da "AURORA" n° 21 (Ottobre - Dicembre 1994)

IL DIBATTITO

Anarco-capitalismo:
essenza del capitalismo

Francesco Moricca

Nell'editoriale di "Aurora" (n° 6/7 agosto '94), intitolato «Consenso virtuale e poteri forti», Costa enuclea una questione decisiva nell'attuale momento storico; quella che riguarda il rapporto fra il Governo Berlusconi e ciò che comincio col designare col termine generico di «capitalismo internazionale». Lo adotto perché, come lo stesso Costa ci pare lasci intendere, le correnti concezioni sul mondialismo sembrano oggi in qualche modo insufficienti. Cosa sia il mondialismo e come funzioni è acquisito. Quello che è invece poco chiaro è il suo atteggiamento nei confronti del "berlusconismo". Che è quanto dire che, per ora, non si sa bene quale strategia e quale tattica adottare, sia contro il mondialismo che contro il berlusconismo, che non sia quella già sperimentata dai partiti di sinistra e della cui efficacia è ormai lecito dubitare.
Costa si rende conto che una strategia e una tattica efficaci all'azione politica dipendono dalla conoscenza il più possibile esatta delle ragioni della crisi attuale del mondialismo. Il suo editoriale è un invito alla riflessione ed a un contributo critico.
Per cominciare, egli fa riferimento ad un saggio apparso nel numero di "Aurora" (ottobre-dicembre '91) e intitolato «La congiura mondialista», di cui riporta un brano abbastanza lungo e che sarebbe il caso di ripubblicare in versione integrale, essendo indispensabile a quanti in futuro volessero intervenire esprimendo le proprie vedute sulla problematica dell'editoriale.
Nel brano nominato si parla dell'«anarco-capitalismo» dei Nuovi Economisti, cioè i divulgatori europei della cosiddetta Scuola di Chicago di Milton e David Friedmann. Ciò allo scopo di assumere l'anarco-capitalismo come categoria economica di una generale «Weltanschauung» di cui il mondialismo costituisce propriamente la strategia geopolitica. Per i Nuovi Economisti «il Capitalismo (...) non è stato ancora veramente applicato» perché il concetto di Mercato «non si è imposto a sufficienza nel pensiero sociale contemporaneo ed i valori economici non predominano ancora abbastanza in seno alla società contemporanea», da ciò l'istanza dei Nuovi Economisti di riportare il capitalismo alle sue origini classiche, al liberismo anarchico del "laissez faire"; e l'istanza collegata di estendere le categorie economiche alla comprensione di qualsiasi attività umana, allo scopo di agire su tutti i processi inerenti alla vita sociale, nella convinzione di poterli predeterminare nella direzione voluta dal Mercato.
Per spiegare l'insufficiente applicazione del capitalismo lamentata dai Nuovi Economisti, Costa introduce il concetto di «capitalismo dal volto umano» o «capitalismo ecumenico», che «si è dotato di raffinati strumenti per controllare le periodiche turbolenze economiche e che ha contribuito in modo determinante alla realizzazione di questa società di produttori-consumatori nella quale è consentito a larga parte di individui di partecipare al banchetto». Epperò solo nei Paesi industrializzati.
Costa sostiene a ragione che l'allontanamento dal capitalismo classico ha avuto motivi più politici che non strettamente economici, perché il capitalismo ha dovuto fare i conti con l'organizzazione dei lavoratori, col fascismo ed il comunismo. Venuta meno «la minaccia politica», con l'evento di Gorbaciov e la successiva disintegrazione dell'Impero sovietico, le idee dei "Chicago Boys" non potevano non ritornare prepotentemente d'attualità. Sicché, mentre prima il capitalismo classico veniva applicato solo nei Paesi del Terzo Mondo, ora lo si poteva benissimo applicare anche all'interno dei Paesi industrializzati. Banco di prova dell'anarco-capitalismo fu il Cile di Pinochet dove si riuscì a ridurre il 60% della popolazione al di sotto dei livelli di sussistenza.
Costa sottolinea la straordinaria consonanza del liberismo berlusconiano con quello propugnato dalla "Scuola di Chicago", e vede in Berlusconi l'esponente di punta dei Nuovi Economisti.
