da "AURORA" n° 20 (Settembre 1994)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Il ritorno dell'Akèl

Enrico Landolfi

Achille Occhetto ha intascato, dicono, in poche settimane, quasi un miliardo di proventi dalla diffusione del suo volume "Il sentimento e la ragione", vero e proprio «De bello bottegoni» di un Cesare stavolta sconfitto.
Nulla di men che lecito, per carità. Tutto legittimo, anche perché tale astronomico guadagno non si fonda su nessun sfruttamento che non sia quello dell'utilizzo dei suoi ricordi, delle sue esperienze, delle sue battaglie, delle sue vittorie, delle sue profligate sconfitte, dei suoi errori. (Grandi, questi ultimi, e tali da mettere in non cale anche certe condivisibili, potenzialmente feconde intuizioni nonché brillanti successi conseguiti sul campo, confliggendo a viso aperto e indifferente ai rischi dello scontro con un mondo ideologico consolidato).
Dunque, che buon pro gli faccia; e il miliardo -con, in più, quelli che ancora certamente incasserà sia entro i patrii confini sia al di là dei monti e al di là dei mari- se lo goda insieme alla signora Aureliana, la quale se lo merita, non fosse altro che per avere sopportato dal giorno delle dimissioni fino ai giorni nostri imprecazioni, requisitorie, chiamate di correo (per così esprimerci), giudizi al vetriolo su D'Alema, su Napolitano, sul Consiglio Nazionale che lo aveva trattato con indifferenza oltreché silurargli il delfino nella persona del direttore de "L'Unità".
Tutto un comportamento umorale, insomma, magistralmente epitomato in questa risposta rifilata a Giovanni Basanella, suo recente intervistatore, per conto di "Panorama". Vediamo:
«Durante quel dibattito (al Consiglio Nazionale, N.d.A.) sono stati introdotti elementi di restaurazione, sono rieccheggiate accuse di leaderismo nei miei confronti, mosse in passato dagli uomini contrari alla svolta, c'è stato insomma un cinico ritorno al principio secondo il quale il fine giustifica i mezzi. E pur ci raggiungere l'obiettivo, sono stati fatti discorsi per prendere voti a destra e a sinistra, sopra e sotto. Si è tornati ad una logica di puro trasformismo nella vita interna del PDS».
E scusate se è poco!
Come resistere alla tentazione, leggendo queste parole, di ricordare al già "number one" della Quercia che il saper perdere è un'arte, di non minor pregio di quella del saper vincere? E come non constatare che è francamente sconvolgente dover rilevare in un uomo -e in un uomo politico- pur tanto dotato sotto il duplice profilo intellettuale e dell'autorevolezza quale, appunto l'on. Occhetto, l'assenza totale di ambedue?
Di più; l'ira lo esaspera fino ad indurlo ad affermare cose non vere.
Per esempio, l'accusa di leaderismo -crediamo di ben ricordare- gli venne mossa non «dagli uomini contrari alla svolta» bensì da Giorgio Napolitano, leader della corrente "riformista" detta anche "migliorista", ossia la vecchia destra amendoliana, parte integrante della maggioranza "svoltista". Napolitano aveva ragione sia per ciò che atteneva al metodo, sia per quanto concerneva il merito. La posta in gioco era il cambiamento del nome del partito e l'Occhetto, more solito, aveva deciso per "Partito Democratico dalla Sinistra" senza consultarsi con l'insieme della maggioranza. Si era, cioè, limitato a stabilire tutto con la sua personale conventicola -i vari Fassino, Petruccioli, Veltroni, etc., fra i quali due personaggi particolarmente ineducati, arroganti, supponenti come Reichlin e Massimo De Angelis, delle cui pessime caratteristiche chi redige queste note ebbe a che fare, in qualità di giornalista e di autore di un libro su Franco Rodano, diretta, odiosa esperienza-, presentandosi quindi alla riunione di Direzione con la pappa bella e scodellata. Lì c'era un'opposizione molto combattiva, decisa a difendere con le unghie e con i denti la sigla PCI; e certamente gli occhettiani di stretta osservanza e obbedienza contavano, ricattatoriamente, di azionare lo spirito di maggioranza per far passare una denominazione che sapevano ostica agli amici di Napolitano e di Macaluso. Questi, infatti, ragionevolmente ritenevano che la "svolta" dovesse indirizzarsi non verso i fallaci lidi «dell'azionismo di massa» -quasi fosse immaginabile un azionismo non minoritario, non elitario, non aristocratizzante e, in definitiva, grande-borghese espresso dal mondo dell'economia e da quello delle accademie- bensì in direzione della democrazia socialista, espressiva dei valori del movimento operaio, unica legittimata a raccogliere la parte positiva dei lasciti culturali, ideologici, storici dell'esaurito P.C.I.
