da "AURORA" n° 22 (Gennaio 1995)

L'INSERTO

 

Omaggio ad Evola

Rosso Cinabro*

Francesco Moricca

 

«La sfera propriamente politica si definisce con valori (...) che la staccano nettamente dall'ordine dell'esistenza naturalistica e vegetativa (...), dell'esistenza pacifica, della pura economia, del benessere fisico; essi rimandano ad una dimensione superiore della vita, ad un ordine diverso di dignità» Evola
Nel ventennale della scomparsa di Julius Evola ci si interroghi sull'attualità della sua opera. Ci si interroghi non per il calcolo politico dell'opportunità di una commemorazione. Ci si interroghi in solitudine, sotto gli occhi del Maestro, come si fosse innanzi a lui, guardandolo dritto negli occhi.
Cosa del suo insegnamento ci serve? La parte "speculativa" o la "politica"? Per quanto una simile distinzione non sia ammissibile in un autore come il nostro, essa ha tuttavia una ben precisa ragione. Sta ad indicare se oggi sia meglio considerare l'aspetto etico e culturale dell'antagonismo, o invece quello operativo in senso lato. A fronte della «schiacciante vittoria della Destra in Italia», è più opportuno agire o rimanere in attesa, limitandosi a ribadire i "Princìpi" e additando quanto la realtà, al presente e al futuro, sia distante dal loro inveramento; e quanto lo sia, in specie, ciò che ci verrà presentato come la loro realizzazione, aggiungendo magari un molto umano, troppo umano «per quanto è stato possibile»? È meglio fare politica, o invece diventare interiormente d'acciaio per dimostrare che qualcosa si può a dispetto di tutto e contro tutto? Non dimostrarlo solo a se stessi, ma agli altri che han bisogno di vedere e toccar con mano.
In questi termini soltanto è legittimo porre la sfida al "pensiero debole". Ormai è chiaro che non può essere il pensiero a restituire vigore al pensiero, ma qualcosa che è prima del pensiero, qualcosa che se non è, non può essere immediatamente spirito, è almeno volontà di esso.

Il punto di partenza dell'itinerario di Evola fu peraltro simile se non addirittura identico, una totale estraneazione al mondo così espressa nella sua autobiografia: «Debbo pochissimo all'ambiente, all'educazione, alla linea del mio sangue. In larga misura, mi sono trovato in contrasto sia con la tradizione predominante in Occidente -il cristianesimo e il cattolicesimo- sia con la civiltà attuale, col mondo moderno democratico e materialista, sia con la cultura e con la mentalità prevalenti nella nazione in cui sono nato, l'Italia, sia, infine, col mio ambiente familiare». Da ciò «una specie di cupio dissolvi, un impulso a disperdersi e a perdersi» che induce il giovane Evola, sospinto dalle prime esperienze culturali nell'ambito del decadentismo e del futurismo verso il paradiso artificiale della droga, a meditare il suicidio come la «soluzione problematica che aveva portato un Weininger e un Michelstaedter alla catastrofe» (cor. J. E.).
Al periodo artistico dell'attività di poeta-pittore-scenografo che si conclude attorno al '23, segue il periodo filosofico e già tendenzialmente politico, segnato dall'«idealismo magico» esposto in opere caratterizzate da una personale utilizzazione dell'idealismo crociano e gentiliano, opere che realizzano una molto originale sintesi di idealismo e fenomenologia, allargando il concetto di «esistenza» oltre il dato bruto della soggettività, in direzione degli ambiti storico e culturale in cui essa viene a cadere e da cui non può essere arbitrariamente avulsa. Il opere come i "Saggi sull'idealismo magico", "L'uomo come potenza", "Teoria e fenomenologia dell'individuo assoluto", questo oggettivo storico-culturale si delinea già come "tradizione", come un quid che non può cogliersi nella sua radice coi metodi della ragione scientifica, ma attraverso un approccio che è dettato dal profondo e viene da lontano, che coinvolge pericolosamente il destino dell'individuo e non solo le sue facoltà conoscitive.
«Come l'arte per me ha avuto un retroscena extra-artistico, così anche la filosofia ne ebbe uno extra-filosofico».
Per il giovane Evola la "tradizione" è dunque il retroscena, un dato assolutamente originario che precede qualsiasi approccio sia emotivo che intellettuale alla realtà in cui -per dirla con Heidegger- «veniamo gettati». Questo "principium" non ha però niente della "cultura", sia intesa come "Kultur" che come "Zivilisation". Non ha niente nemmeno della "religione", sia dal punto di vista confessionale, sia da quello propriamente mistico di una "rivelazione" che proviene dall'esterno e che viene accolta passivamente dall'individuo. È piuttosto l'insieme di tutto ciò che costituisce l'opposto dell'immanenza, e che evoca in negativo l'idea della trascendenza. In tal senso, anche il «male» e l'«errore» rientrano nella trascendenza, appartengono -si potrebbe dire- a Dio. Prima ancora che incontri Guénon, la cui influenza determinerà nell'idea evoliana di "principium" una estensione di campo tale da toccare la sfera propriamente religiosa senza mai, tuttavia, confondersi o dissolversi in essa, è innegabile l'originalità del Nostro rispetto a colui che riterrà sempre il «suo Maestro». Essa consiste in un modo diverso di procedere sulla Via della Reintegrazione, che è contemplativa in Guénon (la Via della Mano Destra) e operativa in Evola (la Via della Mano Sinistra): non proprio "metodologie" diverse, ma espressioni delle due diverse nature del Sacerdote e del Guerriero.
