da "AURORA" n° 20 (Settembre 1994)

RECENSIONI

 

Sivitri Devi

L'India e il nazismo

Ed. all'insegna del Veltro, Parma     pp. 60    £. 10.000

 

Il professore austriaco Agehananda Bharati, docente di antropologia all'Università di Siracusa, scrisse alcuni anni or sono un articolo nel quale si leggeva, tra l'altro: «Gli intellettuali indù che non sono stati influenzati dall'atmosfera liberale della Gran Bretagna e dell'India occidentalizzata hanno nutrito un atteggiamento di grandissimo apprezzamento verso la Germania, soprattutto verso la Germania nazista. (...) Ampie, influenti e colte cerchie dell'ortodossia indù simpatizzano, in maniera ingenuamente dichiarata, per la Germania di Hitler». 
Il docente universitario cita le parole che «un giovane monaco e intellettuale di grande levatura, la cui fama era in ascesa nell'India ortodossa» pronunciò nel 1954 in un'assise di dotti: «Qualunque cosa si dica contro Hitler, egli fu un mahatma, quasi un avantara».
L'articolo del professor Bharati, che contiene molti altri dati di questo genere, viene a confermare ed integrare le parti più interessanti e valide dell'opera di Savitri Devi: quelle che documentano le posizioni di stretta solidarietà col Terzo Reich assunte dagli Indù e dai Musulmani dell'India.
Questo è infatti l'argomento centrale de "l'India e il nazismo", il libro che, secondo Franco Cardini, è «significativo di tutta una temperie politico-intellettuale (e meglio sarebbe dire politico-religiosa) poco conosciuta dagli storici dei movimenti "fascisti" e -lacuna ancora più grave- dagli storici del colonialismo e della "decolonizzazione" giacché il nazionalsocialismo indiano fu, come il fenomeno filo-nazista di certi paesi e gruppi politici arabi, anzitutto un corollario della resistenza al colonialismo».
Uscito alcuni anni prima dello studio di Renzo De Felice su "Il Fascismo e l'Oriente", il libro di Sivriti Devi costituisce sì una testimonianza di prima mano sul rapporto delle rivoluzioni europee con il mondo vicino o medio orientale, ma fornisce anche alcune informazioni su quell'aspetto del cosiddetto "esoterismo nazista" -indagato da Giorgio Galli nel "Nazismo magico"- che fu l'«Ahnenerbe», l'istituzione cui furono delegati compiti di indagine metapolitica; dalla ricerca delle origini indoeuropee fino all'esplosione dei centri iniziatici tibetani.

 


 

Jacques Vergès

Lettre ouverte à des amis

algèriens devenus tortionnaires

Alvin Michel, Paris 1993   pp. 134 FF. 75

 

L'avvocato Jacques Vergès dà ancora scandalo. 
Sette anni dopo il processo contro Klaus Barbie, nel quale il battagliero avvocato difese un imputato che era stato condannato già prima di essere giudicato, Jacques Vergès ha scritto una "Lettera aperta a degli amici algerini diventati torturatori".
Si tratta di una vigorosa denuncia di quanto è avvenuto in Algeria in seguito al colpo di Stato con cui la classe politica locale replicò alla vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza.
L'avvocato Vergès documenta in questo libro una ventina di casi esemplari di cui sono stati protagonisti altrettanti militanti del FIS. 
Una ventina di casi su migliaia, indicativi del grado di imbarbarimento cui la Giunta golpista (patrocinata dal Fondo Monetario Internazionale e appoggiata dall'Occidente) ha portato l'Algeria. 
Torture, persecuzioni, processi farsa, trecento condanne a morte emesse dai tribunali, campi di concentramento nel Sahara: questi sono gli aspetti più salienti del paesaggio algerino che si intravede sullo sfondo della situazione denunciata da Vergès.
«In nome della democrazia -scrive Vergès nella sua "Lettera aperta"- voi avete annullato le elezioni. In nome dei diritti dell'uomo e della modernità occidentale, voi avete adottato gli stessi metodi terroristici che furono tollerati da Guy Mollet e François Mitterand: arresti di massa, internamenti arbitrari, tortura sistematica».
E prosegue, in questa vibrante arringa indirizzata al governo di Algeri: 
«Voi lo sapete, tra me e l'Algeria vi sono dei legami che voi non potete recidere, neanche quando mi contesterete il diritto di gridarvi in faccia la verità: che siete diventati dei torturatori, e complici di torturatori. (...) Io vi compiango, sinceramente».
Va detto, per capire il senso di queste parole, che Vergés collaborò col Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino al tempo della guerra di liberazione, tant'è vero che nel 1960 gli venne interdetto l'esercizio della professione legale.