Non conosciamo Napolitano così come altri dirigenti del PCI/PDS se non attraverso le cronache dei mass media e la loro produzione pubblicistica e saggistica, sappiamo, però, che in quella ormai lontana riunione Giorgio Napolitano fece miracoli di equilibrio politico per salvaguardare la dignità sua e della corrente che a lui faceva capo protestando contro il "leaderismo" occhettiano, senza con ciò infliggere un vulnus allo schieramento di cui era parte così favorendo le resistenze tradizionaliste della frazione comunista e dei suoi "oligarchi", come Occhetto chiamava i vari Garavini, Cossutta, etc.
Con il senno di poi si potrebbe addirittura pensare che, forse, non fecero bene i "riformisti" ad attivare in misura eccessiva il loro senso di responsabilità e a comportarsi troppo da gentiluomini. Questo dubbio muove dalla constatazione che gli attuali, drammatici problemi con i quali sono oggi alle prese tanto Botteghe Oscure quanto, più complessivamente, la Sinistra derivano in non trascurabile dimensione proprio dalla scelta «azionista» di Achille Occhetto e dal suo essere «azionista» fino al midollo dopo essere stato un mucchio di altre cose.
Per esempio, l'attacco massiccio da lui mosso al PSI proprio in chiave "azionistica" -tranne un periodo di ampia e forte intesa di Ugo La Malfa con Pietro Nenni, l'azionismo è stato sempre un avversario, non sempre immotivato, del socialismo, delle sue connotazioni ideologiche, delle sue tradizioni, della sua esperienza pratica fin dai tempi del giellismo di Rosselli, del suo saggio "Socialismo Liberale", delle polemiche con "L'Avanti!" diretto da Claudio Treves e con Spertia, ossia Giuseppe Saragat- al fine di annichilirlo e così ereditarne l'elettorato, si è rivelato un boomerang terrificante, perché il popolo del Garofano lungi dal dirottare i consensi suoi verso la Quercia li ha consegnati, a fini punitivi verso il persecutore suo e del suo partito, al Cavaliere Azzurro, magari sperando nella nascita di una corrente di sinistra nell'ambito di "Forza Italia".
Certo, gli amici di Occhetto ci raccontano che il bersaglio dei frombolieri delle Botteghe Oscure non era il PSI, ma il suo gruppo dirigente, in modo particolare Bettino Craxi. Ma, appunto, si tratta di un racconto. Che, fra l'altro, ci induce al sorriso e ai ricordi. Oltre mezzo secolo fa gli alleati angloamericani proclamavano urbi et orbi che non ce l'avevano con l'Italia ma con il fascismo e con Mussolini. Gli italiani si decidessero ad eliminare l'uno e l'altro e, allora, nel clima della recuperata amicizia nonché di una restaurata e ben intesa grandezza sarebbero stati trattati con i guanti e gratificati da una condizione di ineffabile felicità. Poi si sa come andò a finire: resa incondizionata, clausole di armistizio umilianti, la Penisola ancora rasa al suolo dalle fortezze volanti, trattato di pace capestro, colonie e terre metropolitane strappate alla Madrepatria, riparazioni pretese in chiave strozzinesca, Italia retrocessa in serie C.