È chiaro, quindi, che quando si parla di originalità in Evola, non se ne parla affatto in termini corretti, quasi si volesse stabilire un «diritto di proprietà delle idee», sia pure solo allo scopo di collocare Evola e Guénon in una «storia della filosofia tradizionale» in cui qualcuno scopre qualcosa che poi un altro riprende, sviluppa, arricchisce e approfondisce. Nell'orizzonte di quella che solo molto impropriamente si può definire "filosofia tradizionale", è impensabile si possa sostenere che la verità si dispieghi nel corso di un processo evolutivo e che di verità si possa parlare a rigore solo «alla fine del processo». Al contrario, la verità è una e immutabile, non dipende dalle facoltà cognitive e "creative" dell'uomo. Per un altro verso, il valore degli autori non si misura col criterio della differenza, ma con quello della concordanza a partire da posizioni diverse, tanto in termini spazio-temporali quanto in termini culturali.

Ora, la "metodologia" del giovane Evola è rigorosamente sperimentale, in un senso quasi identico a quello che il termine "sperimentale" ha presso la scienza moderna e contemporanea. Epperò in Evola ci troviamo di fronte a uno sperimentalismo radicale, ma non nichilistico come quello di un Mach e di un Avenarius; tal che, mentre quest'ultimo fu condannato da un Lenin, quello evoliano sarebbe stato certamente accolto, dal rivoluzionario russo, sia pure con le debite "precisazioni dialettiche". Ne fa fede la "Teoria dell'individuo assoluto" dove sono evidenti le influenze del «casualismo critico» del Tilgher, le quali spiegano non solo le ragioni storico-culturali «di attualità» della critica evoliana dell'idealismo di Croce e Gentile, ma altresì quelle relative alla presa di distanza dalla mitteleuropea filosofia della scienza (ivi incluso il Freud), quel «culturame da Herr Professor» contro cui si ironizza ne "Il cammino del Cinabro", associandolo, non a caso, al «neutralismo di diversi intellettuali borghesi italiani (con Benedetto Croce alla testa)». Quanto al Gentile, in un altro luogo della autobiografia se ne parla come del «bestione trionfante» con allusione all'autore de "Lo spaccio della bestia trionfante", quel Giordano Bruno che tanta parte ebbe nella genesi dell'attualismo. Ma va ricordato che in altri luoghi dell'autobiografia si riconoscono i meriti dei due Maestri dell'idealismo italiano, la «signorilità» del Croce e la «dirittura morale» del Gentile; e va ricordato ancora che Evola conobbe personalmente il Croce che lo ebbe in non poca considerazione, e che collaborò alla stesura di alcune voci di argomento iniziatico per "l'Enciclopedia Italiana" diretta dal Gentile.
La ragione dell'ostilità nei confronti dei massimi esponenti dell'idealismo contemporaneo non ha quindi nulla di personale, ma è da ricercarsi nella critica a cui Evola sottopone tutto l'idealismo; che egli, sulla scorta di Schopenhauer riduce, nella sua essenza ultima e cogliendo nel segno, a «filosofia da professori dei professori di filosofia»; al cui fondo, pero, si celano ben altri e anche inconsapevoli intendimenti, ben altro che ciò che si percepiva di primo acchito come «un mondo di tronfia retorica».
«Repellente era (...), per me, la coesistenza del tipo del piccolo borghese, del docente stipendiato, coniugato e conformista, con la teoria (...) (gentiliana) dell'Io assoluto, libero, creatore del mondo e della storia».
Ciò che si rimprovera a Gentile -e indirettamente al latifondista Croce mutatis mutandis- è di essere il promotore più o meno interessato di una supponente «filosofia della potenza», un filosofia che però si sottrae con accortezza a verifiche sperimentali da intendersi non proprio «in maniera scientifica» (e viene spontaneo pensare che una simile critica può valere per tanti intellettuali marxisti e sedicenti rivoluzionari; più ieri che non di oggi, visto che gli odierni hanno ormai gettato la maschera e perso ogni ritegno...). Ed Evola si rende ben presto conto che nell'ottica della "sophrosyne" idealistica gli studi sulla magia che andava intraprendendo e che lo condurranno, dopo l'incontro con Guénon, alla stesura di "Rivolta contro il mondo moderno", non potevano che essere «superstizioni, residui da tempo superati dal dispiegarsi della consapevolezza critica: modo di vedere, d'altronde, naturale, perché l'illuminismo laico era, malgrado tutto, il (...) fondo mentale» di Croce come di Gentile (cor. J. E.).