Tuttavia, nell'esordio del suo editoriale, Costa aveva riconosciuto l'eccessiva faziosità nei confronti del Governo da parte della stampa nazionale controllata dalle grandi famiglie dei Cuccia, Agnelli, De Benedetti, esponenti nazionali del capitalismo ecumenico.
Alla quale faziosità -è il caso di aggiungere- bisogna accostare quella molto più significativa della stampa internazionale più autorevole.
Si è obbligati a concludere che il capitalismo ecumenico è contro Berlusconi perché è contro l'anarco-capitalismo; ovvero, che nella lotta sacrosanta contro l'anarco-capitalismo occorre sostenere il «capitalismo dal volto umano». Affiancarsi, in definitiva, alla sinistra progressista, sia pure obtorto collo.
Questo disagio io ho percepito nell'editoriale di Costa, e neanche leggendolo "fra le righe", o addirittura "sopra le righe", attribuendo a lui il fastidio e le preoccupazioni che sono in me.
Viene spontaneo chiedersi a questo punto: com'è possibile che l'anarco-capitalismo non sia ben accetto al capitalismo ecumenico, visto che l'«esperimento» cileno fu avviato, permesso e incoraggiato di fatto dal capitalismo ecumenico, quando esso era vangelo indiscusso, molto prima del crollo del comunismo? Perché dovrebbe essere pericoloso oggi, senza il comunismo, quello che non lo era ieri, quando il comunismo, ai tempi del golpe di Pinochet, era fortissimo e più che mai minaccioso?
A me pare che l'anarco-capitalismo è la vocazione del capitalismo in quanto tale, nella sua essenza metafisica e metastorica che corrisponde appunto alla sua forma "classica". In mancanza di ostacoli materiali e storici, considerato indipendentemente dalle sue concrete e limitate realizzazioni contingenti, il capitalismo tende come per inerzia a riaffermarsi per quello che era ai suoi primordi. I "Chicago Boys", per dirla alla maniera di Hegel, rappresentano quasi l'«autocoscienza» dello «spirito assoluto» del capitalismo, nonostante, in apparenza, la loro ideologia possa apparire così distante non solo dalla «filosofia» ma da qualsiasi residuo di spiritualità che non sia la quintessenza del diabolico. Al riguardo, «La congiura mondialista» è illuminante.
Le questioni poste dall'editoriale di Costa possono chiarirsi meglio introducendo nel contesto dell'analisi il concetto di «capitalismo internazionale» di cui si diceva all'inizio. Nella sua omnicomprensiva generalità esso rende bene l'essenza del capitalismo, specie nella fase dialettica dell'imperialismo da cui storicamente conviene partire per una ricognizione sull'immediata contemporaneità. Nell'ambito di questa fase dialettica il capitalismo classico, attraverso le prove che ha dovuto sostenere e gli aggiustamenti a cui è stato sottoposto negli anni Trenta a causa della "Grande Crisi", ha finito col pervenire alla forma attuale di capitalismo ecumenico, nella quale, in concomitanza con l'attuale crisi che per dimensioni richiama quella degli anni Trenta, continua ad imporsi nella speranza di venirne a capo come in passato. Come categoria generale, il concetto di capitalismo internazionale ha un'estensività tale da inglobare anche l'età precedente quella dell'imperialismo, e altresì la successiva che va oltre la contemporaneità e che solo l'ottimismo borghese può definire «post-capitalista».
Il concetto di «capitalismo internazionale» pone in evidenza quanto segue in dettaglio:
a) il capitalismo si può identificare "ab ovo" con l'anarco-capitalismo e in un senso del tutto metafisico e metastorico;
b) il capitalismo ecumenico è una deviazione storicamente obbligata del capitalismo classico, e risulta essere ormai superato poiché sono venuti meno gli ostacoli che lo generano;
c) il «capitalismo internazionale» è logicamente l'opposto del «capitalismo nazionale»: il che equivale a sostenere che le contraddizioni del capitalismo in quanto tale si "incrocia" teoricamente e pragmaticamente (politicamente) con l'«opposizione» costituita da un ipotetico «capitalismo nazionale».
Oggi non esiste affatto né mai è esistito un capitalismo nazionale. Ma esiste, come già è esistita, la sua possibilità.
