da "AURORA" n° 17 (Maggio 1994)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Alcune riflessioni su un saggio di Massimo D'Alema

Enrico Landolfi

Su "L'unità" nel corpo di un saggio breve firmato da Massimo D'Alema e dedicato, recita il titolo, al tema "Sinistra e centro. Ora ripartiamo dall'opposizione", si leggono parole di solidarietà e di apprezzamento per il leader della Quercia, ovviamente non in buona salute politica dopo le batoste marzoline. 
Dice: «Sotto la guida di Occhetto, una nuova forza politica, erede del PCI, è giunta alla sfida per il governo del paese, e oggi è al centro di uno schieramento che rappresenta il pilastro dell'opposizione democratica in Parlamento, e del governo di quasi tutte le maggiori città italiane». 
E ancora: «Io non mi sento impegnato in alcuno scontro di potere. Ho reagito e reagisco all'aggressione ingiusta contro il segretario del nostro partito. E questo chiacchericcio sul leader, svolto al di fuori di un confronto di idee e di una discussione politica, è solo un esercizio distruttivo che rischia di consumare un intero gruppo ed un partito che, certo, sono stati sconfitti, ma che ritengo possano essere ancora utili alla sinistra e alla democrazia italiana».
Dunque, D'Alema stima Occhetto. Noi, a nostra volta, stimiamo D'Alema, persona indubbiamente seria, leale, onesta, che non ci sta a fare il gioco di gazzettieri di varia tinta e variamente manipolati, impegnatissimi a presentarlo come un politicante gaglioffo che profitta delle difficoltà del partito e del segretario per piantargli il coltello nella schiena. Tuttavia, proprio non ce la sentiremmo di seguirlo sul piano della sua pur sobria e controllata apologia di "Baffodiferro", come Gianpaolo Pansa chiama su "L'Espresso" il Primo Inquilino di Botteghe Oscure. E non perché non ci sia, da parte nostra, consapevolezza piena del ruolo storico svolto da Achille Occhetto nella intuizione, ideazione, avvio, svolgimento e conclusione del processo trasformativo del fu PCI in Partito Democratico della Sinistra. E neppure perché noi se ne ignorino le qualità morali, intellettuali, politiche -che, sia detto con chiarezza, lo fanno degno di continuare in una attività adeguata al suo rango e al suo passato-, ma in quanto nell'ufficio di segretario ha commesso troppi consistenti errori per giustificare un rinnovo del mandato.
Del resto, proprio dai materiali analitici ed elaborativi con i quali l'ex-presidente dei deputati pidiessini ed ex-direttore de "L'Unità" propone i suoi ragionamenti emergono quelle carenze di progettualità ideologica e di direzione politica all'origine della mazzata subita dalla sinistra e della straordinaria avanzata della destra. Questa, per esempio: «A noi non sfugge che la sconfitta della cultura socialista (che ha pagato un prezzo assai alto al craxismo), la fragilità e il carattere minoritari di altre esperienze sono, per lo stesso PDS, un elemento di debolezza e non di forza». Orbene, il tracollo della cultura socialista non è addebitabile al solo craxismo -ormai classica testa di turco, adoperata a dritta e a mancina per coprire magagne e insufficienze di questo o di quello- ma anche al post-comunismo.
Che bisogno c'era, per dirne una, di umiliare il PSI soffiandogli la vicepresidenza dell'Internazionale con la scusa che Craxi ne era il titolare? Che noi si sappia, nel partito socialista qualche altro dirigente di prestigio, non inquisito, esisteva, e, dunque, poteva ben esprimere in quel compito la spersonalizzata presenza dell'allora Garofano. E, inoltre, perché mai si è ritenuto essenziale, al Bottegone, profittare dei guai giudiziari di una parte della nomenklatura di Via del Corso per sferrare contro l'insieme del PSI un'offensiva di tale entità e intensità da azzerare, di fatto, anche una minima presenza socialista in Italia?
La pattuglia di Del Turco, infatti, piaccia o meno, è poco più di un pugno di volenterosi ausiliari della Quercia, cui debbono in realtà la loro elezione. Peggio, insomma, del '48, quando a sinistra imperava la formula del "fronte popolare". Del resto, emblematica è la vicenda di Ottaviano Del Turco, sbeffeggiato crudamente e crudelmente sulla prima pagina de "L'Unità" da Michele Serra con la sua penna intinta nel vetriolo, non appena si permise soltanto l'ipotesi di un gruppo parlamentare formalmente autonomo da quello del PDS. Insomma, il PSI da oggi altro non è che una "democrazia popolare" marca anni '40 e '50; il patetico cosiddetto leader veste i panni di un Rakosy formato tascabile, da scaricare non appena la sua collocazione al vertice del presunto partito socialista sia giudicata irrilevante in ordine a fini e strategie del gruppo dirigente dei PDS. 
Comunque, tanti auguri al buon Ottaviano -pittore della domenica, cultore di musica rock e tifoso della Lazio-, il quale, storto o morto, è riuscito ad assicurarsi un posticino a Montecitorio dopo il periodo di disoccupazione seguito alla fuoruscita dalla CGIL.