Della polemica contro i dioscuri della filosofia italiana, che indusse il Nostro a studiare il tedesco onde essere in grado di leggere direttamente i testi dell'idealismo classico, è importante rilevare, a parte il significato etico-politico, il risvolto epistemologico, la valenza in sede di ciò che suole definirsi «filosofia della scienza». Il superamento dell'idealismo implica infatti il superamento della chiusura nei confronti delle scienze fisico-matematiche che è propria di Croce e Gentile (ma a quest'ultimo va riconosciuto il merito dell'istituzione in Italia di un Liceo Scientifico, e, nell'ultimo periodo della sua riflessione, un approccio non dilettantesco alla scienza e tecnologia). Quanto al Croce e alla sua riduzione della critica letteraria all'indagine solo "estetica" dei fatti artistici, per cui si escludono come inesistenti gli aspetti tecnici dell'espressione poetica, quelli onde v'è analogia sostanziale fra arte e scienza, Evola denunzia «il basso livello di un pensiero puramente discorsivo, che, alla fine, doveva abbandonare il piano dei grandi problemi speculativi per disperdersi nella saggistica, nella critica letteraria e in una storiografia ad orientamento laico-liberale»: un appunto, questo, in linea con le tesi sostenute, non solo contro Croce ma anche contro Lukacs, da Galvano della Volpe nella "Critica del gusto". La competenza di Evola in campo scientifico, e altresì la predisposizione naturale, è provata dagli studi di ingegneria quasi ultimati cui non fece seguito il conseguimento della laurea per «disprezzo dei titoli accademici». Quando nelle sue opere si rende necessario trattare questioni complesse e specialistiche come la teoria della relatività, Evola è di una grande chiarezza e semplicità. La sua cultura non ha nulla di libresco, è completa perché onnilaterale come quella propria a un uomo del Rinascimento. E infatti egli si ispira al modello del mago rinascimentale, anzi a una tradizione assai più antica che va ben oltre l'alchimia medioevale, come attesta la sua ricostruzione della tradizione ermetica nell'omonimo saggio.
Queste appunto sono le linee portanti di quello sperimentalismo radicale di cui si è detto, di quella cultura del fare auspicata da Marx e dai suoi continuatori, che tuttavia si è rivelata essere, alla prova dei fatti, una mitologia più deleteria che inconsistente, essendo approdata alle conclusioni del "pensiero debole", al rinnegamento delle peculiarità rivoluzionarie che sarebbero proprie alla sua matrice razionalistica laica. Al contrario, la evoliana cultura del fare, respingendo il mito illuminista della Raison progressiva, si ricollega al patrimonio ideale della Tradizione che l'illuminismo ha cercato ed è riuscito di fatto a distruggere, mostrando come la scienza moderna non già sia "rivoluzionaria" rispetto all'antica ma invece ne derivi direttamente; epperò secondo una linea involutiva. Il che spiega in via generale non solo la crisi attuale della cultura contemporanea (il cosiddetto "pensiero debole"), ma il disagio esistenziale, extra-culturale, dell'intera umanità.
Ciò che distingue nettamente la figura dello scienziato antico (il Sapiente) da quella dello scienziato moderno (il Tecnico che tale rimane anche quando le sue competenze sono di ordine teoretico epperò specialistico) è il fatto che quest'ultimo è un professionista stipendiato la cui libertà di ricerca e azione è rigidamente condizionata da un "mecenate" o "sponsor". Mentre un quasi assoluto disinteresse e al limite lo spregio di qualsiasi comodità e della stessa propria sopravvivenza fisica caratterizza lo scienziato antico (e ancora un Giordano Bruno che pure va ritenuto il primo fra i moderni); al contrario l'utilitarismo più esasperato, la tendenza congenita al compromesso, la più evidente pusillanimità distinguono lo scienziato contemporaneo, per fare un esempio quanti altri mai significativo, Galileo Galilei. Questa problematica esistenziale dello scienziato contemporaneo è affrontata nell'omonimo "dramma, didattico" di Bertold Brecht, dove viene risolta, alla maniera del rivoluzionarismo marxista-leninista, in funzione di una determinata deontologia dell'«impegno politico», la quale è non meno «alienante» del naturale ed egoistico «disimpegno», in quanto contraddice l'imperativo -né solo metodologico né solo etico- che «occorre seguire la Via ovunque conduca».
Nella prospettiva epistemologica tradizionale, dunque, l'errore non consiste tanto nell'errore come tale, ma piuttosto nell'incoerenza negli errori, in una questione solo apparentemente formale; perché la forma può incidere sulla sostanza e trasmutarla, non con la teoria mediante la teoria, ma con l'azione mediante l'azione. Evola chiarisce l'essenza della concezione del mondo tradizionale contro le aporie del pensiero moderno liberal-marxista, ricorrendo a un "argomento drastico", il seguente:
«Un idealista (in generale una persona coerente coi propri ideali) messo alla tortura dovrebbe giudicare razionale e voluta da lui (dal vero Io) la situazione in cui si trova, perché reale, e dovrebbe considerare come fisima e velleità irrazionale del soggetto empirico, fantoccio dell'immaginazione, la sua rivolta e la sua sofferenza» (cor. J. E.).
Il che è manifestamente impossibile senza una reale trasmutazione interiore senza un "miracolo", esclusi dall'orizzonte "scientifico" in quanto soltanto "superstizioni". Ecco in cosa consiste l'aporia di fondo, l'autoinganno della filosofia moderna, ben più grave e distruttivo negli effetti che il presunto inganno e autoinganno della religione. Nell'autobiografia è detto:
«In un capitolo (...) (de) "Gli Uomini e le rovine", dovevo accusare in particolare l'immoralità di tale dottrina nelle sue implicazioni politiche».

Come è ormai chiaro, il giovane Evola ebbe coscienza molto presto della "debolezza del pensiero", ne ebbe coscienza intuitiva prima che speculativa nel periodo della sua attività artistica in seno alla corrente dadaista. Da questa coscienza ha origine la decisione di assumere particolari sostanze stupefacenti che gli consentano di rappresentare l'universo virtuale della trascendenza nella serie dei quadri intitolati "Paesaggio interiore". In una intervista rilasciata nel '71 ad una rete televisiva franco-svizzera, Evola ebbe a sottolineare la valenza antifuturista di Dada, il suo significato di contestazione globale della «civiltà della macchina e della velocità» servendosi delle stesse tecniche ironico-provocatorie dei futuristi. Questa valenza si esprime in formule di questo tenore: «Prima di noi la blenorragia, dopo il diluvio», «A Dada non piace la Santa Vergine», «Il vero Dada è contro Dada» (la quale ultima rivela di per sé il radicalismo e la serietà di questo movimento in apparenza così poco "serio", alle cui manifestazioni il pubblico si recava «non per interessarsi all'arte, ma per fare baccano, ci si recava (...) con degli ortaggi e delle uova marce»). Dada, dunque, come suicidio dell'arte e più in generale di una cultura, ma necessariamente anche come suicidio dell'artista e dell'intellettuale.
