da "AURORA" n° 22 (Gennaio 1995)

IL DIBATTITO

Piccolo capitalismo e grande capitalismo

Giovanni Mariani

Il dibattito che si è aperto su "Aurora" in merito alla natura del capitalismo contemporaneo e che ha visto l'intervento di Francesco Moricca e Luigi Costa esige in qualche modo l'arricchimento con nuove argomentazioni (che, ovviamente, debbono scaturire dalla riflessione di tutti i militanti e lettori che abbiano colto l'importanza di questo argomento) che debbono contribuire alla comprensione del fenomeno in tutte le sue manifestazioni, ossia la dinamica tattica e strategica del piccolo capitalismo e del grande capitalismo.
Considerando quanto detto nei due interventi sopraccitati -che peraltro risultano assai interessanti- è necessario fare da subito un distinguo; pur non condividendo appieno l'analisi di Moricca che tende ad individuare una frattura in seno al capitalismo ecumenico, frattura che sarebbe in procinto di generare pericolose lacerazione, è lecito chiedersi se la diversità del cosiddetto anarco-capitalismo non possa, col tempo, produrre una frattura all'interno del sistema, cioè una "rivoluzione" finalizzata a sostituire le vecchie concezioni basate sul dispotismo industrial-finanziario dell'oligarchia capitalistica con le nuove filosofie liberiste che pongono ai centro la capacità tecnologica della impresa, ridimensionando il ruolo del lavoro umano, andando al di là della logica della domanda e dell'offerta che aveva sinora regolato i mercati.
Per computare meglio questa ipotesi è quantomeno necessario evidenziare le caratteristiche salienti della compagine governativa (la quale, a ragione o torto, rappresenta comunque la «novità» politica, seppure negativa) individuando la dinamica economica e gli itinerari percorsi da ognuna delle tre forze politiche che rappresentano il fulcro numerico e «ideologico» del governo Berlusconi:
a) "Lega Nord": possiamo definirla l'espressione avanzata del piccolo capitalismo che non sempre coincide con le esigenze del capitalismo "nazionale", perché per valide ed evidenti ragioni si può affermare che la concezione liberaldemocratica leghista è legata ad una matrice locale e ad una concezione "regionalistica" fortemente avversa ad ogni sollecitazione "nazionalistica" di capitalismo, che, semmai, viene considerata una minaccia alla «libera iniziativa» delle regioni produttive (ci sarebbe da chiedersi in base a quale ragionamento Bossi abbia deciso di schierarsi con i suoi più acerrimi nemici). L'antistatalismo militante e la decisa vocazione antimonopolista fanno della Lega una forza politica ancorata ad una sorta di «corporativismo localistico» nemico di qualsiasi controllo statale sull'economia;
b) "Alleanza Nazionale": rappresenta la essenza del piccolo capitalismo di stampo nazionalistico ed è fautrice di una nuovo consociativismo economico-politico, proponendosi come l'erede naturale della commistione democristiano-socialista nel pubblico/privato. Un continuismo naturale, visto che Alleanza Nazionale è oggettivamente una formazione politica costruita su vecchie concezioni e vecchi schemi;
c) "Forza Italia": il partito-azienda per eccellenza, compromesso col vecchio consociativismo ma slegato dalle vecchie dinamiche politico-economiche della Prima Repubblica. Possiamo ragionevolmente considerare Forza Italia espressione politica dei ceti sociali del terziario avanzato che finora aveva collaborato fattivamente col sistema consociativo e che si è illuso con Berlusconi di sottrarsi ai ricatti del potere finanziario internazionale. A conti fatti gli interessi economici e politici di Forza Italia sono affini a quelli di Alleanza Nazionale ma contrapposti e conflittuali con quelli della Lega Nord.
Ovviamente, queste tre formazioni politiche si dichiarano liberaldemocratiche, per cui ci pare necessario chiarire che questo termine, fin dai tempi di Giovanni Giolitti, risulta ipersfruttato e male attribuito: di Giovanni Giolitti tutto si può dire tranne che non fosse un liberaldemocratico, ma egli fu, in economia, anche uno statalista feroce; basti ricordare la nazionalizzazione delle Ferrovie (1906) e delle Poste e Telegrafi (1905), ecc.