L'aspetto inusitato del berlusconismo va colto in relazione a questa possibilità, e deriva dall'essere, il berlusconismo, un paradosso per non dire il paradosso del capitalismo.
Si è visto che Berlusconi è l'allievo europeo dei "Chicago Boys". Lo è tanto -ricordiamolo- che Milton Friedmann fu l'unico fra gli autorevoli economisti a plaudire al suo Esecutivo, in particolare, e non a caso, alla nomina di Antonio Martino al dicastero degli Esteri, nomina il cui gradimento deve avere -come vedremo in seguito- un qualche legame non estrinseco con l'apprezzamento di recente espresso da un politico del calibro di Henry Kissinger nei confronti del governo Berlusconi.
L'ostilità verso quest'ultimo da parte dei referenti nazionali e internazionali del capitalismo ecumenico -ostilità che sembra ripugnare a ogni logica- potrebbe spiegarsi, a questo punto, non solo con l'inerzia di una visione egemone che non vede la sua attuale incapacità a gestire il nuovo equilibrio mondiale in assenza dell'antagonista sovietico; ma anche, e soprattutto, col fatto che il capitalismo, per realizzarsi nella sua essenza originaria di Religione del Mercato universale, deve ormai riconoscere le autonomie dei capitalismi locali. Il che non significa certamente nazionali, né deve significarlo, perché il capitalismo è internazionale o non è. Ma significa piuttosto che l'autonomia politica dei localismi (donde la martellante apologia del federalismo da parte dei «liberisti puri») è una necessità interna della legge di Mercato, un corollario imprescindibile della libertà economica degli individui come degli «aggregati di individui», che nell'ottica anarco-capitalista sarebbero sia gli Stati che le Nazioni. Questo il capitalismo ecumenico da un lato lo ammette -in quanto corrispondente alle leggi di conservazione e sviluppo del Sistema- ma nello stesso tempo lo nega -perché in contraddizione con la dimensione internazionale che il Sistema deve garantirsi e con le strategie mondialiste che all'uopo sono impiegate accompagnandosi con le tattiche di un filantropismo «coinvolgente» nei Paesi industrializzati (questa la vera ragione del filantropismo che caratterizza il capitalismo ecumenico e che a torto suscita tante speranze)-. Tutte le differenze esistenti fra capitalismo ecumenico e anarco-capitalismo si riducono alla contraddizione interna del capitalismo, che è ben altra cosa dalla sue contingenti «contraddizioni interne» e che dà la vera misura della crisi attuale del capitalismo; una contraddizione che esisteva fin dalle origini (di cui sembra essersi reso conto lo stesso Adam Smith), che solo oggi, tuttavia, si è mostrata chiaramente visibile col crollo del Muro di Berlino. Questa contraddizione interna del capitalismo si evidenzia solo introducendo il concetto di «capitalismo internazionale» nel contesto dell'analisi: in una parola, sostituendo il termine «ecumenico», riferito al capitalismo, col termine «internazionale».
La Scuola di Chicago non ha fatto altro -e non è poco- che prendere atto di questa contraddizione del capitalismo. Essa ritiene che se il capitalismo vuole sopravvivere, deve rinunciare al suo «ecumenismo», in qualche modo alla sua internazionalità. Poco importa se così facendo si rischia il suicidio, perché, se così non si facesse il suicidio sarebbe certo. Se è stato possibile superare la «lotta di classe» all'interno dei Paesi industrializzati, non è più possibile superarla quando ai proletari vengono a sostituirsi le masse sterminate del Terzo Mondo. Ergo, occorre ripetere l'esperimento cileno su scala planetaria, "terzomondizzare" le masse dei Paesi industrializzati cancellando ogni differenziazione sociale e accentrando tutto il potere reale nelle mani della sola borghesia che conta: quella finanziaria.
Un aspetto positivo che va evidenziato in questo processo di proletarizzazione generalizzata della popolazione dei Paesi industrializzati, è che da un lato avrà una funzione moralizzatrice a fronte delle consuetudini consumistiche alienanti che sembrano esservisi ormai definitivamente consolidate, dall'altro contrasterà le pulsioni razzistiche verso gli extracomunitari, mettendo a nudo l'incongruenza di quella che per ora, e solo per l'esigua minoranza dei più avveduti, si configura come «una guerra fra poveri».