«Porre un limite a questa esperienza e cercare di aprirsi un cammino (...): era ciò che facevo in quel tempo dopo il gravissimo momento di crisi al quale è un miracolo che sia sopravvissuto» (cor. nostro).
La circostanza per cui il giovane Evola sfugge al destino di morte di Weininger e Michelstaedter merita di essere analizzata per il suo risvolto speculativo in ordine alla problematica epistemologica fin qui delineata.
Stando all'autobiografia, fu lo studio del "Tao-Te-Ching" di Lao-Tse a determinare il superamento dell'ossessione suicida. Frutto di questo studio fu "Il libro della Via e della Virtù", un operetta pubblicata nel '23. Vi si sostiene che la metafisica del Tao, il cui carattere più appariscente è «la calma, la trasparenza di un pensiero che non conosce le contaminazioni del sentimento» (cor. nostro), consiste «fuor da ogni misticismo; da ogni fede» nel «processo di un essere che si compie nel realizzare il non-essere» (cor. J. E.). Tal che il mondo, la creazione vengono visti «come un fluire eterno e un eterno produrre generato dall'atto atemporale con cui il Principio si distanzia da sé, si svuota, realizzandosi così in una supersostanzialità (il simbolo del vuoto), substrato, base e senso di ogni esistenza (corporea)» (cor. J. E.), alla stessa maniera -spiega Evola- in cui il mozzo della ruota resta fermo mentre la ruota gira non essendo gravitante ma centro immobile della gravitazione, secondo un immagine pressoché identica che si trova in Aristotele. Se Evola non si suicida, è perché la soppressione della sua esistenza fisica impedirebbe quel distacco, voluto e costruito attraverso un duro processo di ascesi (il «percorrere la Via ovunque conduca»), in cui consiste la realizzazione, la reintegrazione nell'Essere a partire dal non-Essere dell'esistenza corporea, della "natura" in genere. Occorre, in altri termini, spezzare da vivi il vincolo che ci lega alla natura e che agisce in ognuno come istinto di conservazione. Se si riuscisse a farlo totalmente, si conseguirebbe automaticamente l'immortalità. Non intesa in senso più o meno figurato, ma reale, anche come sopravvivenza fisica illimitata. Di ciò esiste una possibilità teorica che si deve tentare ove si creda nel valore della teoria fino in fondo, e non la si utilizzi solo per fini circoscritti, sensati, umani. L'illuminista, il positivista, il marxista-leninista sorridano pure. Ma «l'uomo moderno deve imparare quell'Io che egli ancora non sa che balbettare in quelle informi immagini che sono l'Unico di Stirner o l'uomo delle ideologie sociali di Marx e di Lenin, l'Io assoluto dell'idealismo o il soggetto lirico dell'estetica d'avanguardia (...), il Superuomo del peggior Nietzsche».
Così la coerente applicazione del taoismo, di una «tradizione primordiale» che si ritrova parimenti nel migliore stoicismo ed epicureismo (questo cercare un dolore che non sia "dolore" e un piacere che non sia "piacere", l'idea essenziale del "Ku", del Vuoto taoista), permette di capire l'orientamento etico che induce l'Evola ormai maturo a passeggiare incurante nella Vienna sottoposta ai violenti bombardamenti dell'artiglieria sovietica: onde la lesione al midollo spinale «che a tutta prima sembrò letale ma che poi ebbe per conseguenza la paresi parziale delle estremità inferiori». In una diversa dimensione che non quella estetizzante e al limite esibizionistica di un D'Annunzio, va dunque cercata la spiegazione di questa -non unica- sfida al destino, della «norma, da me già da tempo seguita, di non schivare, anzi di cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la sorte».
In detto interrogare la sorte, nel porre in connessione la categoria logica di «casualità» con la categoria etica di «imperativo autofondantesi», si individua, non kantianamente, il «male radicale» nella discontinuità ontologica propria all'essere della natura. Onde l'annientamento di tale discontinuità, e quindi la reintegrazione nella pienezza dell'Essere, deve passare attraverso l'esperienza del «vuoto», è «fare il vuoto» della propria naturalità mediante una reiterata «sfida al pericolo» e mediante una reiterata «meditazione». Qui va colto un approfondimento e uno sviluppo in direzione altra del «casualismo critico» del Tilgher, che ebbe poi una non marginale influenza sullo stesso Tilgher: l'inserimento, non estrinseco, intellettualistico, di una forte componente volontaristica, in ultima analisi animistica, in quella che gli idealisti chiamavano «filosofia della natura» e che costituisce l'essenza del pensiero magico e della scienza tradizionale; persino, anzi soprattutto, ove la si consideri come «Concezione del mondo», come teologia e religione. Con riferimento al cristianesimo, l'autore che più si avvicina a tale modo di vedere, a parte S. Agostino, sembra essere il Pascal, non a caso anche lui «uomo di scienza» e non filosofo e teologo puro. La teoria pascaliana della fede come «scommessa» è infatti l'equivalente della evoliana «reintegrazione nel divino» mediante la distruzione della natura che viene a, realizzarsi nella «sfida al pericolo», nell'annientamento dell'istinto naturale di conservazione.
