da "AURORA" n° 19 (Luglio - Agosto 1994)

ECONOMIA

 

Economia socializzata:

il bastone fra le ruote del Nuovo Ordine Mondiale

 

Giovanni Mariani

 

L'articolo 8 del programma del "Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale" delinea in modo chiaro la posizione, da noi assunta in tema di economia, laddove si parla, a chiare lettere «per un'economia socializzata».
Orbene, sarebbe utile spendere qualche parola in merito, perché forse non lo si è mai fatto seriamente in passato, e si rischia di non farlo neanche nel prossimo futuro.
Da dove iniziare?
Attualmente, non possediamo validi strumenti normativi che ci indichino la strada da percorrere, per quanto riguarda il complesso tema della socializzazione, se si esclude l'articolato legislativo del gennaio 1944. Un programma ambizioso, per quel tempo, ma che mostra oggi una sua incompletezza e inadeguatezza, pur restando un punto di riferimento importante per costruire una barriera alla disintegrazione delle conquiste dei lavoratori.
Oggi, che la Destra economica, pare travolgere ogni residua resistenza dei partiti e delle organizzazioni sindacali che erano argine a difesa delle categorie più deboli. In un momento in cui la "deregulation" dell'organizzazione economico-sociale della nazione è considerata essenziale per la definitiva affermazione del «mercato», dove licenziamenti e cassintegrazione vengono presentati «come conseguenze dolorose, ma necessarie per la ripresa economica», il rischio di assistere, in questo fine millennio, ad un ritorno di forme di «schiavismo sociale» non ci pare del tutto peregrina.
Già gran parte dell'attuale forza lavoro viene «noleggiata», dai centri di produzione, divenendo ostaggio (come del resto accadeva in passato, perché, di fatto, il lavoro è rimasto oggetto e non soggetto dell'economia) nelle mani delle forze imprenditoriali e finanziarie.
L'introduzione di tecnologie avanzate, nel mondo della produzione, avrebbe dovuto, a detta degli esegeti della modernità, liberare l'uomo dalla fatica che il lavoro comporta. Lo scenario che si presenta è totalmente diverso; le strutture tecnologiche oltre ad espellere dalla produzione grandi fasce di lavoratori, divengono oggi, anche mezzo di ricatto, verso questi ultimi, assumendo il ruolo di guardiani della ristrutturazione capitalista in atto.
È bene considerare tutti gli aspetti di questa nuova realtà sociale, che prelude alla nascita di un «nuovo ordine economico» finalizzato alla revisione delle leggi di mercato che, nel bene e nel male, erano costrette a fare i conti, da due secoli a questa parte, con le conquiste sociali della sinistra storica.
Il nuovo ordine, disegnato dai teorici della «nuova economia», quali l'austriaco Joseph Schumpeter, che sostengono la necessità «che il motore della crescita economica non sia più basato sul rapporto di concorrenza dei prezzi (quindi sul binomio forza lavoro/mezzi di produzione), bensì tra le nuove tecnologie (e quindi infrastrutture gestionali) e le vecchie tecnologie».
Queste affermazioni, che possiamo definire più propriamente «aforismi del nuovo ordine economico», non debbono stupirci. La tecnologia, la computerizzazione e i sistemi di management, rappresentano, da oltre un ventennio, la testa di ponte non solo del nuovo capitalismo, quanto, piuttosto, un fenomeno di assai più larga e duratura incidenza che, in modo semplicistico, potremmo definire come il preludio ad un'era non più dominata dall'economia classica, ma dalla tirannia tecnologica.
La logica del mercato basata sulla domanda e sull'offerta è logora a tal punto da essere di intralcio allo sviluppo del capitalismo ecumenico, quindi è destinata ad estinguersi.
Nel nuovo ordine economico la forza lavoro diviene mero accessorio, per altro non indispensabile, della rincorsa tecnologica che, di fatto, accelererà la netta separazione tra paesi ricchi (possessori delle tecnologie più avanzate) e paesi poveri, o meglio schiavi, destinati a provvedere ai fabbisogni primari di questi ultimi (alimentare, materie prime, manodopera) senza poter accedere ad alcuno dei vantaggi del modello capitalista.
