da "AURORA" n° 20 (Settembre 1994)

L'APPROFONDIMENTO

Vandee

Francesco Moricca

La Vandea è oggi il simbolo della cosiddetta rivoluzione conservatrice.
Quand'anche se ne condividano gli ideali, non si può misconoscere la differenza esistente fra i veri Vandeani e coloro che si presentano come i loro eredi naturali. I primi erano figli di un feudalesimo ancora vivo e che non si rassegnava a morire; che anzi, in un primo momento, si era illuso di poter coesistere col moto rivoluzionario iniziatosi nel 1789 con la presa della Bastiglia. Di ciò erano convinti i contadini non meno dei loro signori, che non a caso avrebbero deciso di assumerne il comando solo ad insurrezione avvenuta, quando ormai i giacobini avevano preso il sopravvento, ed era stata messa in piedi la Coalizione per isolare la Francia ed impedire che la rivoluzione dilagasse nel resto d'Europa (1).
I nuovi Vandeani, al contrario, dovrebbero essere tutt'altro che i continuatori del passato regime. Almeno nelle intenzioni. La loro proposta politica appare poi ancora meno convincente a causa della manifesta impossibilità di coniugare, nella realtà odierna, il loro federalismo neo-feudale con la necessità, per non dire la volontà dichiarata, di essere in linea con un neo-liberismo distorto e mitizzato in un'ottica tipicamente piccolo-borghese, come quello che si riscontra sia al vertice che alla base del movimento leghista.
Come concetto politico, poi, il feudalesimo comporta in sé una rigida subordinazione della economia a un potere extraeconomico e perfino extrapolitico: al potere, cioè, teocratico-militare. Come concetto economico, inoltre, il feudalesimo è un modello di economia chiusa, inconciliabile con l'economia di scambio moderna a meno che non si proceda ad una sua drastica riforma in senso corporativistico, che però è antitetica alla essenza del liberalismo vecchio e nuovo. Per cui è lecito domandarsi fino a che punto i fini della piccola borghesia possano sposarsi con quelli propri del feudalesimo, considerando il carattere anarcoide, angustamente individualistico e materialistico dei primi.
Facciamo tali osservazioni preliminari per chiarire le nostri forti perplessità nei confronti della rivoluzione conservatrice. La quale, per quel che si è detto, potrebbe in definitiva voler «conservare»: il feudalesimo deteriore che si è espresso nella partitocrazia consociativa, e che si tratterebbe di riproporre, coi dovuti aggiustamenti, sia pure nelle forme «alte» che Marcello Veneziani ha riscontrato nei periodi più felici della storia dell'Italia unita.
Si badi che il realismo delle analisi di Veneziani ci pare fuori discussione.
Ma non si può fare a meno di restare profondamente delusi e sconcertati nell'apprendere quali sarebbero i momenti «più alti» della storia italiana contemporanea.
E allora si è quasi costretti a voltare le spalle ad un simile realismo per percorrere una strada diversa.
Però senza la presunzione che sia la sola giusta. Facendo nostra la migliore lezione del leninismo, dovremmo persuaderci che il «nichilismo costruttivo» non è soltanto quello che proviene dalla coerenza dei principî, ma anche quello che intende inverarli nella realtà accettando compromessi necessari. Il rischio è che si vada a cadere in quel particolare relativismo in cui ha quasi sempre col cadere l'ideologia moderna, segnatamente le ideologie moderniste, dalla cattolica alla marxista. Potrebbe con molta probabilità cadervi la proposta di rivoluzione conservatrice sostenuta da Veneziani. E perfino la nostra proposta di rivoluzione nazionalpopolare (che non ci sembra avere i limiti della prima), se il nostro movimento dovesse per avventura un giorno assumere responsabilità di governo.
Quanto alla rivoluzione nazionalpopolare, occorrerebbe, onde fugare ogni possibile equivoco, intenderla nel senso della evoliana «rivoluzione restauratrice dei Valori», rivoluzione che è certamente utopistica, ma che comunque tutto può inglobare fuorché la «conservazione» di qualcosa. E non solo in termini materiali, in quanto la restaurazione di un valore, in virtù dell'essenza trascendente dello stesso rispetto della sua espressione umana, implica un illimitato e incessante processo di rivoluzione (rielaborazione) dei concetti medesimi, una tensione verso l'alto in grado di evitare cristallizzazioni intellettualistiche: quasi una rivoluzione culturale permanente che non si limiti, tuttavia, a rivoluzionare la cultura in funzione della società e viceversa, ma, letteralmente, tutto quanto nella storia è stato prodotto.