Evola, tuttavia, non solo non è cristiano, non è nemmeno teista. Non crede in un «Dio personale», e pertanto esclude ciò che usualmente si intende per «fede». Ma la sua concezione dell'Essere, non risolvendosi in una «filosofia della natura» comunque opposta alla «filosofia dello spirito», è già, almeno tendenzialmente, una teologia. Se l'essere è Uno, Impersonale, Indivisibile (il dogma trinitario pare ad Evola una menomazione della divinità e una sorta di precorrimento della «dialettica triadica» degli idealisti); se l'Individuo Assoluto è qualunque uomo che riesca a sciogliersi da ogni condizionamento dell'esistenza carnale (epperò collegandosi a una Tradizione vivente che può anche essere rappresentata da una confessione religiosa), ne consegue l'esistenza di una pluralità di «divinità personali». Da un punto di vista storico, essi sono le grandi personalità, i creatori di civiltà, i Politici in senso eminente, che possono anche non identificarsi coi politici nell'accezione propria del termine. Da un punto di vista metastorico e anzi metafisico, sono invece gli stati della coscienza che determinano, evocati e controllati dal soggetto in una situazione di «ebbrezza lucida», la sua reintegrazione nell'Essere e l'appropriarsi delle sue prerogative di Potenza, come è detto esplicitamente nel saggio evoliano su Giuliano l'Apostata. In altri luoghi, poi, questi Dei vengono con maggiore precisione identificati con le «emanazioni» della Gnosi neo-platonica e plotiniana.
Questo, in sostanza, il «politeismo» e «neo-paganesimo» di Evola. La formula alchemica dell'«en to pan» («uno è il tutto») -ben altra cosa del panteismo materialistico e pseudo-matematizzante di uno Spinoza- esprime al meglio l'idea di fondo dell'epistemologia evoliana, quella, cioè, di una natura concepita come una immanenza che proviene, come per caduta, dalla trascendenza, e ad essa tende a ritornare; non per propria forza, ma per la forza di alcuni uomini divini, i «conquistatori della Potenza». Il risvolto politico di questa epistemologia emerge chiaramente dal passo seguente della nietzschiana "Volontà di Potenza", citato ne "Gli Uomini e le rovine" e ancora nell'autobiografia:
«I lavoratori dovranno vivere un giorno come vivono i borghesi - ma al di sopra di essi, distinguendosi per una mancanza di bisogni, sarà la casta suprema: più povera, più semplice, ma in possesso della potenza».
La Potenza, vista nel dominio della natura e in ragione della discontinuità che le è propria, è ciò che si situa al di qua e al di là della «forza» e dell'«energia» come concetti della fisica classica e contemporanea, non è se non in quanto viene suscitata per un fine determinato. Solo su questa base si possono, secondo Evola, superare tutte le aporie proprie alla scienza moderna sul piano teorico. D'altra parte essa stessa ha riconosciuto che ogni teoria scientifica è un sistema rigoroso, epperò costruito su presupposti totalmente arbitrari allo scopo di ottenere un fine pratico; e che la sua validità dipende pertanto dal conseguimento di detto fine, non ha al suo interno la sua «ragion sufficiente». Così, per esemplificare, il sistema tolemaico è in sé non meno perfetto di quello copernicano, e, riguardo a un certo tipo di verifiche sperimentali relative all'impatto delle concezioni astronomiche sulla psiche umana, risulta essere addirittura superiore, come ebbe una volta a sostenere contro Galileo il dotto Cardinale Bellarmino. Evola trae le estreme conseguenze dai più recenti portati della ricerca epistemologica. Così per lui, l'epistemologia deve risolversi nella metafisica del sottile, la fisica teorica in una fisica dell'iperfisico. E ciò non è senza significato in termini «soterici», dal punto di vista della «suprema liberazione». Nell'autobiografia è riportato il seguente testo buddhista, che spiega con grande pregnanza il senso delle vedute tradizionali circa la «distruzione della materia», sia sul piano della fisica che sul piano della metafisica.
«Chi prende l'estinzione come estinzione e, presa l'estinzione, pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa mia è l'estinzione, e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione».
Evola commenta: «Fu, per me, una luce improvvisa. Sentii che quell'impulso ad uscire (dalla vita), a dissolvermi, era un vincolo, una ignoranza, opposta alla vera libertà. In quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere ad ogni crisi» (cor. J. E.).
Nuova luce, dunque, sui motivi del superamento dell'ossessione suicida.