Il che è un altro modo in cui si deve prospettare la nominata «contraddizione interna del capitalismo» in un futuro anche abbastanza prossimo, con tutto ciò che ne deriva in funzione di tattica e strategia politica.
Tornando sulla già menzionata concordanza di Milton Friedmann ed Henry Kissinger nell'apprezzare il governo Berlusconi, non mi sembra azzardato scorgervi a monte le proiezioni della strategia con cui l'anarco-capitalismo cerca di venire a capo delle aporie del capitalismo ecumenico.
Un suggerimento a tale fine potrebbe venire dall'esperienza politica dello stesso Kissinger. Quando era Segretario di Stato e arbitro dei destini del mondo, egli decise di introdurre nel confronto bipolare USA-URSS un terzo elemento, la Cina, non solo per alleggerire l'impegno politico-economico degli Stati Uniti e soddisfare in qualche modo la vocazione isolazionista di questi ultimi, ma anche per aprire un nuovo immenso mercato nell'area del Pacifico, e neutralizzare altresì politicamente la presenza del Giappone. Si trattò di una mossa di straordinaria efficacia che fu determinante nel provocare il crollo dell'Impero sovietico.
La ripresa di una tale strategia, coi dovuti aggiustamenti, è scelta obbligata e perfettamente funzionale agli interessi dell'anarco-capitalismo.
Si tratterebbe, cioè, di sostituire al tripolarismo kissingeriano un pluripolarismo, con la creazione di un certo numero di potenze, in luogo della sola Cina, che da un lato cooperassero con gli USA nel fronteggiare le spinte eversive dell'Islam e del Terzo Mondo, dall'altro garantissero lo sviluppo del neo-liberismo su scala mondiale.
Ciò però, come già accadde con la Cina, riconoscendo a ciascuna delle potenze del sistema pluripolare un'autonomia politico-economica non fittizia sebbene non al punto di operare scelte in contrasto con lo spirito del capitalismo.
Una di queste potenze, che avrebbe la duplice importantissima funzione di avamposto mediterraneo dello schieramento antislamico e di elemento equilibratore dell'asse Parigi-Berlino nell'Europa continentale, è l'Italia.
Così le simpatie di Friedmann e Kissinger per il nostro Paese e per il suo attuale governo -simpatie "isolate" ma non per questo meno notevoli- possono avere la loro logica spiegazione; come, per un altro verso, le "antipatie" del capitalismo ecumenico. E una spiegazione tale da fugare -mi sembra- le illusioni che ancora si nutrono al suo riguardo. Che poi l'opposizione del capitalismo ecumenico verso l'anarco-capitalismo sia del tutto speciosa (e comunque da ridursi correttamente al solo piano metafisico della «contraddizione interna del capitalismo»), lo dimostra un articolo apparso nelle pagine del "Corsera" (5/9/1994), dal titolo «Alla City fa freddo per Silvio». Ad onta del titolo, vi si sostengono giudizi non del tutto negativi nei confronti di Berlusconi, e sulla base di ciò che si dice non in Italia ma a Londra. E si sa che il "Corsera" è favorevole al capitalismo ecumenico e nemico giurato dell'anarco-capitalismo.
Atteso quanto precede, si può ritornare sulla questione del «capitalismo nazionale» e sulla possibilità di realizzarlo sulla base delle nuove condizioni createsi con l'affermazione dell'anarco-capitalismo.
Abbiamo già definito il capitalismo nazionale come puro antitesi logico di quello internazionale. È da vedere adesso come lo si debba intendere in particolare e in concreto.
Esso è in definitiva l'economia socializzata: l'economia di impresa, non quella finanziaria della partecipazione di tutti i «cittadini alle attività speculative», che ci viene proposta anche dal capitalismo ecumenico. Ciò è chiaro. 
Non è altrettanto chiaro -per cui giova precisarlo- cosa sia il corporativismo, in cui veramente consiste non già il "superamento" ma l'annientamento del capitalismo.