Ecco, Occhetto si è comportato con il PSI nello spirito di una Yalta partitocratica. E il Del Turco altro non è stato che un Badoglio formato tascabile, un Badoglietto (con la Rosa al posto del Garofano), premiato con un collegio elettorale sicuro per aver liquidato Craxi -cui pure tutto doveva- e consegnato a Botteghe Oscure un simulacro di partito socialista ridotto a proporzioni lillipuziane, eterodiretto dalle stanze e istanze del PDS con la copertura di un gruppetto di Quisling. Cose, queste, che può ben dire chi, come noi, nell'ambito del PSI non solo è stato assolutamente estraneo al craxismo, ma da esso non ha avuto che emarginazioni e persecuzioni per chiara incompatibilità ideologica e politica.
Tutto questo sarebbe stato accettabile se l'exismo comunista avesse deciso di esprimersi come partito socialista (nuovo) eticamente integro, politicamente non logorato, culturalmente adeguato. Invece il segretario della Quercia oltrepassa, inopinatamente, la ovvia scelta socialista per inventarsi un astratto azionismo di massa.
Ancora non abbiamo letto il suo libro, e vivamente speriamo che nelle sue pagine sia reperibile il motivo invero strano di quella opzione. Al momento dobbiamo accontentarci di ciò che ne dice in un'intervista rilasciata a "L'Unità" e raccolta da Alberto Leiss. Vediamo:
Quanto al «partito democratico» il leader della svolta apprezza che Scalfari ricordi quanto si discusse nel partito ancora «comunista» per introdurre quel termine. «Paradossalmente, sia i più affezionati alla parola comunista sia chi guardava all'alleanza con Craxi avrebbero preferito restare più legati alla tradizione socialdemocratica (leggi socialista, N.d.R.). Il gruppo di punta della svolta pensava invece che il crollo dell'Est avrebbe messo in evidenza anche un invecchiamento di quella tradizione». Ma è destinata a cadere quella specificazione: democratico «della Sinistra»? Occhetto insiste sull'esigenza di non chiudersi in un'ottica di partito. «Il futuro della sinistra è di far parte di una più ampia coalizione democratica». Rapidissima chiosa, esposta a mo' di quesito: Quando mai -da che mondo è mondo e politica è politica- il movimento socialista, dappertutto, «si è chiuso, in un'ottica di partito»? E chi ha mai messo in dubbio che -specie in Italia, paese tanto politicamente frastagliato- la sinistra debba essere partecipe di «una più ampia coalizione democratica»?
Ma, ecco il punto, queste operazioni vanno poste in essere da una forza autenticamente socialista per venire in evidenza come valide e vitali. E, d'altra parte, è mai immaginabile una democrazia se amputata della sua componente socialista, ossia innervata sulle tradizioni del movimento operaio, sullo spirito di classe, congiunti all'ispirazione popolare/nazionale, sulla rappresentanza piena degli interessi e degli ideali proletari? No, naturalmente. Eppure Achille Occhetto se l'è immaginata e, disgraziatamente, l'ha realizzata. Così ha kyllerrato due grandi partiti storici della Sinistra, il PCI e il PSI, nella pretesa o nella illusione di sostituirli con il "Nulla d'Oro", ovvero l'azionismo in versione di massa. E allora cerchi di farsi perdonare dal buon Dio, perché noi ben difficilmente lo grazieremo.
Così come non lo assolveremo dal peccato di aver regalato a Gianfranco Fini, detto anche Gianfranco Fininvest, la bellezza di cinque milioni e mezzo di voti, o giù di li. Diciamo, anzi, più moderatamente -«Tutto ciò che è esagerato è irrilevante», insegnava il cinico ma profondo Talleyrand-, che ha sostanziosamente arrotondato il patrimonio elettorale della Fiamma ormai languente non perché la Sinistra ha deciso di spegnerla ma perché tanto ha deciso il gruppo dirigente arroccato intorno all'asse Marino- Arcore. Come ha fatto ad arrotondarlo? Presto detto: con il settarismo tipicamente azionista, notoriamente estraneo alla costruttività e creatività sia delle culture espresse dal movimento operaio, sia dalle tradizioni nazional/popolari della sinistra di radice risorgimentale.