La dissoluzione della materia, e il corrispettivo affrancamento dai vincoli del «pricipium individuationis» donde proviene l'«idea» del suicidio, significa la negazione recisa del concetto di «materia» come alcunché di compatto, impenetrabile, continuo, inconoscibile, concetto che sta alla base dell'ipostasi materialista classica e della nozione kantiana di «trascendentale», con la quale questa ipostasi si tenta di superare; epperò senza che ci si riesca del tutto, in quanto la stessa impostazione della "Critica della ragion pura" esclude si possa sul serio risolvere la difficoltà del «noumeno», di quell'«inconoscibile» che altro non è se non la versione «idealistica», intellettualistica, sofisticata della concezione di fondo propria al materialismo; come metterà ben in risalto, dopo Kant, il materialismo radicale e disperato di uno Schopenhauer e di un Nietzsche. «Kant -dice Evola- era partito dalla supposizione di una esperienza umana unica (...), cardine, per lui, di ogni sapere scientifico positivo e universalmente valido. E per spiegare ciò egli risalì alle categorie, alla funzione trascendentale dell'Io alla quale però, per tale via, risultavano trasferiti gli stessi caratteri di necessità e di determinatezza incontrovertibile supposti nell'esperienza. Ebbene, già lo sviluppo della scienza moderna aveva fatto cadere la premessa kantiana: le maglie della necessità supposta nella natura si erano allentate, il Boutroux aveva potuto parlare (...) della contingenza delle leggi di natura, la stessa geometria euclidea era apparsa solo come una delle molte possibili geometrie, con la fisica sub-atomica si doveva giungere fino all'indeterminismo e all'improbabilismo» (cor. nostri).
Omettendo altri argomenti addotti da Evola onde mostrare che la discontinuità della materia e per così dire la sua intima neutralità rende possibile nel campo dell'operare scientifico l'intervento delle energie sottili dell'operatore -come presso l'alchimia fu di fatto realizzato-, è da constatare che il motivo della «debolezza» del pensiero moderno, specie ai giorni nostri, potrebbe quanto meno consistere nel rifiuto degli scienziati, non si sa se determinato da intima convinzione o da altro, di utilizzare integralmente le opportunità offerte dai risultati pratici e teorici della ricerca. E ci riferiamo in particolare alla loro chiusura assoluta nei confronti della dimensione «sottile», qui intendendosi per «sottile» ciò che molto semplicemente si riferisce alla volontà soggettiva dello scienziato di «trasformare il mondo» senza restrizioni di carattere opportunistico, proprio come si pretenderebbe nel "Galileo" brechtiano. Al contrario, le aperture nei confronti del «sottile» e della stessa prospettiva teologica le troviamo, sì, presso alcuni scienziati contemporanei, epperò a un livello del tutto estrinseco per non dire dilettantesco - quasi come un qualcosa di dovuto alla «ingenuità dei profani». È il caso di un Einstein (quanti altri mai significativo), o di un Antonino Zichichi. L'insorgenza del «sottile» nell'ambito scientifico si manifesta ai giorni nostri molto più seriamente, epperò in negativo, come demonia di uno scetticismo radicale a base esclusivamente descrittivo- fenomenica, che in termini teoretici si limita a stendere un referto e a prendere atto giudiziariamente del decesso della scienza (Popper, Vattimo, Cacciari).

A fronte di questa catastrofe, Evola sostiene non solo che tutto ciò che ha prodotto la scienza, anche come tecnicizzazione selvaggia, non è da buttare; ma altresì che se ne deve vedere il lato positivo persino presso le manifestazioni più aberranti. La sua adesione alle filosofie orientali, ben diversamente da quanto si verificherà dal Sessantotto in poi, non è affatto l'equivalente di un atto di resa e di una fuga dalla realtà in nome di un sordido pacifismo «di ritorno». È anzi Evola il primo a denunziare in pieno Sessantotto l'equivoco anche filologico di concepire il buddhismo «alla Schopenhauer», mostrandone invece il carattere guerriero che ne contraddistinse le origine e non fu mai del tutto perduto in seguito. La posizione da assumersi contro l'ambiguità dell'Essere tipica dell'Età Oscura è espressa icasticamente dalla formula «La verità è un errore forte. L'errore una verità debole». Sul piano esistenziale ciò implica una pratica finalizzata all'indurimento dell'Io, per la quale punti di riferimento tradizionali possono essere lo Zen e lo Hata Yoga o Yoga violento, di cui si tratta in opere come "Lo Yoga della Potenza" e "Cavalcare la tigre". Sul terreno più propriamente speculativo e politico, una simile concezione comporta la negazione recisa di ogni positività di ordine metafisico attribuibile tanto alla «natura» quanto all'universo artificiale delle macchine, che per la scienza contemporanea, marxismo compreso, ne sarebbe una sorta di «prolungamento dialettico». 
Ciò appare prendendo in esame la posizione di dissenso che Evola assume nei confronti di un autore a lui molto caro, Ernst Junger, il quale ne "L'Operaio" e ne "Al muro del tempo" aveva individuato la possibilità di una «metafisica non ancora percepita che esisterebbe dietro al mondo della macchina e della tecnica e che alla fine si manifesterà e dominerà. La quale ipotesi può accettarsi solo ove il termine metafisico lo si prenda nel senso letterale di quel che sta di là dal fisico - e allora un sottofondo non fisico potrebbe anche esser concepito come il lato interno del mondo meccanizzato e tecnicizzato, però con un carattere demonico, opposto al metafisico in senso proprio. Sicché, in definitiva, a meno che non si verifichi a livello umano una vera e propria mutazione genetica», l'Operaio di Junger «difficilmente potrebbe differenziarsi perfino da quello che il comunismo può avere come ideale nel quadro di una fondamentale degradazione materialistica e collettivistica dell'uomo» (cor. J. E.).
