da "AURORA" n° 21 (Ottobre - Dicembre 1994)

L'ANALISI

A proposito di schieramenti

Alberto Ostidich

«O di qua o di là». Ricordate? Era il titolo di una (sfortunata) trasmissione condotta in periodo elettorale dalla ineffabile Pia Luisa Bianco, ex-direttrice de "l'Indipendente".
La qual giornalista e conduttrice -sebbene poco confortata, a suo tempo, dagli indici di ascolto- dev'essere recentemente tornata in auge. Almeno nella cerchia dei nostri conoscenti, a giudicare dal numero e dai contenuti delle lettere e dei messaggi pervenuti in questi giorni ad "Aurora".
Molti di questi amici ed interlocutori -è bene dirlo subito- sono, sull'argomento, alquanto critici. Ci si lamenta, nei nostri confronti, di non saper lanciare segnali esterni; di muoverci nel limbo delle buone intenzioni; di voler restare politicamente «fra coloro che stanno sospesi». Nel mentre le urgenze-emergenze del tempo presente esigono, a loro dire, prese di posizione quantomai nette e decise; nonché il sapersi prontamente spostarsi ed adeguare.
Da una parte e dall'altra, appunto.
A questo genere di sollecitazioni, Luigi Costa, già ha replicato sullo scorso numero di "Aurora". Argomentando che il nostro progetto, la nostra «via», le nostre scelte di fondo sono finalisticamente alternative sia alla destra liberalborghese che alla sinistra c.d. progressista. Senza che ciò per noi significhi -in questa fase di caotico agitarsi di iniziative che vedono protagonista il «vuoto» di opposizione- mantenere la neutralità o l'equidistanza.
Insomma il fatto che la Sinistra Nazionale stenti a riconoscersi nella vacuità della Sinistra Ufficiale (e tantomeno nel nullismo della Destra Nazionale & Istituzionale), non comporta una volontà d'estraneazione dalle logiche della politique d'adord. E nemmeno l'esser tentati da misticheggianti fughe dal mondo, o da più prosaiche ricerche del buen retiro.
In aggiunta a quanto sopra può seguire un breve, piccolo episodio. Corredato dalle consuete note d'informazione ed uso.

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L'antefatto. Blackpool è la località del Lancashire dove tradizionalmente si svolgono i meetings labouristi. Ciò sin dal 1906, anno a cui risale la nascita del Labour Party, allorquando -a coronamento di una lunga azione promozionale delle Trade Unions, i sindacati d'Oltremanica- vari soggetti politico-sindacali (Fabian Society, Social Democratic Federation, Indipendent Labour Party, ed altri, tutti di ispirazione socialista non-marxista) unirono le proprie forze e diedero vita ad un unico partito. Scopo dichiarato dalla nuova formazione federativa: riuscire ad ottenere una rappresentanza parlamentare in grado di promuovere una legislazione sociale più favorevole per le miserrime condizioni del proletariato di allora. E, da allora, la storia del labourismo è andata costruendosi e ricostruendosi in base alla difesa dei diritti del lavoro, alla lotta al latifondo, alle campagne antibelliciste, e così via. Una storia di luci ed ombre, com'è ovvio. Sino al congresso di quest'anno che, svoltosi nella prima decade di ottobre, avrebbe dovuto segnare «la svolta» in senso moderato.

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Il fatto. Smentendo le previsioni della vigilia, Tony Blair, l'elegante e telegenico leader dei labouristi, non ce l'ha fatta. L'obiettivo era di eliminare dallo statuto del partito una vecchia norma risalente al 1919, dove si sostenevano i principî della proprietà pubblica dei mezzi di produzione e della nazionalizzazione nei settori chiave dell'economia britannica. Ai contestatori «antimodernizzatori» (guidati da Arthur Scargill, il celebre minatore gallese che tenne in scacco per un anno la Thatcher) quella richiesta di abolire una delle enunciazioni fondamentali sull'impegno a favore della classe operaia, non era affatto piaciuta. Come non era piaciuto l'impianto complessivo su cui costruire il neo-labourismo. A cominciare dallo stile yuppie dei nuovi dirigenti pro-Blair. Con quel loro look tanto simile agli «avversari». Dal cui partito -il Conservatore- più non si distinguevano per una specifica concezione dell'economia, della famiglia, della società, e che si erano uniti al coro di riprovazioni «moderate» della destra inglese, quando un congressista «di sinistra» aveva lanciato dal podio la sfida che bisogna «essere duri contro il capitalismo e contro le cause del capitalismo». Messo dunque ai voti, l'emendamento di Blair non era passato: 51% i contrari. «La svolta» si è al momento arrestata.
(P.S. Grazie all'ingombrante presenza dei «dinosauri del socialismo» e alla loro «obsolenza» in materia di questioni di principio, il Mercato, può attendere. Almeno dalle parti di Blackpool: tiriamo un sospiro di sollievo!...)

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Il commento, quello vero e proprio, lo affidiamo a «L'Unità» di venerdì 7 ottobre. La quale Unità a sua volta l'affida alla penna di Occhetto (v. «La durezza del cambiamento», pp. 1 e 2). Nell'articolo dello spuntato sponsor di Veltroni si può leggere di «un leader coraggioso (Tony Blair - N.d.R.)» che è stato «purtroppo messo in difficoltà» mentre voleva «disegnare la nuova cornice intellettuale e politica entro cui operare». E il nostro Achille, fresco reduce dal pellegrinaggio alla City non può fare a meno di denunciare «il ritardo culturale» dei labouristi britannici, i quali «sono ancora molto indietro rispetto alle acquisizioni della nostra svolta (: quella del PCI-PDS - N.d.R.)», e che quel «brutto voto» dovrà «insegnare a tutta la sinistra europea ad impegnarsi più a fondo per superare i vecchi schemi». «Non è infatti con un vetero-radicalismo -insorge il pennuto- che si prepara l'alternativa»... E via di questo passo.

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L'integrazione. Lo stesso 7 ottobre il «giornale fondato da Antonio Gramsci» pubblica a pagina (?) un'ampia intervista al sociologo di casa Renato Munnheímer, dalla quale risulta -in base ad accurate analisi statistiche- che Berlusconi ed il suo «Polo», nonostante le gaffes governative, la rapina delle pensioni, la borsa calante e la disoccupazione crescente, l'occupazione manu militari delle TV ecc. ecc., continua a mantenere complessivamente un alto quoziente elettorale. Il consenso pare, invero, più tiepido, ma i numeri restano quelli ...

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La postfazione (o quasi-conclusione). Di fronte ad una Sinistra siffatta, sempre più allo sbando, ma fermamente decisa ad allinearsi e a svendere al più presto il proprio patrimonio storico ed ideale (fatto, si, di tanti errori-orrori, ma anche -e sicuramente- di oneri e onori) ci si può meravigliare se la gente non ha fiducia nel «ri-cambiamento»?! Se non crede più alla possibilità di una reale alternativa al rampantismo di destra?! O meglio: se non crede vera alternativa quella offerta sul mercato da Occhetto & Company?! 
E, d'altro canto, ci si può meravigliare che noi, nel nostro piccolo, ci rifiutiamo l'aggregazione coatta a «questa» Sinistra a fedele servizio di S. M. il Capitale?

 

Alberto Ostidich

 

 

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