da "AURORA" n° 19 (Luglio - Agosto 1994)

AMBIENTE E SOCIETÀ

da "Pagine Libere" (Giugno '94)

Per un futuro eco-logico

Alberto Ostidich

C'era una volta l'ecologia.
La quale poi finiva sempre per coniugarsi felicemente con lo sviluppo.
Giunti ai giorni nostri, il lieto fine cambia. Da una parte all'altra, più non si sente parlare che di libero mercato, di produttività, di iniziativa privata. Oppure di posti di lavoro, di Stato sociale, di crisi economica. Come se un nesso tra tematiche ambientali e socio-economiche non dovesse mai più manifestarsi; come se si fosse alfine stabilito che ambiente e sviluppo non sono omologabili, e nemmeno fra loro conciliabili.
Il che non pare.
Oltre le mode e le fiabe, crediamo anzi di sapere che quel vecchio binomio stia bene insieme. Che esso vada visto non quale superato luogo comune, ma vada inteso -e correttamente tradotto- in un'operosa sfida, per il futuro nostro e di tutti.
Del resto, nessuna persona assennata oggi sosterrebbe che i grandi temi, quali il fabbisogno alimentare, l'individuazione e l'uso di nuove fonti energetiche, lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti ecc. possano svolgersi senza il ricorso alla scienza e alla tecnica, ovvero abolendo il progresso ed i suoi derivati. E se non esiste ormai alcuna "nicchia", alcun piccolo "eden" dove trovar rifugio dagli altri, lontano dai problemi degli altri (anche perché, lo sappiamo, quei problemi sono, o presto diverranno i "nostri" problemi) -va altresì aggiunto che sino a quando tecnologia e ricerca scientifica saranno orientate alla massimizzazione del profitto per pochi, anziché verso la soluzione dei problemi per tanti e per tutti- sino ad allora, ogni imprecazione rivolta al progresso risulterà inutile ma, vivaddio!, lecita. E più che lecita dovrà anche essere ogni diffidenza, ogni presa di distanza dallo scientismo quand'esso abbia ad esprimersi ufficialmente (Guido Giorello sul "Corriere della Sera") così: «... sul nostro pianeta, ancora diviso da conflitti etnici, religiosi, economici, ma divenuto una unica patria grazie ai successi dell'impresa tecnico-scientifica. Guai allora ai Paesi che non saranno capaci d'inserirsi in modo adeguato nella grande rete che permetterà di sfruttare in modo ottimale le possibilità (...)»!!
Ciò detto e precisato, sembra proprio che alla base dell'odierno discorso ambientalista stia un grosso equivoco. L'opinione pubblica, infatti, è stata ed è indotta a identificare la politica ambientalista con la mera difesa di alcune (fra le molte) specie animali e vegetali compromesse dalla avanzata della civiltà moderna. Posta così, l'intera questione diviene riduttiva e porta ad ingenerare sospetti -come è effettivamente avvenuto- nei riguardi di qualsiasi forma d'impegno ecologico. Sospetti giustificati e condivisibili alla luce di azioni sinora intraprese dal cosiddetto "Arcipelago Verde", le quali sono state abitualmente improntate a massimalismi e a parzialità fuorvianti dagli obiettivi che si sarebbe dovuto e voluto colpire. In parole diverse, il discorso ambientale di cui si diceva trova la via ostacolata da vari fattori, non ultimo dei quali costituito dalla forma mentis di tanti, di troppi professanti la fede ecologista.
Allo scopo di proseguire il filo logico di un ragionamento alternativo ai dogmatismi e fanatismi sia ecologisti che scientisti, si dovrà innanzitutto far chiarezza su cosa abbia ad intendersi per difesa dell'habitat e per normale dialettica fra uomo ed ambiente. Definizione, la nostra, che per sommi capi e in rapida sintesi potrebbe tradursi nel distinguere l'ecologismo "funzionale" dall'ecologismo "di maniera". Il discrimine tra i due concetti sarà allora costituito dalla consapevolezza o meno della necessità di un rapporto uomo/habitat non già riconducibile (e riducibile) a più o meno occasionali interventi protettivi di una natura sempre meno "naturale", bensì espressivo di una volontà d'agire "secondo natura" contro gli squilibri, le deviazioni, le aritmìe imposte da un modello di sviluppo "innaturale".
In quest'ottica ben poco spazio rimane a quanti abbiano dell'ecologia una visione messianica ed escatologica - vale a dire, per coloro che ritengono indispensabile a fini salvifici della specie il ritorno al "buon Selvaggio". Tale visione non solo ci è culturalmente estranea, ma appartiene ad un contesto utopico-onirico senza connessione alcuna con la razionalità politica e con le prospettive del domani. E se queste prospettive esistono -come siamo in obbligo di credere- esse passano necessariamente attraverso l'impiego di idonei strumenti tecnologici.