La negazione assoluta della civiltà delle macchine, di ciò che esse parrebbero, nell'ottica borghese e proletaria, essere condizione dell'affrancamento dalla «fatica del lavoro» e in generale dall'«alienazione naturale e sociale», da un lato comporta la denuncia della illusorietà di un tale preteso affrancamento; dall'altro, che un simile affrancamento, ammesso si realizzasse -e pare oggi quasi realizzato dalla seconda rivoluzione industriale, quella "informatica"- invertirebbe il processo di dissoluzione della materia, dissoluzione che rappresenta invece la conquista positiva della scienza contemporanea nel suo aspetto esclusivamente speculativo. Questo «affrancamento» restituirebbe compattezza, durezza, impenetrabilità alla materia, annullerebbe in concreto la residua barriera naturale costituita dallo spazio-tempo azzerando una volta per sempre i tempi necessari al maturare sia della coscienza propriamente detta che dell'«autocoscienza» intesa come ineliminabile premessa dell'autentica libertà. E per Evola essa non è un'idea astratta e codificabile in formule catechistiche o giuridiche, ma il processo senza fine della liberazione, di un liberarsi concretamente da qualcosa di mai identico a se stesso, la cui «identità», se proprio la si vuole stabilire ad ogni costo, sta nella costanza della differenza.
Sviluppando l'analisi evoliana, ed estendendola alla viva contemporaneità cercando di essere il più possibile realisti, si deve concludere che in regime di usurocrazia la liberazione non può limitarsi sul terreno politico-economico all'ideazione di «economie alternative», da sperimentarsi in «comuni» e a livello circoscritto; e nemmeno, sul terreno dell'etica, alla denuncia degli aspetti distruttivi del consumismo, nonché alla proposizione di «rimedi» che alla fine risultano essere palliativi, come accade presso i movimenti ecologisti di destra e di sinistra. Si deve piuttosto puntare al cuore del sistema che è venuto consolidandosi secondo forme e contenuti «demonici». Occorrerebbe mettere in discussione non già il macchinismo della prima rivoluzione industriale (ivi compreso il nucleare), che entro precisi limiti va conservato, ma quello proprio alla seconda rivoluzione industriale. Occorrerebbe attaccare il cuore informatico del sistema agendo sui suoi strumenti. In pratica creare un movimento di opinione neo-luddista, la cui azione consistesse nel diffondere un'attitudine generalizzata a non abusare di calcolatori elettronici, telefoni, televisori. Ciò accompagnato da qualche simbolica distruzione di detti marchingegni, ma soprattutto dall'esempio vivente di individui in grado di vivere un'esistenza in cui il macchinismo di qualsiasi tipo non abbia posto alcuno; per i quali la «dissoluzione della materia» valga come radicale emancipazione dal «principium individuationis», dall'istinto di conservazione del lato biologico dell'esistenza, secondo l'indicazione del brano citato dalla nietzschiana "Volontà di Potenza".
Ma il progetto di un Ordine con caratteristiche «tanto spartane quanto prussiane, da Ordine dei Gesuiti e da élite di comunisti puri» che si trova nell'Operaio jungeriano e che fu molto caro ad Evola, è oggi quasi del tutto improponibile per la scarsità di una base di partenza concreta tanto a livello di quadri dirigenti che di materiale umano (in specie fra i giovani) da reclutare con un minimo di naturale predisposizione. Evola, del resto, si era reso conto di come la sistematica distruzione di tale premessa per un movimento di «risveglio» e di «rivoluzione restauratrice» avesse avuto il suo culmine proprio nella pseudo-rivoluzione del Sessantotto. L'irreversibilità di tale distruzione, i cui agenti furono la «gioventù bruciata» americana dagli "hipsters" ai "beatnikes", è tale ormai che al riguardo l'esperienza dadaista vi si potrebbe avvicinare "mutatis mutandis". E allora una ripresa da destra dello spirito sessantottesco va esclusa, in quanto già «il Dadaismo costituiva un limite: non c'era qualcosa al di là del Dadaismo», viste «le possibilità quasi tragiche che si presentarono a coloro che hanno vissuto profondamente quest'esperienza», e che peraltro -occorre aggiungere- si tennero ben lontani da manifestazioni violente di tipo terroristico, le quali si accompagnarono al Sessantotto e furono cinicamente strumentalizzate da forze apparentemente esterne al Movimento Studentesco. E pertanto «ci si può interessare dal punto di vista storico al Dadaismo, ma che la nuova generazione possa trarne qualcosa di positivo, è assolutamente escluso». Per Evola non rimane, quindi, che l'esperienza solitaria per quanti rifiutino l'omologazione al sistema. Il procedere col massimo della determinazione di cui si è capaci e fidando -o a dir meglio «scommettendo»- nell'aiuto dei «Maestri Invisibili», sarebbe oggi addirittura più importante della ricerca dei «compagni di strada» e della loro aggregazione politica. Per quanto urtante e inaudito, un simile giudizio non può esser messo da parte a cuor leggero, specie quando chi si assume delle responsabilità politiche di grande respiro, e implicanti progetti a lungo o lunghissimo termine, non di rado viene preso da disperazione constatando le difficoltà storiche che gli si levano innanzi a ogni pie' sospinto. È allora proprio in simili frangenti che occorre l'atto concreto di individui solitari che anagogicamente si proiettino oltre tagliando ogni vincolo residuo col "principium individuationis". Perché, delle due una: o si vince la disperazione, o è la disperazione a vincere su tutto.
In questa visione dell'«atto» vi è insieme, paradossalmente, la più grande concordanza e la più grande discordanza fra Evola e Gentile.
Evola ci ha lasciato questo messaggio in un libro fra i suoi più ispirati e folgoranti, "Cavalcare la tigre".