Basti qui ricordare che il corporativismo non si prefigge affatto di realizzare una società di borghesi più o meno benestanti. Si prefigge, invece, una società differenziata e gerarchizzata, dove esiste anche la borghesia, ma in cui i valori supremi, ai quali ciascuno è chiamato ad ispirarsi, non sono quelli della borghesia: una società in cui i beni materiali sono equamente distribuiti in funzione dei bisogni primari piuttosto che di quelli voluttuari, in cui la suprema potestà appartiene ad una minoranza che ha rinunciato volontariamente alla proprietà di qualsiasi genere, e che non viene eletta «democraticamente», ma investite dal potere per unanime riconoscimento delle sue virtù ("cardinali" e "teologali"), quasi «per acclamazione», o, più precisamente e tecnicamente per «mandato imperativo».
Stabilito che la realizzazione del capitalismo nazionale è obiettivo contingente epperò da perseguirsi nell'immediato, è da dire che essa dipende dall'abilità con cui si sapranno correttamente individuare e sfruttare i margini di manovra che la strategia e la tattica dell'anarco-capitalismo ha già aperto e aprirà in prospettiva, margini che la mia analisi, più o meno condivisibile che sia, mostra comunque con sufficiente chiarezza.
Prima di concludere, è utile aggiungere qualche ulteriore considerazione al fine di rendere più completo possibile il quadro della situazione che abbiamo di fronte, sia sul piano della politica internazionale che su quello della politica nazionale che ci interessa più da vicino.
In primo luogo, bisogna aver presente, e valutare in tutta la sua rilevanza, il ruolo antagonista che la Chiesa cattolica sta svolgendo con grande determinazione contro il mondialismo (si veda, fra l'altro, la decisa posizione assunta dal Vaticano alla Conferenza del Cairo. Azione che è stata altresì caratterizzata da una lungimirante apertura verso l'Islam e che è il risultato non dell'opportunismo politico ma di una strategia da molto tempo perseguita, senza tentennamenti anche se con prudente gradualità).
In secondo luogo, bisogna ben riflettere, con freddezza e senza pregiudizi, su quello che è stato, e che potrebbe essere, al di là delle apparenze e dell'ufficialità delle dichiarazioni pubbliche, il ruolo del Vaticano nel successo elettorale di Alleanza Nazionale, successo che ha avuto senza dubbio una funzione di contenimento nei confronti di Forza Italia, e che pare esser sempre più accentuato stando ai risultati dei sondaggi demoscopici degli ultimi mesi. E ciò va messo in relazione con le vicende del recente Congresso del Partito Popolare.
In terzo luogo, bisognerebbe non lasciarsi troppo impressionare dalle «aperture a sinistra» del segretario Buttiglione o dalla sua tattica «volutamente» ondivaga; non dimenticare che egli è persona di fiducia del Sommo Pontefice, e dotato di una certa abilità politica, nonostante sia pervenuto molto tardi alla politica attiva e con una preparazione essenzialmente teologico-filosofica.
In definitiva, ove queste considerazioni si pongano in relazione con le analisi qui proposte sulla crisi del capitalismo e sulla strategia e tattica dell'anarco-capitalismo, non si possono non trarre precise conclusioni riguardo alla necessità di approfondire il discorso della nostra linea politica, che non bisogna appiattire sulle posizioni della Sinistra progressista, finendo, in un modo o nell'altro, con assecondare l'azione che -come molti fra noi ben sanno- è, perché è sempre stata, funzionale alla conservazione del capitalismo, non solo come sistema economico ma anche come concezione del mondo.
Abbiamo letto nel citato numero di "Aurora" del '91 il bell'editoriale di Beniamino Donnici. Oggi Donnici non appartiene più al Movimento Antagonista. Al Consiglio Regionale Calabrese si è fatto recentemente promotore di un gruppo di centrosinistra (!!!) denominato laburista-federalista (!!!). Ciò, credo, significa qualcosa. Dobbiamo riflettervi. Le preoccupazioni di Costa -se non ho male interpretato lo spirito di «Consenso virtuale e poteri forti»- sono più che giustificate.
Per quanto mi riguarda, non credo che noi si debba cambiare linea politica. Sia ben chiaro. Si tratta soltanto -e non è poca cosa- di sapere con la maggiore chiarezza possibile dove essa conduca. Perché non deve condurci in situazioni che non potremmo essere in grado di controllare. Il Punto cardinale, la Stella Polare della direzione da seguire è con sufficiente chiarezza e precisione indicata nel documento politico-programmatico della Sinistra Nazionale.

Francesco Moricca

 

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