da "AURORA" n° 20 (Settembre 1994)

L'ANALISI

I frutti del male

Vito Errico

Chi è artefice del proprio male, pianga se stesso. 
È il primo pensiero che soggiunge osservando la manovra finanziaria, concretata dal governo piduista dei salvaladri. Già, perché adesso tutti si strappano i capelli pensando ai lividi aspetti che assume il futuro di ogni lavoratore italiano. 
La manovra finanziaria, ch'è un semplice e volgare taglio alla previdenza, un ulteriore aggravio fiscale, perché le tasse non sono soltanto quelle che si pagano in esattoria, proietta fosche ombre sul grado di vivibilità civile dei settori meno abbienti della nostra società. 
Ma non solo. Sconvolge l'equilibrio sociale nel momento in cui muta unilateralmente il contratto stipulato tra individuo e società. 
Il problema del taglio alle pensioni, delle modifiche al collocamento in quiescenza, della contribuzione previdenziale non è solo di natura sociale. Cambiare le regole in corsa non è soltanto modifica normativa. È un problema di natura giuridica. Al momento della creazione di un rapporto di lavoro, intervengono tutte le regole preesistenti ad esso. 
Il contratto fra prestatore d'opera e datore di lavoro in un'economia capitalistica viene stipulato in base a quelle clausole. Ne discende che qualsiasi modifica non può interessare quei contratti già perfezionati ma può dettare tutt'al più nuove regole per nuove stipulazioni. Cioè, non si può dire a chi ha compiuto o sta per compiere il periodo trentacinquennale di contribuzione che non può andare in pensione perché non ha raggiunto i limiti di età. Questa è frode nei confronti del singolo, è offesa allo Stato di diritto. La norma viene stravolta, il contratto modificato unilateralmente, l'equilibrio sociale messo in pericolo. 
Ma quel che più fa paura è un altro aspetto dai connotati reazionari. Si riafferma nel sociale il ritorno al concetto di «rapporto di forza». 
La classe dominante impone le sue regole, le classi soggette le subiscono ma nel contempo si produce uno stato di cose che mette in pericolo la tenuta, l'unità del popolo. Cioè, fra le genti d'una stessa nazione ricompare il conflitto. 
Non ci si dovrebbe scandalizzare più di tanto se si tenesse costantemente in considerazione la provenienza dell'accolita di governo. Una ciurmaglia di bottegai, dedita a traffici nebulosi, frammista ad avventurieri della politica politicante, non poteva coltivare quel senso dello Stato, che distingue un trafficante da un uomo di governo. Questa conventicola, organica e limitrofa di sette e cosche, doveva fare quello che sta facendo perché è capace di agire solo così. 
Ha cominciato e demolire l'apparato previdenziale pubblico perché nel frattempo si è attrezzata a costituire gli organismi privati di surrogazione. Sono pronti, cioè, gli apparati mercantili che d'ora in poi veicoleranno la domanda di quella che va sotto il nome di «previdenza integrativa» e che poi finirà per essere integrale ed esclusiva. Le grandi compagnie di «assurance», in mano agli oligarchi di governo, hanno spalancato le loro fauci, pronte a ingoiare gli introiti rivenienti dalle polizze. 
Il debito pubblico c'entra come cavoli a merenda nell'operazione di privatizzazione della previdenza. Ci sono i grandi interessi finanziari a muovere il tutto. E la controprova è data dal fatto che, non essendo ancora pronte a gestire un'operazione ben più costosa e complicata, i pescecani delle assicurazioni hanno sorvolato sul sistema della sanità pubblica, anche se va detto che i primi, piccoli passi sono stati mossi. 