Qualunque possa essere la nostra personale posizione in ordine alla Rivoluzione tecnologica in atto, deve risultar chiaro come ci si trovi dinanzi un processo irreversibile e come lo sviluppo tecnologico sia d'altronde necessario (ma non sufficiente!) ad esprimere il divenire. Dando dunque per "naturale" questo "processo", in quanto connaturato alla nostra era, il compito che si impone agli uomini d'oggi sarà quello di razionalizzare lo sviluppo in modo da non correre ulteriori (e ormai del tutto evidenti) rischi di "ritorsione" contro i suoi veri o presunti beneficiari. La sfida sta dunque in questi termini: essere o non essere capaci di prendere decisioni sensate circa l'uso e gli obiettivi del nostro agire. Tecnologia sta -appunto- a significare logos della tecnica, ragione del conoscere e dell'operare, scienza della prassi. La quale scienza è, e dovrebbe essere, finalizzata a consentire una più equa distribuzione delle risorse, una migliore organizzazione della società.
Certo -già lo si è detto- la sola chiave tecnologica non apre le porte alla soluzione dei tanti problemi extra-economici che affliggono la umanità. Ma qui il discorso porterebbe davvero troppo oltre. Avendo quindi ben presente i limiti della tecnologia e come essa non sia né possa essere un valore in sé, potrà venir superata la contrapposizione paralizzante tra sviluppo ed ambiente; tra danni provocati dall'inquinamento e quelli provocati dal non-inquinamento (che, paradossalmente, l'assenza di fonti inquinanti sia ad indicare la non-presenza dell'homo faber, ovvero la non-esistenza di alcuna attività produttiva). Evitare, insomma e in sostanza, isterismi ambientalistici e al contempo rifiutare la logica -che tale non è- dello sfruttamento indefinito ed incontrollato delle risorse. Volendo ora fare un concreto esempio di come quella "sfida" stia rapidamente mutando molte regole di vita, ci si può riferire alla "presenza sociale" dei robot e dei microprocessori: essi stanno sfaldando certezze consolidate e mettendo a repentaglio un'intera "cultura", con i suoi comportamenti, i suoi valori, le sue parole d'ordine. La classe operaia -sempre più minoritaria e sempre meno dotata di poteri forti- è senza dubbio quella che vive peggio il cambiamento; e sa, d'altra parte, di non potere, in un revival di luddismo, distruggere quei "nuovi telai"... La borghesia, dal canto suo, risente al momento in forme assai meno traumatiche dell'avvento di "Tecnopolis". Per il momento, la vecchia borghesia appare abbastanza tranquilla. Al più, turbata dal solito stress e da occasionali, ricorrenti frenesie consumistiche. Il personal computer, la borghesia, l'ha messo in salotto, lì accanto a stereo, videoregistratore, telefonino. E non c'è famiglia perbene in Italia che non abbia avvertito l'obbligo di dotarsi del p.c., anche per assicurare alla propria discendenza un sicuro ed informatizzato avvenire. Ma, chissà, in qualcuno di quei salotti comincia forse ad aleggiare una certa inquietudine: il "robot" in questi casi non "ruba il posto" (ma Fiat e Olivetti smentiscono...), ma sta rendendo superato ed obsoleto un ruolo sociale, un prestigio intellettuale, una prerogativa economica...
Chiusa la parentesi e riallineandoci al leit motiv di questo discorso, si tratterà allora di dare ai mezzi di capacità straordinarie, quali la moderna tecnologia è in grado di mettere a disposizione, direttrici vettoriali diverse. Direttrici funzionali all'uomo e per l'uomo; e per l'ambiente -beninteso- che è tutt'uno con quest'uomo. Se dunque il mezzo tecnologico non sarà più monopolio di alte strategie finanziarie, socialmente e "umanamente" irresponsabili, il futuro sviluppo sarà non solo compatibile con l'ecosistema, ma perseguirà la "missione" di liberare l'umanità dal bisogno. Anche se nulla, per la verità, fa presagire una simile svolta epocale; il mondialismo appare ben saldo a guardia dei suoi interessi, miopi e suicidi interessi.
Per quanto riguarda più specificamente la nostra Penisola, anche qui un sano pessimismo è d'obbligo. Ciò per almeno quattro ordini di motivi: perché manca una sensibilità ambientale diffusa; per i guasti già portati a compimento e per i quali non si può "tornare indietro"; per la persistente ignoranza che l'ambiente può costituire, anziché una remora allo sviluppo, un vero e proprio investimento a medio e lungo termine; last but not least; per le ultime elezioni, che hanno assegnato la vittoria ad una Destra le cui carenze culturali in fatto d'ambiente sembrano pari al deficit d'autonomia dal grande capitale. E speriamo, come abitatori del villaggio globale Italia, di venire solennemente smentiti nei fatti.

Alberto Ostidich

 

articolo precedente indice n° 19 articolo successivo