Le idee economiche e i modelli politici di cui sono portatori Bossi, Fini e Berlusconi sono contrapposti e le risse nella maggioranza governativa sono determinati dall'inconciliabilità di fondo esistenti. Appare chiaro che Alleanza Nazionale, Lega Nord e Forza Italia pur rappresentando interessi in apparenza convergenti del piccolo capitalismo sono fortemente distanti sui modelli economici e istituzionali che dovrebbero plasmare la Seconda Repubblica. Questo lo affermano con una serie di azioni e prese di posizione che non possono non spaventare i custodi dell'ortodossia capitalista internazionale che vedono in questo anarcoide agitarsi del Polo governativo un pericolo per la stabilità politica del nostro Paese.
Non possiamo quindi che ipotizzare per questo governo, minato al suo interno da tante contraddizioni, che un crollo in tempi brevi soprattutto perché la dinamica economica leghista non può essere imbrigliata nella visione "nazionale" di Berlusconi e Fini. La Lega non può comprimere e snaturare la sua vocazione autonomista e localista nemmeno di fronte alla prospettiva di un'affermazione del capitalismo nazionale che pure finirebbe col beneficiare i ceti sociali di riferimento. Solo un arretramento "ideologico" della Lega ed una sua involuzione pragmatica può dunque spianare la strada alla affermazione, seppure transeunte, di una sorta di capitalismo nazionale che si muove su vecchie logiche destrorse e che già in passato aveva tentato di passare all'azione; basti ricordare la Maggioranza Silenziosa, la Destra Nazionale, il piano di "Rinascita Nazionale" del Gran Maestro Gelli (di cui Silvio Berlusconi fu attento "apprendista"), fino a Democrazia Nazionale.
Dunque, nulla altro che un deja vu? In un certo senso, ma comunque non privo d'ostacoli nel suo cammino (almeno in questa fase iniziale) poiché, se da un certo punto di vista, non si può negare ciò che sostiene Luigi Costa in merito all'opposizione sociale nel breve periodo: «(...) Altra cosa, evidentemente è applicare queste ricette in un paese europeo che è stato "attraversato" da ideologie a forte caratterizzazione sociale; socialismo, fascismo, comunismo che hanno profondamente inciso, al di là del loro successivo ridimensionamento, nella psicologia collettiva (...)» è altrettanto vero che nei tempi lunghi il fronte dell'opposizione sociale può essere fortemente ridimensionato e crollare miseramente qualora venga a mancare il supporto logistico dell'informazione di massa.
In pratica, fino a che punto l'opposizione alla liberaldemocrazia di destra può durare?
Indubbiamente l'obiettivo primo della quadriglia governativa resta lo smantellamento dello Stato sociale. Ma la spoliazione dei diritti collettivi rimane solo un fatto economico in quanto nemmeno Forza Italia ha interesse a disintegrare gli apparati statali non remunerativi economicamente e governativamente indispensabili: Difesa, Poste, Servizi Segreti, ecc. Apparati sui quali Alleanza Nazionale ha già da tempo posto gli occhi, insieme alle velleità di controllo degli apparati culturali. Del resto chi meglio del partito di Fini potrebbe tramutare lo Stato in guardiano occhialuto degli interessi del capitalismo? Le simpatie manifestate nel corso degli ultimi decenni verso i militari cileni, turchi e greci, per non parlare delle compromissioni con gli apparati di intelligence nostrani, danno chiare indicazioni su chi è "naturalmente" destinato a gestire la futura Ceka antipopolare.
Ma quali sarebbero gli svantaggi che seguiranno ad un'affermazione totale della liberaldemocrazia di destra?
1) smantellamento della previdenza sociale;
2) disintegrazione della già subordinata efficacia sindacale;
3) controllo totale sui mass media;