Ciò, beninteso, in una accezione diametralmente opposta a quella in cui analoghe affermazioni si trovano nei testi canonici del marxismo classico a partire dai "Manoscritti economico-filosofici del 1844", visto che in questi testi si parla di «trasmutazione» e non già di «restaurazione» dei Valori.
Poiché la stessa idea marxiana della trasmutazione dei Valori si trova in Nietzsche (e là dove si trova conferendo alle affermazioni del filosofo prussiano una inequivocabile intonazione sinistrorsa moderna al limite dell'apertura verso le velleità superomistiche della grande finanza internazionale), è chiaro che non può condividersi la difesa di Nietzsche di cui troppo entusiasticamente sembra essersi incaricato Veneziani, rispondendo ad alcune contestazioni del teologo tradizionalista Pierangelo Vassallo al convegno romano di agosto sulla ideologia di Alleanza Nazionale in corso di elaborazione.
Tutto più in quanto, significativamente, Veneziani aveva da tempo preso le distanze da Evola e dalla sua scuola, persino in un libretto allegato ad uno dei primi numeri del suo settimanale.
Per cui, se Nietzsche viene preso come punto di riferimento culturale di AN (e indirettamente e più o meno consapevolmente dai suoi alleati di governo), pare quasi scontato che Evola dovrebbe esserlo da parte della Sinistra Nazionale; che, per altro verso, avrebbe modo di opporre al tradizionalismo cattolico di De Maistre, Donoso Cortes, Lefebvre, dello stesso Pierangelo Vassallo, il tradizionalismo non meno agguerrito, epperò non clericale, di Evola e Guénon (2).
La Vandea, dunque, come simbolo della rivoluzione conservatrice: simbolo ufficializzato e consacrato dalle celebrazioni di quest'anno, controparte di quelle ben più grandiose di cinque anni or sono nel bicentenario della rivoluzione francese. La Vandea ha avuto la sua rivisitazione storiografica ad opera di intellettuali della Nuova Destra, e ha potuto vantare la presenza-pellegrinaggio del Presidente della Camera, Irene Pivetti, nei luoghi che videro compiersi il genocidio dei Vandeani: un fatto comunque rimarchevole che serve a ridimensionare gli autentici connotati della rivoluzione che ha segnato l'inizio dell'età contemporanea.
Si è visto, tuttavia, che il simbolo della Vandea è discutibile per diversi aspetti, a cominciare da quello della verosomiglianza storica.
Ci si domanda, a questo punto, se esista nel periodo della rivoluzione francese qualche altro episodio altrettanto o anche assai più rilevante della Vandea.
Questo episodio esiste, non ancora esaurito per influenza storica, e dubito che possa suscitare un interessamento più che accademico presso gli intellettuali conservatori.
Si tratta di un episodio emblematico del carattere della rivoluzione del 1789, e più di quanto non lo sia la Vandea della quale è contemporaneo. Parliamo della rivolta degli schiavi della colonia francese di Haiti, promossa e condotta alla vittoria nel 1791 da Toussain Louverture (3).
Questo schiavo, in virtù di una reale alterità culturale, appare subito inassimilabile allo stereotipo roussoniano del «buon selvaggio» e ne rivela per contrasto i limiti intellettualistici e le contraddizioni di fondo. Lo «stato di natura» era per Rousseau una «condizione che non è mai esistita e che probabilmente mai esisterà», che si ricava «negativamente» considerando le storture vere e presunte della «società civile» al fine di tracciare il modello dello «Stato perfetto» e della sua costituzione politica.
Con una delle sue tipiche incongruenze, Rousseau vedeva lo Stato ideale come una repubblica che in parte doveva somigliare a Sparta, in omaggio al gusto classico e neo-plutarchiano che stava invadendo il campo della speculazione giusnaturalistica, e in parte alla sua patria d'origine; la repubblica calvinista di Ginevra, per l'influenza di un vago nazionalismo preromantico sostanziato dalla borghese preoccupazione per l'agiatezza e la tranquillità del vivere quotidiano.
Il che, peraltro, la dice lunga su colui che sarebbe stato il maestro venerato di Robespierre e, assieme ad Hegel, del «filosofo» Marx.