Alla luce del quadro che abbiamo delineato, riprende consistenza la profezia «diciannovista» che prevedeva che la lotta di classe sarebbe stata superata dall'antagonismo tra nazioni plutocratiche e nazioni proletarie.
Va da se, che nel «nuovo ordine economico» non vi saranno più spazi per rivendicazioni salariali e normative di qualsiasi tipo. Le nuove strutture non potranno tollerare nessun ritardo di produzione, che differisca, anche marginalmente, dal ritmo di crescita imposto senza nessun controllo e regola. L'impiegato e l'operaio diverranno accessori inanimati (al servizio dello sviluppo tecnologico), sostituiti alla pari dei pezzi di ricambio.
A questo punto sono legittime due considerazioni: è possibile opporsi, è possibile dare vita ad un ampio fronte sociale in grado di imporre uno sviluppo più aderente alle esigenze umane? Esiste, in fieri, una forza organizzata in grado di coagulare quanti si oppongono al nuovo modello di produzione e alle sue implicazioni sociali?
Ci sarebbe da chiedersi, dov'è la Sinistra. Perché non si muove? Per ingenuità, per incapacità di analisi? O piuttosto, perché da tempo ha tradito i suoi incauti sostenitori?
A parole, la Sinistra, difende ancora gli interessi dei produttori, ma nei fatti pare non avere la capacità e volontà di opporsi al riassetto del modello produttivo capitalista. Anzi, al contrario, da la sensazione di parteggiare per la «finanza illuminata», dal «volto umano», che dal nostro punto di vista risulta, oggettivamente, la più pericolosa.
È quindi abbastanza evidente che la nostra concezione di «economia socializzata» risulti ben distante e contrapposta alla visione, limitata e contorta, della Sinistra istituzionale, riformista e promiscua, capeggiata dai social-opportunisti del PDS e dai velleitari di Rifondazione Comunista, sempre pronti a genuflettersi ai desiderata dello Stato Maggiore dell'Alta Finanza internazionale, nemica storica dei lavoratori.
La Sinistra delle chiacchiere, che funge da bacino di contenimento delle proteste sindacali e giovanili, al pari di quei socialdemocratici che nei primi anni Cinquanta spezzarono l'unità sindacale della Sinistra, ripagati a suon di dollari dall'ambasciata degli Stati Uniti, tramite la CIA.
Non è serio permettere, alzando solo un po' la voce, che la «miracolistica» ricetta Berlusconi divenga operativa in quelle parti che impongono i «contratti con finalità formative», meglio conosciuti come «salari d'ingresso», che, a parole, dovrebbero garantire trecentomila nuovi posti di lavoro ma che, nella realtà dei fatti, giustificano la riduzione legale dei salari, ponendosi ben oltre il diritto costituzionale della «pari retribuzione a parità di lavoro».
L'offensiva antisociale prosegue con buona lena, e non solo in Italia, visto e considerato che personaggi come Edward Yardeni (capo dell'ufficio della finanziaria C. J. Lawrence-Deutsche Bank Securities) intimano a tutti i paesi europei di ridurre il costo del lavoro per evitare la concorrenza montante del Terzo mondo.
L'allarme è già scattato da tempo, ma a quanto pare i riformisti della Sinistra istituzionale preferiscono far convergere la loro attenzione, e i loro sforzi, in direzione di un antifascismo logoro e antiquato, tale da far impallidire la campagna giornalistica condotta da Luigi Gallo, negli anni Trenta, sulle colonne di "Stato Operaio".
A conti fatti, siamo di fronte alla solita incapacità della Sinistra istituzionale di difendere gli interessi dei lavoratori, in questo supportati dalla inconcludenza di larghi segmenti delle organizzazioni sindacali, da sempre impantanate in un riformismo cialtronesco e parolaio che riporta alla mente il «socialismo da salotto», degli anni Venti, nel quale si dibattevano i vari Turati, Treves, Bissolati ecc.
In questo scenario per niente tranquillizzante occorre, innanzi tutto, operare uno sforzo per rielaborare i postulati, e le esperienze, della economia socializzata (senza porsi problemi nominalistici. Possiamo chiamarla Cogestione, Compartecipazione integrale ecc. ) e, nel contempo, rafforzare l'unità dei lavoratori di fronte alla protervia delle forze capitaliste.