I costi di gestione degli ospedali, alla luce della necessità tecnologica che fa di un nosocomio il contrario di un lazzaretto, sono altissimi, non compensabili ancora con prezzi accessibili di polizza. Non c'è ancora la convenienza a intervenire. Fra un paio d'anni, quando il caos avrà avviluppato tutto il comparto e le tecniche d'intervento dell'«assurance» saranno state messe a punto, scatterà il meccanismo di demolizione della sanità pubblica. Gli ospedali saranno privatizzati mediante battute d'asta a prezzi stracciati e una volta accaparrati i siti e le strutture, il gioco sarà facile. 
Chi avrà soldi, potrà stipulare polizze sempre più care. E chi non li avrà? Il «rapporto di forza» regolerà questo stato di cose. 
Non a caso si afferma che questi son tempi in cui chi è ricco, si arricchisce e chi è povero, s'impoverisce. 
Chi gioisce delle norme testè varate? 
I padroni delle ferriere e la finanza mondialista. Basta scorrere le agenzie di stampa, leggere le dichiarazioni di Agnelli, seguire gli andamenti di borsa per notare il tripudio turibolante dei pescecani in onore del Cavaliere. Che sono gli squali di sempre, di ogni epoca, dediti a negare il bisogno ma pronti a sfruttarlo. 
In questo stato di cose vanno fatte alcune notazioni. Il governo piduista è un governo legale. Si è costituito sulla spinta maggioritaria del consenso elettorale venuto dal basso. Un «basso» ubriacato dalle promesse fantastiche del milione di posti di lavoro, della riduzione fiscale, di tutte le amenità diffuse dalla videocrazia. La maggioranza degli italiani ha voluto che quella ciurma di avventurieri li capitanasse. E adesso? 
Il dispetto alla moglie è compiuto, non rimane che giocare con lo scroto reciso. 
Questo, da un lato. Dall'altro merita volgere uno sguardo all'apparato che si contrappone al Cavaliere. Non vogliamo ritornare su analisi già confortate da diagnosi acclarate. La pochezza intellettuale, gli schizzi malavitosi del consociativismo, l'inzaccheramento nel regime catto-comunista hanno prodotto il riconoscimento nobilitante della cricca di Arcore. Il trascorso storico di certi partiti è servito a rilasciare una patente di «novismo» a chi s'era rimpinzato in quelle mangiatoie. Certe tracce sembrano dure a morire. 
Le reazioni alla legge finanziaria del trio Cofferati-D'Antoni-Larizza sono di una tiepidezza sospetta. Cosa significa agitare quattro ore di sciopero generale, da celebrare come un rito salvifico il 14 Ottobre? È la solita commedia delle parti. Qui il marcio della questione sta nel liberismo sfrenato che ammorba l'aria del geoide terracqueo. Allora, ci vuole una voce ferma che cominci a mettere in discussione questo idolo. 
L'allineamento all'Europa, l'adeguamento al resto del mondo sono specchietti per le allodole. 
Se allineamenti e adeguamenti devono comportare simili prezzi, a morte l'Europa e i suoi sofismi. Non c'è più da tergiversare su certe questioni. C'è da giocarsi una partita. 
L'aspetto del mondo è quello che è, il quadro è chiaro. Il liberismo crea squilibri sociali, favorisce la nascita di oligarchie maggiorenti che non fanno altro che aggravare le condizioni dei ceti deboli, ancora una volta costretti a sostenere il peso di sfasci provocati dalle gozzoviglie di potere. 
Sul versante internazionale il dato non è diverso. C'è uno sfruttamento delle nazioni ricche a danno di quelle povere. 
È inutile ritornare sull'esame di problemi inerenti il Sud e il Nord del mondo. La questione che torna dominante è quella del capitalismo senza freni, che avvelena l'anima dei più e rimpingua l'epa dei pochi. O si ha il coraggio di risfoderare certe denuncie, che non hanno nulla da spartire col socialismo reale, altra faccia della stessa medaglia capitalistica, oppure si scivolerà sempre più ai livelli sudamericani, in cui il latifondo domina qualsiasi situazione socio-economica. 
La simpatia degli arcoresi per Pinochet non è campata in aria.

Vito Errico

 

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