Toussain, invece non aveva bisogno di alcuna filosofia per essere ciò che era. La schiavitù aveva preservato la sua integrità culturale e per lui gli ideali della rivoluzione francese si riducevano tutti alla promessa esplicita di eliminare la schiavitù (che però verrà condannata ufficialmente solo dal Congresso di Vienna, agli inizi della Restaurazione). Ciò, credeva, gli avrebbe consentito di vivere in libertà secondo le tradizioni del suo popolo, e anche la possibilità di un eventuale ritorno in Africa. Toussain non aveva velleità da rivoluzionario, non voleva cambiare il mondo. Se per un momento la sua attenzione si spingeva al di là dell'orizzonte più prossimo, si augurava un mondo in cui ogni popolo avrebbe potuto vivere secondo il costume dei propri avi. Un mondo culturalmente omologato non lo avrebbe fatto inorridire, lo avrebbe fatto sorridere come una ipotesi del tutto irrealizzabile.
Toussain era «primitivo» come gli antichi Spartani e come i contadini della Vandea: col legittimo orgoglio delle proprie radici e senza disprezzo per le altrui. In una parola, senza alcun complesso, nemmeno quello della propria condizione di schiavitù. Perché uno schiavo che non si dimentica della libertà e riesce alla fine a riconquistarla, non è mai stato veramente schiavo, anche se ha creduto di esserlo, e lo è stato di fatto, per un periodo più o meno lungo.
È diffusa l'idea che la rivoluzione di Toussain dovesse trovare, come trovò in effetti, la più grande ostilità delle grandi potenze (degli Stati Uniti e della stessa Francia rivoluzionaria e tuttavia ancora colonialista), per una serie di ragioni storiche contingenti. Come dire che, queste venute meno, per il progredire delle idee liberali e il diffondersi della cultura libertaria, tale ostilità avrebbe dovuto avere termine. Però, fino ad oggi, non solo non ha accennato a diminuire, ma si è andata accentuando sempre più. E non già per il riaffiorare dell'«originario odio etnico» e del razzismo nelle società evolute, quanto invece, a noi pare, per l'irriducibile conflittualità esistente fra le culture «tradizionali» e la cultura omologante affermatasi con pretese egemoni dopo la rivoluzione francese, cultura che comunque non ha avuto il totale sopravvento neanche nel mondo occidentale che pure l'ha prodotta. Il nazionalismo più o meno esasperato dell'Ottocento e della prima metà del Novecento, il nuovo nazionalismo improprio delle Leghe, i movimenti nazionalpopolari sono altrettante prove di questa resistenza mai del tutto sopita, sorda e subito pronta a riaffiorare, anche con particolare virulenza, nei confronti della cosiddetta civiltà.
A noi sembra che non solo la rivoluzione di Toussain sia stata la prima rivoluzione negra della storia contemporanea che abbia avuto immediate ripercussioni fra gli schiavi del Sud degli Stati Uniti e che ne abbia tuttora nell'area caraibica, ma sia stata anche una rivoluzione restauratrice dei Valori assai più della Vandea, che peraltro ha esaurito la sua influenza storica con la fine dell'età della Restaurazione.
La società haitiana creata da Toussain all'indomani della vittoriosa rivoluzione riproduceva nei suoi aspetti essenziali il modello tradizionale, in cui la classe dirigente è formata da sacerdoti e guerrieri espressione vivente di una spiritualità mistico operativa, quella propria in ogni caso alla religione magica Vudu. Con questa religiosità il cattolicesimo missionario cercò di instaurare un dialogo costruttivo anche se alquanto difficile, vista la fine di frate Aristide e del suo movimento Lavalas ispirato alla Teologia della Liberazione. Eletto democraticamente dopo la cacciata di Baby Doc, figlio del «famigerato» Papa Doc che a tutti gli effetti va considerato l'erede di Toussain, frate Aristide verrà esautorato dall'attuale dittatore Raoul Cèdras a seguito del golpe del '91, che darà luogo al regime di terrore attuale che ha scandalizzato il mondo offrendo il destro ad un'ennesima minaccia di intervento della polizia internazionale, però rappresentata questa volta direttamente dagli Stati Uniti e non dall'ONU.
La storia di Haiti (4) ha in comune con quella degli altri Paesi dell'America Latina tre elementi ben individuabili.
In primo luogo, la presenza di un cattolicesimo missionario che si sovrappone alla cultura locale, ma non intende sostituirla col cristianesimo se non in tempi molto lunghi; che cerca in tal modo, di mediare la conflittualità fra europei e non-europei non senza entrare in stridente contraddizione con se stessa più di una volta.
