. La questione vera e più insidiosa sta nella proposta di introdurre un regime semipresidenziale, con un Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo e non revocabile dal Parlamento. Si tratta di uno stravolgimento della Costituzione, che non solo creerebbe un regime bonapartista -calcolando anche il totale controllo dei medi televisivi esercitato dalle forze di governo-, ma che si configurerebbe come un vero e proprio colpo di Stato legalitario.
Infatti, l'articolo 138 della Costituzione -tanto citato da Miglio proprio per procedere a questo stravolgimento delle istituzioni repubblicane- consente solo e unicamente una modifica del dettato costituzionale che non ne violi i principi portanti. Fra questi, oltreché il carattere unitario dello Stato e i diritti sociali, vi è anche l'assetto parlamentare delle istituzioni. Un regime caratterizzato da un potere esecutivo svincolato da ogni serio controllo parlamentare ne sarebbe l'esatto opposto. Nella costituzione non ci sono dunque aperture per una svolta di questo tipo. Né l'attuale Parlamento ha avuto un mandato costituente dall'elettorato. Per cui se si innescheranno le procedure di modifica costituzionale previste dall'articolo 138, sarebbe un vero colpo di Stato compiuto attraverso l'uso della televisione al posto dei carri armati di Pinochet.
Vi è da notare che non è la prima volta che, in Italia, si tenta una svolta di tipo presidenziale, o in qualche modo tesa a creare un forte potere esecutivo personale, sul modello francese. 
Questo tentativo era già stato fatto alla fine degli anni '50, ed era culminato nel governo Tambroni, che -guarda caso!- si reggeva sui voti parlamentari della destra missina e monarchica. In quel periodo, di fronte alla crisi del centrismo e alla prospettiva del passaggio al centrosinistra, le Destre conservatrici, da quelle clericali a quelle imprenditoriali, si orientarono verso il modello della Francia di De Gaulle. In questa direzione poterono contare sull'allora Presidente della Repubblica G. Gronchi. La situazione degenerò rapidamente con Tambroni nell'estate del '60, e si giunse allo scontro di piazza, con manifestazioni, morti e violenze. Questa mobilitazione popolare, che trovò il suo punto di riferimento politico in un ampio schieramento di forze che andava dal PCI al PRI, fu decisiva per indurre Gronchi a recedere dai suoi progetti presidenzialisti e Tambroni alle dimissioni. 
Si deve anche aggiungere che le violenze di piazza di quella estate rovente non si verificarono, come va cianciando Feltri in modo provocatorio e ignorante, per un tentativo di insurrezione delle Sinistre. 
Se le Sinistre avessero solo pensato all'insurrezione e alla lotta armata offensiva, avrebbero tentato questa carta nel '47-'48, soprattutto nei giorni dell'attentato a Togliatti, quando mezza Italia insorse spontaneamente contro lo strapotere padronale che si era ricostruito attorno alla DC.
In realtà l'ipotesi dell'insurrezione offensiva l'aveva scartata persino Secchia, già nel '47, quando in un colloquio politico, Stalin in persona gli disse che, di fronte ad una simile eventualità, l'Unione Sovietica non avrebbe potuto far niente, come niente stava facendo di fronte alla guerra civile in Grecia! Se morte e violenze vi furono, lo si dovette solo e unicamente all'intervento brutale della polizia, che si macchiò di sei omicidi premeditati a Reggio Emilia! Le violenze che seguirono furono solo legittima difesa di giovani e operai in lotta per difendere i propri spazi di espressione e i propri diritti.
Evocare questi eventi della nostra storia più recente non è solo accademia, ma un segnale politico a tutti. L'attuale situazione ha toni più attutiti, angoli molto smussati, e soprattutto molta ipocrisia. I media televisivi sanno plasmare le opinioni e i sentimenti. La sinistra non esiste quasi più e si presenta largamente omologata a logiche, valori e istituzioni del Sistema.
Ma forse questo scenario è ancora più pericoloso, perché l'entità della svolta in atto e i suoi costi rischiano di non essere percepiti dall'opinione pubblica. Il rischio finale è quello di non avere una sufficiente capacità e tempestività di mobilitazione contro un simile colpo di Stato. Per la sinistra rivoluzionaria, quale noi vogliamo essere, il problema è soprattutto di carattere strumentale. Difendere la Costituzione e la Repubblica parlamentare diviene un terreno prioritario di lotta, non perché si creda nella democrazia borghese, in sintonia con la sinistra riformista, ma per difendere gli spazi di espressione ed impedire un'ulteriore blindatura del potere capitalistico e delle sue politiche liberiste. Lenin insegnava che le forze rivoluzionarie, prima della conquista del potere, devono sollecitare il massimo di decentramento e di anarchia all'interno del sistema politico borghese. Si tratta di un'elementare difesa dei propri spazi di azione legale, di propaganda, di proselitismo politico, di mobilitazione, che non può essere ignorata.
Del resto, se si legge attentamente l'articolo sulla "neutralità attiva", fu questo stesso principio ad orientare Mussolini, e gran parte del socialismo europeo del periodo, verso una scelta interventista filo-francese. Uno dei punti qualificanti dell'analisi politica mussoliniana, da cui scaturì il superamento del neutralismo assoluto, fu proprio il pericolo di involuzione autoritaria e militarista che si voleva vedere nella Germania e nell'Austria-Ungheria, ripetutamente definite come il baluardo della «reazione e del militarismo europeo».
Difficile dire, a distanza di 80 anni dagli eventi del '14, se fosse più esatta la valutazione di Mussolini, che poneva una netta discriminante politica fra i due schieramenti imperialistici in lotta, o quella di Lenin che invece li omologava a partire dal dato economico-sociale. Quello che resta è l'insegnamento di metodo, che scaturisce dal cuore del più cosciente ed avanzato socialismo rivoluzionario del secolo: di norma, quando si è forza di opposizione, occorre lavorare per indebolire il potere politico dominante ed allargare i propri spazi di espressione legale.
Su questo piano, non vedere il pericolo di questo progetto di svolta istituzionale, e la necessità di muoversi sul terreno della difesa della Costituzione che oltretutto ha aspetti socialmente avanzati che mal nascondono l'influenza del corporativismo di sinistra degli anni '30 e '40 sono follia e infantilismo di sinistra.
C'è un'ultima questione da porre in luce. Si chiama Domenico Mennitti! Se la nostra volontà, la dinamica oggettiva della storia o qualche atto di grazia divina, o tutti questi elementi concatenati ci conducessero al potere, ricordiamoci di questo spregevole opportunista. Ricordiamoci il vicesegretario di quel Pino Rauti che ad ogni pie' sospinto affermava «Valeva la pena di assaltare il Palazzo d'Inverno per poi arrendersi alla pepsi cola (perché è la pepsi cola, camerati carissimi, che ha l'esclusiva per l'Unione Sovietica). Valeva la pena di fare una rivoluzione, che è costata milioni di morti, per poi permettere a Mac Donalds di conquistare la Piazza Rossa. Loro si sono arresi! Vogliamo arrenderci anche noi?» 
Il Gramsci Nero non si è solo arreso, con il suo degno sodale, ma ha fatto molto di più: è diventato complice di quello che per decenni ha additato come «il nemico», il male assoluto.
Al peggio non c'è mai limite! Che schifo!

 

Renato Pallavidini

 

 

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