Sia chiaro, non intendiamo elevare questa soluzione economica al rango di soluzione finale del problema dell'accumulo capitalistico (e lo diciamo per evitare le solite, inutili dissertazioni in merito), ma siamo fermamente convinti che la socializzazione rappresenti la prima, ed unica, linea di difesa o, nel peggiore dei casi, «una sacca di resistenza» nel contesto di un'offensiva planetaria dei «poteri forti» in grado di fare «tabula rasa» di ogni diritto civile e sociale acquisito.
In questo senso, e per maggior chiarezza, sottolineiamo quelli che potrebbero essere i tre obiettivi fondamentali di questa strategia:
1) perché è l'unica soluzione praticabile che offra qualche garanzia ai produttori di respingere il tentativo di subordinare il lavoro al solo interesse della grande finanza. Facendo riemergere il ruolo di soggetto attivo e creativo del lavoro;
2) perché nelle piccole e medie imprese, aziende, o società di capitali verrebbe a cadere il secolare contrasto fra imprenditore e salariato, che di fatto favorisce la grande produzione e la grande distribuzione così generando un'economia antagonista in grado di organizzarsi in sindacato di categoria, che può opporsi con maggiore efficacia alle pretese del macro-capitale finanziario;
3) perché una cogestione integrale attuata nelle grandi aziende contribuirebbe non poco a sabotare, «dall'interno», il processo di ristrutturazione dell'economia che proprio nelle grandi concentrazioni industriali ha uno dei suoi punti di forza.
È quindi inevitabile che nella sostanza si voglia rimanere fedeli ad una teoria che auspica una struttura economica/sociale a carattere cogestionale che all'interno delle aziende mantenga un Consiglio di gestione/amministrazione presieduto da un Presidente (eletto dai rappresentanti delle categorie nelle imprese private, e dagli organi statali in quelle pubbliche) e composto dai rappresentanti eletti dalle varie categorie interne (tecnici, impiegati, operai, dirigenti) che tra l'altro assumono il rango di azionisti e quindi di comproprietari.
Il Consiglio di gestione, quindi, che mantiene il potere e può deliberare su tutte le questiona relative alla vita dell'azienda, nonché sull'indirizzo della produzione. Un Consiglio di gestione (amministrazione) che mantenga intatta la facoltà di distribuire gli utili residui fra operai, impiegati e tecnici in rapporto alla remunerazione percepita ed al lavoro svolto.
È conseguenziale supporre che certa Sinistra «estrema» ci accuserà di proporre un sistema economico che utilizza comunque «il profitto capitalista», senza scardinarne le strutture essenziali.
Accuse che vennero mosse dai burocrati del Cremlino verso quelle esperienze «embrionali» di cogestione tentate in vari paesi, per esempio, la Jugoslavia titoista.
Mentre la sinistra riformista, moderata e clintoniana non prenderà neanche in considerazione una rielaborazione degli assetti proprietari e rappresentativi delle aziende che non sia in sintonia con i progetti dei loro padroni e suggeritori di Wall Street.
Ma è bene chiarire, che certa sinistra non ha la capacità di uscire dal vicolo cieco nel quale l'ha condotta la sudditanza culturale a certo «azionismo illuminista» di stampo borghese, liberista e libertino che è riuscito ad inquinare e distorcere gli obiettivi che erano propri alla Sinistra antiborghese.
Per questo possiamo affermare, con un certo orgoglio, che oggi siamo tra i pochi che non intendono arretrare di un passo sulla strada del Socialismo.
Noi rimaniamo persuasi che i lavoratori devono essere parte pensante della produzione e che sia necessaria una proposta politica in grado di unire le forze produttrici minacciate dal parassitismo finanziario.
In questo senso il nostro appello alle forze del socialismo, affinché ritrovino la forza e la volontà di battersi per edificare un'Italia (e una Europa) popolare, socialista e indipendente.

 

Giovanni Mariani

 

 

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