In secondo luogo, il ruolo essenziale che via hanno avuto da un lato creoli e mulatti come esponenti di una borghesia in buona parte filo-occidentale, dall'altro l'esercito del quale i primi costituiscono l'ufficialità medio-alta, e che rappresenta la classe detentrice del reale potere politico per l'influenza sia della cultura tradizionale autoctona, sia delle società a struttura feudale di provenienza dei conquistatori latini, specie degli spagnoli.
In terzo luogo l'ingerenza costante degli Stati Uniti a partire dal moto di indipendenza nazionale del secolo scorso, ingerenza espressa nella formula del Presidente Monroe «l'America agli Americani», in cui era celata la volontà di scacciare gli Europei e di fare dell'America centromeridionale una grande colonia statunitense.
Ciò per cui, invece, la storia di Haiti ha caratteri del tutto originali, consiste nella notevole resistenza opposta all'azione mediatrice dei missionari da parte della religione Vudu. La quale, anche se presenta un inequivocabile carattere ctonio, con venature al limite del satanismo, è pur tuttavia da ritenersi tradizionale, sebbene ad un livello degradato rispetto alla «religione primordiale» di Evola e Guénon. Ma simile rilievo va visto in relazione al fatto che lo stesso cattolicesimo «secolarizzato» è una religione degradata, anche più degradata del Vudu, in termini assoluti.
Altro motivo di originalità della storia di Haiti e da vedersi nella circostanza che l'esercito, fin dai tempi di Toussain, si è schierato a difesa dei Valori tradizionali della negritudine, dichiarando una lotta spietata e senza quartiere a mulatti e creoli filo-occidentali. L'Occidente ha risposto con la tattica dell'embargo e del sostegno ad agenti che miravano a fomentare il malcontento popolare causato da una situazione economica disastrosa, visto che due secoli di pressoché ininterrotto isolamento avevano costretto a bruciare tutte le risorse interne, in un regime di forzata autarchia tanto più deleterio quanto più prolungato.
Ciò spiega la crudeltà di Papa Doc e dei suoi successori, il fatto che la sua dittatura sia stata all'interno tollerata così a lungo, egli, addirittura, essendo venerato come un padre della patria e anzi come una sorta di divinità incarnatasi. Spiega altresì la fortuna effimera di cui ha goduto nell'isola caraibica la Teologia della Liberazione e un personaggio, comunque ragguardevole, come frate Aristide. Spiega, infine, la scarsissima presa che vi ha avuto l'esperienza castrista.
È certamente una serie di circostanze esterne favorevoli ciò che ha consentito alla rivoluzione di Toussain di continuare a vivere sino ad oggi. In primo luogo, la presenza della vicina e più importante Cuba, del cui controllo, in un primo momento, gli Stati Uniti si sono ritenuti soddisfatti.
Poi, con l'evento di Castro, Haiti ha potuto indirettamente contare sulla protezione sovietica, continuare a rimanere un'isola nel senso più completo della parola.
Ma vi è anche un altro motivo da prendere in esame per capire in tutto il suo significato questa insularità: il fatto, cioè, che ad Haiti l'assetto tradizionale della società si è mostrato parecchio saldo. Lo dimostra la compattezza della casta militare, il suo presentarsi con tutte le caratteristiche del clan in cui sono cemento il legame familiare e l'ereditarietà di ruoli. Indicativo, al riguardo, che i tre ufficiali che sostennero Papa Doc contro Kennedy durante la crisi del 1963 si chiamassero Biamby, Francois e Cèdras, e che fossero i genitori dei golpisti del '91 e capi dell'attuale giunta con cui il Presidente Clinton intenderebbe chiudere i conti una volta per tutte.
Dati i recenti sviluppi della situazione nell'area dei Caraibi a seguito del crollo dell'impero sovietico, non è affatto da escludersi che il modello haitiano possa fungere da correttivo del castrismo in senso decisamente nazionalpopolare. Non è senza significato la posizione assunta da Fidel Castro nei confronti del governo Berlusconi, posizione che, quand'anche fosse dettata da motivi solamente opportunistici, non per questo non potrebbe evolversi in diversa direzione in presenza di un'ulteriore irrigidimento statunitense verso Paesi che «non forniscono garanzie sufficienti di democraticità».
Tanto più dopo la vittoria elettorale del Partito Rivoluzionario Istituzionale messicano di Zedillo, paragonato da autorevoli commentatori a una sorta di Berlusconi latino-americano. Secondo il progressista messicano Marco Aurelio Major, questa vittoria sarebbe stata indirettamente favorita dagli Zapatisti del Chiapas, da un'endemica guerriglia di cui l'elettorato avrebbe avuto paura, ma che, se non ci fosse stata, non avrebbe permesso che si attuasse in Messico la riforma elettorale e che si ottenesse dall'ONU l'invio di osservatori stranieri. «È triste», commenta Major. Ma è successo -si potrebbe controbattergli-, e ora è da vedere l'atteggiamento che assumeranno gli Zapatisti verso il vincitore Zedillo.