Questa essendo la situazione provocata dall'occhettismo in ciò che un tempo fu lo spazio del partito già di Nenni, di De Martino, di Lombardi, di Mancini etc. , che senso ha recriminare per «la sconfitta della cultura socialista»? Quasi che tale disfatta sia piovuta dal cielo e non risulti costruita, giorno dopo giorno, diremmo, dall'attivismo pidiessino sbandierato come anticraxismo ma sostanzialmente antisocialista, nel quale ebbe a distinguersi lo stesso D'Alema, a torto o a ragione ritenuto il capofila, l'ispiratore principe dei nemici del Garofano. Costoro, peraltro, ebbero il torto di non prendere in considerazione la possibilità che il blitz moralistico-ideologico contro il PSI, lungi dall'impinguare il patrimonio voti del Bottegone, avrebbe indotto l'elettorato socialista a dirottare i propri consensi in altra direzione, magari verso la destra o il centrodestra. Come, poi, è puntualmente avvenuto. 
D'altronde, perché mai i cittadini di sensi socialisti avrebbero dovuto premiare i candidati del PDS ossia di un partito già comunista che, nell'atto di modificarsi in formazione di sinistra diversa dal PCI, invece di targarsi in maniera tale da venire in evidenza quale portatrice di contenuti legati alla tradizione socialista -come tutti positivamente si attendevano- si atteggiava in guisa di dare la precisa sensazione di un revival dell'azionismo? Straordinario, stavolta, perché percepito, teorizzato, realizzato in chiave di massa. È qui un'altra delle cause della profligata dei quercini; ed anche su questa non si sofferma la riflessione di Massimo D'Alema, un uomo politico pur giustamente ritenuto di rilevante caratura intellettuale e ben degno di figurare nella non sterminata rosa degli eventuali, probabili successori di Occhetto alla più alta responsabilità dirigente.
Va da se che la formula azionista -la vera, vale a dire quella liberaldemocratica di stampo parriano e lamalfiano, non quella di vario segno dei Lussu, dei Lombardi, dei De Martino, dei Codignola, dei Vittorelli, etc. frutto delle confusioni e degli equivoci del dopoguerra- non poteva dare esito diverso. Infatti essa esprime una cultura squisitamente minoritaria, tipica delle gerarchie borghesi e intellettuali organiche al cosiddetto "capitalismo illuminato". Avere temerariamente preteso di innervarla su di un corpus partitico popolare, classista, di massa, con dentro il grosso della classe operaia, ha configurato un'operazione illuministica sicuramente contraddittoria e autosconfiggente. Il PCI non era il Partito d'Azione, non uno dei suoi derivati e succedanei quale il PRI lamalfizzato e Alleanza Democratica. E un grande partito caratterizzato da forti ed estesi insediamenti sociali non poteva passare con sorprendente sprezzatura da referenti come Marx, Engels, Lenin, Gramsci a piattaforme dottrinarie in qualche modo analoghe o finitime alle raffinate escogitazioni spadoliane o bobbiane relative alla «Italia di minoranza», all'«Italia civile»! Ottimi spunti, certo, per dibattiti nei più esclusivi salotti del radical chic, ma destinati a lasciare il tempo che trovano una volta estrapolati dagli ambienti delle aristocrazie economiche e del sapere della borghesia e immessi nella cultura politica degli strati più profondi del popolo.
Con ogni probabilità è da rintracciare in questo bagaglio di suggestioni neo-vetero azioniste la radice del grave errore commesso da Occhetto nell'ultima fase della campagna elettorale, allorché si è recato a Londra per rassicurare un consesso dell'alta finanza internazionale -in modo plateale e ideologico- circa i buoni sentimenti plutocratici del PDS. Le parole adoperate furono le seguenti: «per il Partito Democratico della Sinistra la via del capitalismo illuminato imboccata è senza ritorno.» Scusate se è poco!
Fin dall'avvio della "svolta" Massimo D'Alema è stato individuato, crediamo correttamente, come il dirigente post-comunista più persuaso della necessità di non gettare il bambino insieme all'acqua sporca, ossia di superare il comunismo senza mettere in discussione -apertamente o implicitamente, direttamente o indirettamente- le connotazioni marcatamente di sinistra di una grande forza collegata innanzi tutto e soprattutto a valori, ideali, idee, interessi del movimento operaio e popolare. Dal saggio di cui veniamo discorrendo questa posizione emerge non vulnerata, anzi ribadita. Vediamo.
«Dubito molto che per conquistare il mitico "centro" si debba cominciare dallo scioglimento della sinistra». E ancora: «Ma è difficile considerare come una colpa l'essere riusciti a non disperdere l'esperienza storica, culturale e umana del PCI, ed anzi averla posta a base di una nuova formazione politica che ha raccolto circa 8 milioni di voti. Ed è direi ridicolo pensare di liquidare il peso, nella sinistra, di una tradizione che ha le sue radici nel comunismo italiano (e che ha ragioni storiche profonde) con improvvisate campagne maccartiste e liste di proscrizione». Inoltre: «Così come non ho creduto alla possibilità che la sinistra potesse svanire entro Alleanza Democratica sotto la guida di Marco Segni, così non credo che oggi il PDS, stemperando la propria identità e ricambiando nome, magari sotto la guida di qualche professore, possa incorporare i cattolici e i laici democratici...».