L'Occhetto, cioè, ossessionato dalla foia di un'altra sua fissazione, la famosa "discontinuità", dal primo all'ultimo minuto della sua gestione pose in non cale il legato tutto "togliattiano" del dialogo, del confronto, possibilmente, addirittura, del rapporto sinergico, con le masse e i singoli della vicenda fascista. E, conseguentemente, della comprensione verso la loro esperienza e i suoi vari aspetti, soprattutto quelli «sociali». Insomma, si è rivolto al mondo del post-fascismo soltanto ed esclusivamente per ringhiare, per sparare nel mucchio, per fare della pura e impura agitazione, per non lasciare altra via, a chi era felicemente dominato da franche ansie sociali, che la sottomissione al liberal- conservatorismo finiano e tatarelliano, di pretto stampo reazionario. E ciò mentre il Cavaliere Azzurro -ben più intelligente, astuto e lungimirante di lui- capiva che la trasformazione del neo-fascismo in post-fascismo, lungi dall'essere così irrilevante, segnava un passaggio d'epoca e poneva problemi nuovi. Egli, pertanto, batteva sul tempo, sui tempi, una Sinistra ancora prigioniera dell'infecondo e recriminatorio moralismo azionista; una Sinistra parolaia, imbecille e suicida, perennemente in ritardo con gli appuntamenti vuoi della storia vuoi della cronaca, quando non, perfino, dimentica di essi.
Ma di tutti coloro che, al summit di essa, niente o poco hanno capito del problema prima del fascismo, poi del neo-fascismo, e, ora del post-fascismo, il più inescusabile di tutti è proprio l'Akèl, perché la liquidazione del révanchismo nostalgistico missino, pervenuto a dimensioni di massa a cagione della crisi del sistema che offriva una eccezionale occasione d'intervento e di espansione e non la voluta e saputa cogliere. Gli sarebbe bastato recuperare la tradizione «dialogica» del PCI, -risalente agli anni Trenta, vale a dire al celeberrimo appello «ai fratelli in camicia nera»- rimodernarla, potarne i limiti «perdonistici», ripulirla dei prudenzialismi tipici dell'era della guerra civile e di quella post-bellica, approfondire aspetti ed elementi della cooperazione nella pari dignità, studiarne le convergenze concrete nel rispetto delle pur superate identità, e delle non completamente analizzate e valutate tradizioni. Tenendo presente, soprattutto, che i cennati limiti e prudenzialismi furono successivi allo scontro armato del '43/'45, perché anzi, negli anni Trenta a prevalere furono le audacie, le spregiudicatezze, le scorribande nel proibito, nel «sopra le righe».
Oggi l'inquilino di Botteghe Oscure è Massimo D'Alema. Molti, tanti, troppi, sono da sempre prevenuti nei confronti dell'«apparatista» D'Alema, del «gelido funzionario» D'Alema, del «togliattiano» D'Alema. Non noi, a vero dire, usi a stare appresso non a questo o quello ufficio voci, ma ad attenerci ai fatti, alle cose, ai comportamenti. Ovviamente non conosciamo Occhetto (con il quale solo occasionalmente ci capitò, nel remoto '66, di fare un dibattito a più voci partitiche in un teatro di Ravenna), così non abbiamo la benché minima dimestichezza con D'Alema (nel 1978, lo incontrammo per intervistarlo in via Della Vite, sede della Federazione Giovanile Comunista di cui era segretario, per conto del settimanale delle ACLI "Azione Sociale"), che però ci dà, ad occhio e croce, maggiore fiducia, perché privo, ci sembra, di quelle caratteristiche negative che ci rendono insopportabile l'Akèl: settarismo, aggressività, disprezzo per le tradizioni del suo partito (le cosiddette "discontinuità"), disumanità (vedere come trattò Natta, di cui pure era il pupillo), troppa facilità nel cambiare posizione e nello "scaricare" i compagni di cordata (è stato trotskista, ingraiano, sessantottino, berlingueriano, nattiano e vattelapesca cos'altro prima di diventare azionista ormai non più ...di maggioranza), propensione (attualissima) a spaccare in due il partito in un momento di grandi difficoltà pur di vendicarsi del successore e di effettuare il recupero di almeno una parte del potere.
Naturalmente giudicheremo -per quello che vale il nostro giudizio- il lavoro del nuovo segretario nella speranza che si tratti di un segretario nuovo, che non ripeta gli stessi errori di chi lo ha preceduto sul soglio di Botteghe Oscure.

Enrico Landolfi

 

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