Un altro prestigioso intellettuale progressista messicano, Octavio Paz, scrive: «Il problema vero in Messico è la mancanza di una reale cultura democratica. Bisogna convertire il Paese in una società democratica partendo dal livello più elementare, i comportamenti e la coscienza politica di ciascun cittadino. È molto difficile, ma solo così potremmo conquistare la democrazia anche a livello macro-economico».
Dichiarazioni che confermano le analisi qui proposte sui Paesi latino-americani e in particolare dell'area caraibica (e "a fortiori", provenendo da una concezione politica opposta alla nostra), ma che potrebbero essere pronunciate anche da Berlusconi in una ipotetica visita in uno di questi Paesi.
E allora se le visioni di un Berlusconi e di Octavio Paz, col loro mettere al primo posto la «macro-economia», sostanzialmente si identificano, quale il motivo della contesa fra i due?
Appunto -è ora chiarissimo- l'antagonismo fra un capitalismo locale ribelle e un capitalismo internazionale che ha ormai riassorbito al suo interno il marxismo come espressione del liberalismo radicale, e tutte quelle frange di dissidenza che oggi confluiscono in un progressismo cosmopolita, teoricamente inconsistente, confusionario e nella sostanza asservito alle strategie geopolitiche del mondialismo. Ciò si spiega in termini umani con la teoria leninista delle «contraddizioni interne al capitalismo».
Dal nostro punto di vista che è tradizionale e «umano» nel senso in cui sono pur tuttavia degli uomini coloro che si richiamano alla Tradizione, si spiega invece con la valenza metafisica di un simbolo: di quel simbolo di un'altra Vandea che noi opponiamo alla Vandea della rivoluzione conservatrice.

 

Francesco Moricca

Note:
1) La rivolta contadina della Vandea interessò anche la Bretagna, la Normandia, il Maine-e-Loira, la Loira atlantica, il Poitou, la Charente, l'Anjou. Alla sua origine vi fu la cosiddetta costituzione civile del Clero (12/7/1790) con cui il governo rivoluzionario intendeva sottrarre i sacerdoti alla giurisdizione di Roma. In realtà il governo rivoluzionario non fece altro che riprendere il tentativo fallito di Luigi XIV di creare una Chiesa gallicana in linea con le tendenze assolutistiche che si erano affermate in Inghilterra fin dal regno di Enrico VIII. Ma con lo scopo dichiarato di procedere alla scristianizzazione del Paese e di conseguire altri obiettivi che vedremo tra poco: cosa che certo non fu mai pensata né dal Re Sole né dallo stesso Enrico Tudor. La costituzione civile del Clero (opera del Cardinale De Loménie De Brienne, Arcivescovo di Sens!!!) aveva anche fini polizieschi; quelli di schedare gli oppositori: i sacerdoti che si fossero rifiutati di giurarla (preti "rèfractaires"). Il 13/2/1790 venivano soppressi gli ordini religiosi contemplativi. Il 26 maggio 1791 iniziava la deportazione dei "rèfractaires". Il 21 gennaio 1793 cadeva la testa di Luigi XVI e il 10 marzo avevano luogo in Vandea i primi tumulti. Allo scoppio della rivoluzione, le regioni che insorgeranno quattro anni dopo avevano accolto favorevolmente ciò che era sembrato un tentativo di riforma che si sarebbe attuato nel pieno rispetto della legalità. Ma quando la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici aprirà il processo di trasferimento della proprietà feudale nelle mani del Terzo Stato, i contadini dovettero sperimentare sulla propria pelle uno sfruttamento assai maggiore che in passato. Alla spietata esosità dei nuovi padroni che altra legge non conoscevano se non quella del profitto, si aggiunse la coscrizione obbligatoria che sottraeva al lavoro le forze migliori; poi l'inflazione, determinata dall'afflusso sul mercato di una grande quantità di moneta cartacea: i famigerati "assegnati" coi quali i borghesi acquistavano le terre confiscate dal governo rivoluzionario. È dunque realistica la definizione che Joseph De Maistre diede della rivoluzione come «di uno degli spettacoli più strabilianti che l'occhio umano avesse mai contemplato». E per i contadini l'orrore dovette essere più grande dello stupore. Essi insorsero per disperazione; i nobili, che ne assumeranno il comando successivamente, per dovere del proprio ruolo, per calcolo anche, certamente con la coscienza che qualcosa di inaudito e incomprensibile