Altrettanto chiare, nella forte sottolineatura, certe preoccupazioni in ordine a difetti, lacune e battute d'arresto del partito. Ecco: «... la ricerca va radicalmente spostata sui temi dell'analisi della società, delle scelte politiche e di programma, sulle alleanze da costruire, evitando il rischio di una drammatica, paralizzante rimessa in discussione della identità di sinistra». Ma ciò che D'Alema si limita a chiamare «rischio» -probabilmente per non premere l'acceleratore sull'aspetto critico del suo scritto, nella tema di dare l'impressione di una precostituita aggressività nei confronti del segretario sempre più in difficoltà- è qualcosa di già avvenuto. 
Per esempio, la falcidia dei consensi fra le giovani generazioni e nella classe operaia. Come a Sesto San Giovanni, la famosa "Stalingrado italiana" dove, però chi ha menato la danza è stata Forza Italia. E del resto, è attualmente possibile definire di sinistra un partito il cui leader fa a Londra il già riferito show? Intendiamoci, il capitalismo illuminato potrebbe anche venire in evidenza come una cosa seria, in qualche modo e misura accettabile, purché posto in essere dai capitalisti e non dai lavoratori.
Gli è che altri sono i compiti dei proletari, contadini, operai, impiegati e dei loro alleati, altra la loro funzione storica. E, naturalmente, dei partiti che hanno l'ambizione di esternarli e il privilegio di rappresentarli.
Anche più preoccupata l'analisi dalemiana di aspetti salienti di ciò che possiamo chiamare inceppamento della strategia complessiva della Quercia. Colui che la stampa definisce «il numero due di Botteghe Oscure» cita la già segnalata «sconfitta della cultura socialista» e «fragilità e carattere minoritario di altre esperienze» come indicatrici della «incompiutezza del progetto politico racchiuso nella svolta che ha dato vita al PDS. Che non era un disegno egemonico, ma di effettiva costruzione, a partire da un effettivo pluralismo di esperienze e culture, di una rinnovata identità della Sinistra italiana». Orbene, dalla "svolta" non sono trascorsi secoli, ma neppure soltanto una manciata di mesi come mai, allora, la sinistra italiana non ha ancora quella «rinnovata identità» destinata a renderla vincente? A chi addebitare la responsabilità di averla portata, questa sinistra -che poi, gira e rigira, è il PDS, anche se con annessi e connessi, vale a dire col suo sistema satellitare rivelatosi di ricotta-, ad una eccezionale battaglia frontale con la destra e centrodestra che sia, priva, addirittura, non solo di una nuova ma di qualsiasi identità?
D'Alema ritiene di poter caricare questa colpa storica sulle esili spalle dei macilenti partners della Quercia. Ma tale troppo facile soluzione non convince e si coglie il sospetto che, tutto sommato, non convinca neppure lui. Tanto vero che, in altro luogo dell'elaborato, nell'aderire alla tesi di certi intellettuali d'area che hanno «denunciato la rottura tra sinistra e imprenditoria minore e nuove professioni», dichiara: «La proposta progressista è stata percepita come del tutto coerente con il sistema di salvaguardia degli equilibri esistenti». Vero è che aggiunge: «È un giudizio pesante, ingiusto, ma deve far riflettere», però si tratta di un'aggiunta doverosamente dovuta. Ossia non sentita. Infatti se un giudizio è ingiusto, perché rifletterci sopra? Basta respingerlo, magari dimostrandone la infondatezza in quel "processo costituente" che D'Alema vuole "riaprire", e giustamente, anche se sbaglia verbo (giacché per indicare una costituente che mai ha visto la luce il verbo congruo è "aprire").
Sulla vessata quaestio dei presunti "fascisti" giunti al potere con Berlusconi, Massimo D'Alema non spende più di quattro righe e verso la conclusione. Non comprendiamo se ciò sia voluto o puramente casuale. Nel caso della intenzionalità solo un folle si permetterebbe di arguirne una tiepidezza dello scrittore in punto di antifascismo. Forse, o senza forse, egli potrebbe aver "conquistato" quella che dovremmo considerare una nozione nuova dell'antitotalitarismo di destra, consistente nel concentrare tutte le esigenze difensive, le tensioni ideali, i dati morali, i punti alti della vertenzialità sulle sue "verità interne" -locuzione questa, che cogliamo nei testi di Franco Rodano, un intellettuale comunista defunto dieci anni or sono-, ossia la democrazia, la libertà, la giustizia sociale, la partecipazione, l'autonomia, la salvaguardia della persona umana et similia.

Enrico Landolfi

 

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