 


 

Luca Leonello Rimbotti

Il fascismo di sinistra

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1989    pp. 199   £. 26.000 

Saggi, diari, biografie, romanzi. Sul Fascismo si è scritto, e si scrive, tantissimo. 
È un genere, come dicono gli editori, che "tira". Eppure, ad onta dei torrenti d'inchiostro versati sull'argomento, si ha la sensazione che il movimento di Mussolini sia ancora, in gran parte, una nebulosa inesplorata. D'altro canto, ben pochi, di quanti hanno preteso d'indagare gli innumerevoli e complessi aspetti del "fenomeno" fascista sono riusciti a farlo, con serenità e distacco, senza lasciarsi condizionare dalla demonizzazione degli avversari o dalla esaltazione apologetica dei sostenitori.
Inoltre, va qui sottolineata la parzialità (se si escludono gli scritti di De Felice, la monumentale "Storia del Fascismo" di Rauti e Sermonti, e pochi altri autori) delle analisi storiografiche che privilegiano, sia nella glorificazione che nella stroncatura, aspetti particolari e parziali, raramente spingendosi ad indagare sul retroterra culturale e sociale senza il quale la nascita del movimento fascista non sarebbe stata possibile.
Queste pagine di Luca Rimbotti indagano uno degli aspetti meno pubblicizzati e studiati del movimento fascista, soffermandosi a lungo sulle componenti sociali e sulle avanguardie culturali che negli anni a ridosso del primo conflitto mondiale agitavano la stagnante vita politica dell'italietta giolittiana; dai sindacal-rivoluzionari di Corridoni ai futuristi di Marinetti, dal nazionalismo antiborghese di Corradini alle frange anarchiche che si coagularono, poi, in quel movimento interventista che avrebbe costretto il governo di Roma ad abbandonare la politica di pavido attendismo di fronte al grande incendio che era divampato in Europa.
«Da piazza San Sepolcro al Congresso di Verona», storia di una rivoluzione incompiuta. 
Storia di uomini che, dopo la conquista del potere, furono in gran parte emarginati, costretti all'interno di meccanismi burocratici e formalistici che via via ne svuotarono ogni vocazione rivoluzionaria.
Una politica, quella del fascismo-regime, di sostanziale compromesso con i poteri forti; Chiesa, industriali, Monarchia. Compromessi che compressero tutto lo slancio innovativo di quello che De Felice definisce fascismo-movimento, ponendo così le basi per l'ingloriosa pagina del 25 luglio '43 e per il successivo disastro dell'8 settembre.
Il "Fascio Primigenio" ritrovò la sua spinta innovativa e la sua vitalità sociale nella pagina tragica ed eroica della Repubblica Sociale. 
Troppo tardi, e in una situazione bellica disperata, per poter costruire, in modo organico e articolato, le strutture del nuovo Stato.
In questa ultima parentesi il Fascismo recuperò la parte migliore, umana e politica, di sé stesso e solo grazie ad essa è riuscito a trasmettere, oltre la sconfitta militare, un messaggio sociale non destinato all'oblio.