era accaduto, qualcosa a cui comunque si doveva reagire, perfino nella certezza della sconfitta. Si deve insistere sulla coscienza della ineluttabilità della sconfitta che serpeggiava più o meno consapevolmente nelle file della nobiltà francese. I nobili si sentivano oggettivamente impotenti di fronte ad avversari che non accettavano le regole tradizionali e in particolare quelle relative al diritto di guerra. A parte il "Terrore" che imperverserà fino alla caduta di Robespierre (27/7/1794), si sapeva che a Parigi, fra il 2 e il 5 settembre 1792, vi erano stati massacri eugenetici, siccome il roussoniano "Contratto sociale" si leggeva e commentava nelle pubbliche piazze, non era difficile cogliere il nesso fra i massacri eugenetici e le teorie del maestro venerato di Robespierre. Ne "La contessa De Charny", Alessandro Dumas rappresenta una riunione di un'importante loggia massonica. È assai significativo, visto che Dumas era egli stesso massone, che in quella riunione il ruolo principale lo abbia il vecchio Rousseau e non Voltaire. Peraltro, un membro della Convenzione, Jean Saint-Andrè, aveva detto in Parlamento che «bisognava ridurre la popolazione di più della metà»(!). Un suo collega lo aveva corretto: si doveva «ridurre la Francia a cinque milioni di abitanti»(!!!). E la Francia pare ne contasse quasi 25 milioni prima della rivoluzione. La matrice roussoniana di questi deliranti piani di risanamento sociale svela Babeuf, animatore, assieme a Filippo Buonarroti, della prima rivoluzione comunista (abortita) della storia contemporanea: la "Congiura degli Eguali". Si badi, però, che Babeuf, pur condannando gli eccessi del "Terrore", finirà col rimpiangere Robespierre dopo il colpo di Stato di Termidoro. Lo storico Gèrald Walter ha dimostrato che la "Congiura degli Eguali" non minacciava in alcun modo i termidoriani, per cui, alla fine, sarebbe lecito sollevare parecchi dubbi sulla linearità politica di Babeuf, e per converso dello stesso Buonarroti, il Grande Vecchio della resistenza rivoluzionaria alla Restaurazione, colui che gettò le fondamenta organizzative delle future associazioni segrete terroristiche, di ispirazione massonica e non. Nel suo libro "La guerra di Vandea e il sistema di spopolamento", Babeuf riporta la seguente testimonianza di Joachim Vilate, un giovane giacobino ammesso alle riunioni di gabinetto riservate del governo rivoluzionario e che verrà giustiziato nel 1793: «Maximilien (Robespierre) e il suo Consiglio avevano calcolato che una vera rigenerazione della Francia poteva essere operata solo con una nuova distribuzione delle terre e degli uomini che le occupavano». Poiché Rousseau aveva sostenuto il principio che nel suo modello «occorre che tutti i cittadini abbiano abbastanza e che nessuno di loro abbia troppo», i giacobini ritennero di dover adeguare anche il numero dei cittadini alle risorse economiche del Paese. Pertanto -conclude Babeuf- il "Terrore" non era soltanto finalizzato alla sicurezza interna della nazione in guerra, ma aveva lo scopo di «spopolare» la Francia onde realizzare le premesse della riforma roussoniana della società. I capi vandeani sapevano abbastanza di queste cose per trarne le conseguenze. Da ciò quella sorta di disperazione ontologica serpeggiante nelle file della nobiltà, di cui si è detto. I generali vandeani combatteranno, ciò nonostante, fino all'ultimo, ma senza mai cedere alla tentazione di rispondere al Terrore rosso col Terrore bianco. Dopo la disfatta di Cholet (17/10/93) il generale vandeano Bonchamp è ferito a morte. Prima di rendere l'anima, concede la grazia a 5.000 prigionieri repubblicani che stavano per essere trucidati per vendetta dai suoi soldati. Ci sembra indubbio doversi parlare di genocidio dei Vandeani. Tralasciamo di fare qualche esempio delle inaudite crudeltà commesse contro di loro con fredda determinazione. Sta di fatto che, sulla base dei documenti relativi agli indennizzi decretati da Napoleone per i superstiti, il Sècher calcola che su una popolazione di circa 800.000 abitanti nelle regioni insorte, ne furono abbattuti 117.000. Gli strascichi del moto vandeano si protrarranno fino al 1832 col tentativo legittimista della Duchessa Di Berry, che voleva restaurare sul trono il figlio Enrico V, ultimo erede di Luigi Capeto.