4) riassetto della politica estera e riaffermazione e rafforzamento dell'appartenenza atlantica. Con lo scopo di riacquistare lo status di portaerei della Nato proiettata nel mezzo della "marca" mediterranea minacciata dall'integralismo islamico. Nella migliore delle ipotesi, questa "fedeltà" verrebbe ricompensata attraverso la concessione dello "spazio vitale" albanese con lo scopo di serrare nella tenaglia atlantica l'area balcanico-danubiana in fermento.
A riprova di quanto sopra possiamo ricordare la conclamata posizione filo-USA e filo-israeliana assunta da Gianfranco Fini nonché le dichiarazioni rilasciate da Bossi al "Corriere della Sera", lo scorso anno, che inveivano contro la «barbarie musulmana» e definiva gli Stati Uniti «il faro della civiltà occidentale».
Una tale involuzione della politica italiana (con vaste implicazioni geopolitiche) fa rimpiangere la «lucidità» del "mariuolo" Craxi e fa presagire (vista anche la "inconsistenza" oppositoria dei progressisti e la sterzata liberaldemocratica degli ex-comunisti) la scomparsa del concetto stesso di "sinistra" dall'immaginario politico collettivo (e per sinistra intendiamo un'entità politica contrapposta alle degenerazioni del capitalismo) nel giro di un ventennio e al suo posto l'emergere di una sorta di "socialità addomestica" (della quale il PDS si candida ad esserne il contenitore), bene identificata da Giorgio Vitali quando inquadrava al meglio il concetto di «liberismo di massa».
In quanto alla perdurante «egemonia culturale» di questa "sinistra" che, tra le altre cose, si fa carico di rappresentare quella cultura borghese e decadente antinazionale del tutto estranea alla cultura socialista e popolare, è già, in gran parte, inglobata nella cultura capitalista ed utilizzata al meglio nelle strategie di penetrazione del mondialismo quanto e più dello stesso edonismo di massa propagandato da Forza Italia. Al governo attuale basterebbe rimanere in sella per almeno cinque anni per giungere alla disintegrazione dell'opposizione più intelligente, in quanto ad impensierire Fini & Soci non è certo l'antifascismo ma la protesta sociale che seppure ingabbiata dalle centrali sindacali può divenire punto di coagulo del "fronte del rifiuto" al modello americanocentrico.
Questo scenario ovviamente escludendo che la Lega Nord non decida nel frattempo di passare armi e bagagli con D'Alema e Buttiglione cosa che, al di là della cronaca di questi giorni, ci pare piuttosto velleitaria.
Resta comunque il fatto che l'opposizione sociale non può essere lasciata nelle mani di un riformismo sterile come quello incarnato al momento da PDS e progressisti, né il problema può essere risolto con mobilitazioni sindacali che non pongano in discussione il modello sociale liberaldemocratico; la protesta sociale e gli scioperi generali servono a poco, se non sostenuti da un antagonismo economico non esclusivamente protestatario e, anzi, rischiano il fallimento totale sul piano politico.
Un fallimento non molto dissimile da quello che subì il partito socialista italiano tra il '14 e il '22 e che lascerebbe solo ampio spazio a macroscopiche contraddizioni e agli ultimi fuochi di una Sinistra che non riesce a ritrovarsi.
È quindi logico che la compagine governativa attuale rappresenta momentaneamente (a patto che il capitalismo ecumenico non spinga in senso federalista) l'unione del piccolo capitalismo in tutte le sue espressioni; quella nazionale, quella regionale e locale, quella terziaria, finanziaria e tecnologica. Va da se che il progetto di Forza Italia, peraltro sperimentato recentemente nella Slovacchia e nella Repubblica Ceca (e miseramente fallito in Ungheria) sia da considerarsi non tanto come scontro tra due avversari quanto un colpo di coda del piccolo capitalismo desideroso d'affermare la propria autonomia a livello locale e nazionale grazie allo stravolgimento repentino di un assetto politico cinquantennale.
E quanto mai difficile ipotizzare una vera e propria rivolta dei «Voivoda» nazionali e regionali contrapposta ai sovrani ecumenici in termini di successione ed è più ragionevole leggervi il tentativo di manifestare al capitalismo ecumenico subordinante l'autonomia di alcuni segmenti economici nazionali.