 


 

Oswald Spengler

Il socialismo prussiano

Ed. all'insegna del Veltro, Parma    pp. 70    £. 10.000 

Il figlio del banchiere Lukàcs, in quella sorta di indice ragionato dei libri proibiti che è "La distruzione della ragione", scriveva che quest'opera di Spengler è «importante per l'ideologia del fascismo» (ed. Einaudi, p. 478).
E anche Antonio Capizzi, nel suo studio sulle "Radici ideologiche dei fascismi" (Roma, 1977) indicava come fondamentale questa distinzione tra mentalità liberale (tipo inglese) e mentalità socialista (tipo prussiano) che costituisce l'argomento di questo libro di Spengler.
Capitalismo e socialismo, banchieri o funzionari, miliardari o generali, ideale inglese o ideale prussiano: «ecco l'eterna questione». Da Lukàcs ad Umberto Eco (che ha inserito Spengler nel novero degli intellettuali "apocalitici") si è identificato questo "socialismo prussiano" con il fascismo tout court.
Non sarebbe male che queste pagine di Spengler venissero lette da quanti tendono invece a vedere nel fascismo una variante autoritaria dello Stato capitalista. Tra l'altro, costoro vi potrebbero scoprire una critica del marxismo che reca un segno algebrico opposto a quello della critica liberalcapitalista, poiché il marxismo è per Spengler (e lo faceva già notare Adriano Romualdi in un suo studio postumo sulla "rivoluzione conservatrice" tedesca): «Un tipico prodotto della mentalità manchesteriana inglese, una critica interna alla società del profitto e della libera iniziativa che non spazia, con la sua prospettiva, oltre quella società che vuole criticare».
Se Sombart aveva proclamato che il «superamento di Marx poteva aver luogo solo attraverso Marx stesso» («der weg uber Marx hinaus kann nur durch Marx gehen»), Spengler fissa anch'egli un compito ben preciso: «si tratta di liberare il socialismo tedesco da Marx (...) Noi tedeschi siamo socialisti, anche se non si fosse mai parlato di socialismo».
In altri termini, ciò che per Spengler è necessario è la reintegrazione del proletariato tedesco in una prospettiva storica e non utopica, nazionale e non internazionalista. 
D'altronde, il prussianesimo era socialista ancora prima del socialismo, perché la sua concezione era sostanzialmente antiborghese. 
E il socialismo, per Spengler, è innanzitutto un modo d'essere e di concepire la società, una subordinazione del singolo alla comunità, un ethos del servizio e della disciplina.

 


 

Ruhollah Khomeyni

Citazioni

Ed. all'insegna del Veltro, Parma    pp. 50   £.   10.000 

All'Iman Khomeyni ne sono state attribuite tantissime, sia dai suoi nemici, sia da certi zelatori dell'ultima ora che farebbero bene ad occuparsi esclusivamente di soubrettes televisive e di western all'italiana. 
Chi desiderasse leggere direttamente (e non attraverso il filtro della propaganda diffamatoria o delle giaculatorie apologetiche) alcune pagine dell'Iman, si procuri questa antologia di "Citazioni".
Dalla lettura del libretto (il primo di una serie di titoli che la casa editrice ha dedicato all'Iman) emerge il quadro di una personalità profondamente assorbita dalla sua funzione storica; una personalità che manifesta una approfondita conoscenza del mondo occidentale e pone tale conoscenza al servizio della causa islamica.
A differenza di Khomeyni, non compresero molto dell'Islam e della rivoluzione islamica coloro i quali, fra il 1978 e il 1979, presentavano il vecchio ayatollah come una sorta di «teologo della liberazione» che avrebbe rimpiazzato il regime dello Scià con una democrazia progressista, non sgradita al potere americano e mondialista. 
Eppure di Khomeyni si può dire che ha sempre dichiarato con molta chiarezza quali sarebbero state le sue linee d'azione una volta conquistato il potere in Iran. 
Ne sono una testimonianza, per l'appunto, le pagine antologizzate in questo "Quaderno del Veltro".

 

 

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