2) La polemica Veneziani-Vassallo verte sulle due interpretazioni più accreditate di Nietzsche: quella nazionalsocialista che risale alla sorella del filosofo e che fu a suo tempo smantellata da Evola; e quella cosiddetta francofortese (di Colli, Montinari, Zolla, Calasso), per la quale Nietzsche è colui che ha inverato il naturalismo, l'irrazionalismo e in definitiva l'essenza profonda del romanticismo ateo. Questa ultima interpretazione si presterebbe, secondo Vassallo, ad una lettura di Nietzsche in chiave sinistrorsa post-lukàcsiana, di ispirazione non più progressista ma regressiva, pauperistica, ecologistica, permissiva. Al che si obietta, secondo una visione rigorosamente tradizionalista, che una tale concezione «non può in alcun modo accordarsi con la dottrina sociale della Chiesa». Vassallo considera l'interpretazione nietzschiana di Veneziani come una variante «pericolosa» della scuola francofortese, in quanto, se è vero che bisogna respingere una certa modernità, è altrettanto vero che non lo si può fare in nome del nichilismo irrazionalistico, nella sostanza antitradizionale perché «gnostico». Posto che si può concedere a Veneziani che «attraversando Nietzsche» si può cogliere al suo fondo il «bagliore del sacro», non si può tuttavia concedergli che si tratti di una sacralità in qualche modo riconducibile al Cristianesimo. A nostro modo di vedere, non è esatto considerare lo gnosticismo come del tutto privo di connotazioni tradizionali, sulla base, ci pare di capire, dell'avversione che i Padri della Chiesa ebbero verso lo gnosticismo. Vassallo dovrebbe sapere che questo orientamento di pensiero, anzi questa religione gnostica era contemporanea alle prime elaborazioni della teologia cristiana e la influenzò non poco (basti pensare al Vangelo giovanneo). Parlare di un'eresia gnostica si può solo presupponendo un'adesione alla dogmatica, che guasta in un discorso che si pretende «aperto» e «rigoroso» in termini razionali. Però Vassallo ha pienamente ragione nei confronti di Veneziani, quando quest'ultimo pretende di essere in linea con la dogmatica, e tuttavia di non trovare contraddizione fra Nietzsche e il Cristianesimo, addirittura indignandosi quando lo si accusa di "gnosticismo", non accorgendosi che se gli gnostici non possono ritenersi eretici nell'epoca in cui fiorirono, chi oggi, dopo circa diciotto secoli di Cristianesimo, si richiami al loro insegnamento, non può in alcun modo sottrarsi all'accusa di eresia. Circa il presunto Cristianesimo di Nietzsche, c'è da dire che il Filosofo prussiano del Cristianesimo non coglie nessun aspetto tradizionale. Per lui il Cristianesimo che può andare è proprio il peggiore, quello che aveva stigmatizzato ne "L'anticristo"; cioè il Cristianesimo concepito come una qualsiasi filosofia morale, ridotto ad una forma di stoicismo piuttosto degradata. Quando poi non vi vede una consolatrice fuga dalla realtà ostile, il Cristianesimo viene a volte fatto valere politicamente nella componente giudaica, mentre quella ellenistica viene stranamente ignorata. Ciò spiega perché Nietzsche, preso da un molto sospetto astio verso il mondo «che non lo capisce», arrivi addirittura a schierarsi a favore dell'alta finanza ebraica contro la «rivoluzione dall'alto» propugnata da Bismark. Vassallo ha poi perfettamente ragione nel cogliere l'aspetto eretico del pensiero nietzschiano nella genesi storica di una certa idea di «ragione» e della parallela concezione di «progresso», quando ricorda a Veneziani che «Evola stesso affermava che l'idea di progresso è prodotta dalla filosofia cristiana». Nietzsche, in effetti, critica il razionalismo usando gli stessi strumenti del razionalismo settecentesco. Sembra ignorare del tutto che esiste anche un altro razionalismo; il razionalismo tomistico. E perciò non può non pervenire che a un nichilismo assoluto. Egli non scopre Dio, ma il "Nulla". Sostenere come fa Veneziani, che dietro il nulla si scorgerebbero i «bagliori del sacro», è veramente cadere nel peggiore gnosticismo. Non solo il tomismo, ma ogni orientamento di pensiero tradizionale, a differenza della filosofia moderna, stabiliscono una rigorosa distinzione fra «intelletto» e «ragione»: il primo essendo l'insieme delle capacità conoscitive dell'uomo in quanto essere naturale, la seconda