Come potrebbe del resto il piccolo capitalismo italiano privo di banche di grande portata, di vere multinazionali e di tutti quegli strumenti atti al ricatto, pensare di scalzare il capitalismo ecumenico? E questo lo si può desumere oggettivamente dal quadro geo-economico europeo il quale dimostra chiaramente come la vittoria del piccolo capitalismo abbia fatto breccia solamente in conseguenza di fattori politici di portata straordinaria.
La vittoria di Forza Italia riflette la caduta della Prima Repubblica quanto l'evento dei vari "Berlusconi dell'Est" coincide con la caduta del socialismo "reale". Che poi il capitalismo ecumenico abbia approfittato di tale situazione per rinnovare i vecchi apparati dirigenti immobili fin dalla guerra fredda è quantomeno palese.
Possiamo affermare che la rivolta dell'anarco-capitalismo o meglio del piccolo capitalismo possa realmente danneggiare anche se in modo del tutto marginale l'immagine del capitalismo illuminato? O forse è più lecito supporre che l'ala dura, reazionaria del piccolo capitalismo possa comunque favorire la marcia del capitalismo planetario? In sostanza il conflitto d'interessi risulta fittizio appunto perché procede nella direzione d'orizzonti separati?
Alla luce di simili sospetti dobbiamo supporre che l'oligarchia planetaria osservi attentamente la "rivoluzione" piccolo capitalista sperando che a conti fatti possa togliere dal fuoco quelle castagne che il moralismo ecumenico del capitalismo di sinistra non potrebbe levare. Perché se crediamo nell'eminente crollo del capitalismo e in particolare del capitalismo ecumenico, allora dobbiamo supporre che la "rivolta" del piccolo capitalismo che Berlusconi & C. incarnano, consapevolmente o meno, dimostra di essere unicamente ciò che Radek definiva: «Cerchi di ferro con i quali la borghesia tenta di consolidare la botte sfasciata del capitalismo». È perciò più logico affermare che il grande capitalismo funga momentaneamente da catalizzatore, accelerando cioè la reazione, senza prendervi parte; lasciando ai "ribelli" ogni responsabilità in caso di sconfitta e nello stesso tempo acquisendo popolarità nei ceti sociali più duramente colpiti dalle politiche antipopolari.
Ebbene quindi rendersi conto che qualsiasi battaglia condotta all'interno dell'arena capitalistica ci vedrebbe comunque spettatori e questo è bene ribadirlo a quanti con atteggiamento bizantino continuano a blaterare di capitalismo «verde», vicino al popolo e utile alla sua elevazione morale ed economica contrapposto ad un capitalismo «azzurro» reazionario (il che non significa non scegliere il «male minore» in ragione di contingenti opportunità politiche).
Non esistono lacerazioni insanabili prodotte dalla contrapposizione dei due capitalismi, ma al contrario ogni conflitto sorto all'interno del capitalismo non può che aumentarne le difese, al pari di un esercito che contrappone i propri soldati nelle esercitazioni militari. Perché, comunque capitalismo nazionale, capitalismo ecumenico, anarco-capitalismo, ecc. rimangono uniti e fratelli nel qual caso si coaguli contro di essi un fronte economico-sociale che intenda realmente subordinare il capitale al lavoro.
Alla luce di ciò risulta evidente che nella migliore delle ipotesi si possa sperare solo nello sganciamento di larghi strati della piccola imprenditoria al fine di coinvolgerli in una battaglia al piccolo e grande capitalismo. Creando quel fronte economico antagonista (del quale si è già parlato su "Aurora") vero obiettivo del lavoro politico svolto dalla Sinistra Nazionale in questi anni.
In conclusione pur ribadendo la priorità assoluta dell'edificazione di un modus vivendi antagonista, che coinvolga tutta la Sinistra, non dobbiamo dimenticare il modus operandi antagonista: quello di un fronte economico-politico socializzato.

Giovanni Mariani

 

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