essendo invece qualcosa che va oltre l'intelletto rendendo in qualche modo l'uomo partecipe dell'essere divino. La ragione ingloba pertanto la «coscienza» e il «sentimento» romanticamente intesi come percezione dell'«alienazione» del soggetto empirico (l'uomo) rispetto allo «Spirito». Nell'ottica del tomismo, in particolare, ciò significa che la intellettualistica e confusa sensazione della estraniazione e reificazione dell'io si chiarifica, come coscienza della colpa (del peccato originale) e come certezza di redenzione tramite la grazia e la fede operante, solo alla luce della teologia, di un patrimonio dogmatico tradizionale che va accettato per quello che è, anche ove ripugni all'intelletto. Nietzsche, figlio della modernità ed epigono illuminista dell'idealismo romantico, riduce la ragione all'intelletto e non può non rimanere irretito in un nichilismo senza sbocco. È questa la critica di Evola al «peggiore» Nietzsche. Il «migliore» è per Evola quello che irrazionalisticamente (come dire, per caso) si approssima ai Valori tradizionali, però incorrendo, per una pressoché totale ignoranza dei Princìpi, in una serie di tragiche antinomie che addirittura si somatizzano come gravissima malattia mentale. Così Nietzsche non riesce a cogliere neanche l'essenza vera della tradizione germanica, che non è affatto «germanica» quanto piuttosto «nordica» nel senso di «indo-aria». Con buona pace di Veneziani, Evola potrebbe forse in qualche modo conciliarsi col Cristianesimo, ma Nietzsche assolutamente no (e potremmo a sostegno della nostra tesi citare il nietzschiano Himmler, che definì Evola «in fondo un cristiano», per quanto una simile affermazione derivi da una conoscenza non approfondita e politicamente sommaria del pensiero evoliano). A sostegno delle tesi di Vassallo si potrebbe altresì citare la disputa Nietzsche-Wagner, le tesi del "Contra Wagner" con cui il Filosofo prussiano condanna il grande musicista per essersi convertito al Cristianesimo, misconoscendo del tutto il buon senso con cui l'ex-grande amico aveva ammesso l'impossibilità esistenziale, prima che storica, di recidere ogni legame con l'unica tradizione sopravvivente in Europa, cioè la tradizione cristiana. Quanto alla critica del progresso, ci sembra che la posizione di Evola concordi con la dottrina sociale della Chiesa solo in due punti che non sono tuttavia da poco: nella critica agli eccessi della modernità, in specie per le conseguenze che essi hanno nella sempre accentuata «sconsacrazione del mondo»; e, in secondo luogo, nell'istanza di una giustizia sociale non fine a sé stessa, ma che sia il mezzo per l'elevazione spirituale di ogni uomo, compatibilmente con le sue inclinazioni naturali e con il rispetto delle gerarchie. Ove invece si considerino gli aspetti democratico-egualitari e umanistici della dottrina sociale della Chiesa, riflessi in un ben definito patrimonio teologico considerato anche indipendentemente dalle deviazioni moderniste del Vaticano Secondo, è chiaro che non può esservi alcuna possibilità di accordo con le vedute di Evola e di quanti si riconoscono suoi discepoli. Si comprende benissimo perché Veneziani abbia preso le distanze da Evola. Ma che egli pretenda di sostituirlo con Nietzsche, non è pericoloso solo dal punto di vista del cattolico tradizionalista Vassallo. Personalmente, crediamo che la Sinistra Nazionale farebbe bene a mantenersi ben salda all'insegnamento di Evola. E non solo per distinguersi, ma per lealtà verso se stessa, e soprattutto verso i cattolici con i quali intende dialogare e collaborare fattivamente in nome di un comune riferimento ai Valori tradizionali. Le tradizioni sono diverse ed è bene che rimangano tali. Ma la Tradizione da cui discendono è una, come ha insegnato Guénon, forse con maggiore efficacia che lo stesso Evola.
3) Pierre Dominique Toussain detto Louverture nasce a Santo Domingo nel 1743 in stato di schiavitù.
4) L'isola di Hispaniola, divisa attualmente nei due Stati di Haiti e di Santo Domingo, aveva qualche importanza prima che gli Spagnoli conquistassero il Messico con la vittoriosa spedizione di Fernando Cortes che distrusse l'Impero azteco dei Montezuma. La colonia di Haiti ha origine intorno al 1930.

Francesco Moricca

 

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