«In essenza, esso corrisponde al bilancio negativo che ho dovuto trarre dalle mie esperienze e ad una visione realistica della situazione generale, cioè al convincimento che nulla può essere fatto per provocare una modificazione di rilievo in questa situazione, per agire su processi che ormai, dopo gli ultimi crolli, hanno un irrefrenabile corso» (cor. nostri). Esso fu scritto per coloro che si domandavano come comportarsi «in seno ad un mondo, ad una società e ad una cultura come quella ormai stabilizzatasi nell'epoca attuale». La conclusione di quest'opera, prosecuzione proiettata in un futuro indefinito di "Rivolta contro il mondo moderno", è che «bisogna applicarsi al problema puramente individuale consistente essenzialmente nel far sì che ciò su cui io non posso nulla, nulla possa su di me» (cor. J. E.). Il che, per quel che si diceva poc'anzi, non va inteso in senso «solipsistico» e «impolitico» nell'accezione negativa del termine, come da più parti si cerca strumentalmente di interpretare, al fine di concludere che Evola sarebbe «superato» e non più in grado di fornire un valido contributo alla «nuova Destra». Va inteso piuttosto come una formula polivalente che serve a ribadire un'istanza rivoluzionaria irriducibile. Precisamente, «l'istanza antiborghese» che «respinge il regime dei residui, il vano tentativo di opporre ai processi dissolutivi in corso l'una e l'altra delle sopravviventi forme della vita borghese» (cor. J. E.). Meditino al riguardo gli intellettuali di Alleanza Nazionale, e mediti soprattutto Marcello Veneziani. Lo diciamo senza acredine settaria; comprendiamo le ragioni politiche di certe «prese di distanza», ma prendere le distanze da Evola è troppo, specie quando ci si voglia «Nazionalpopolari» comunque, e nel contempo «antirazzisti» e «democratici di sicura fede». E vedremo fra poco come Evola in questo senso possa tornare utilissimo, epperò senza nulla concedere al «regime dei residui».
L'ideale del vecchio Evola prossimo al «passaggio» è ancora quello del giovane Evola: quello di un'impersonalità «attiva» per cui nulla può escludersi a priori. Neanche -e qui la cosa ci interessa da vicino come Sinistra Nazionale- l'alleanza, in determinate situazioni ed a certe precise condizioni, col comunismo in quanto ancora portatore di una spinta rivoluzionaria antiborghese. In ciò la valenza politica del preteso «solipsismo» evoliano, di quell'«afele panta» plotiniano ("spogliati di tutto") che nella Tradizione occidentale è il corrispettivo del taoista "cavalcare la tigre".
«La trascendenza (o più che vita) costituita ad elemento centrale e cosciente entro l'immanenza (la vita) è la condizione di tutta la via da me indicata, la quale va dal dionisismo apollineo (come apertura ad ogni più intensa e varia esperienza vissuta, pero, nella speciale lucida ebbrezza determinata dalla presenza del superiore principio) fino all'impersonalità attiva, all'agire puro di là da bene e da male, da successo e insuccesso, da felicità e infelicità, alla misura di sé in determinate prove, senza tema di colpi che possono raggiungere l'Io» (cor. J. E.).
È questa anomia ciò che qualifica l'etica evoliana e che, superata l'astrattezza intellettualistica della kantiana «autonomia» poggiante sulla «razionalità universale della norma», la riformula come libera e incondizionata volizione dell'Io. Tal che Evola, respinta radicalmente l'aseità dei Valori, può dire con Duns Scoto, immanentizzandone la concezione non razionalistica della Divinità, che «Dio non vuole una cosa perché è bene, ma essa è bene perché egli la vuole»; una tesi che risaliva ai tempi della "Teoria dell'Individuo Assoluto" e che l'ultimo Evola ripropone adattandola alla contemporaneità. Così, al «contestatore sessantottesco» -marcusianamente edonista, marxisticamente materialista e politicamente comunque opportunista- viene opposto l'«anarca di destra».
In una simile impalcatura teorica, la possibilità di una alleanza della Destra antagonista col comunismo è ben altro che una eventualità tattica, e inoltre pericolosamente compromissoria e implicante uno stravolgimento della concezione del mondo tradizionale, come si è già visto riguardo alla critica evoliana dell'Operaio di Junger. Il discorso va esteso altresì a von Salomon e a Spengler, dai quali l'ipotesi dell'alleanza della Destra antagonista col comunismo era stata per la prima volta considerata.
Nell'Introduzione alla sua versione italiana de "Il tramonto dell'Occidente", Evola individua il solo aspetto veramente valido delle vedute spengleriane nell'analisi del cesarismo «quale fenomeno precipuo della Zivilisation», epperò evidenziandone, sulla scorta di Platone, soprattutto i processi degenerativi assunti, rispetto al cesarismo romano, nell'età contemporanea sempre più caratterizzata dalla violenza e dall'arbitrio del «potere informe e puramente personale» della burocrazia, che finisce col soffocare e stravolgere l'azione della «grande individualità». Tale critica del totalitarismo, molto forte anche ne "Gli Uomini e le rovine", è quanto mai acuta e spiega la formula sibillina, spesso non compresa o volutamente fraintesa, con cui Evola riassunse la sua posizione politica dicendosi «non fascista e nemmeno antifascista». Di più, sul piano del giudizio storico, l'analisi critica della concezione spengleriana del cesarismo, ci fornisce tutti gli elementi per comprendere le vere ragioni del crollo del fascismo, del nazionalsocialismo, e, ancor meglio, del comunismo sovietico.
È dunque questo il contributo più notevole e attuale fornito da Evola alla dottrina politica della Destra antagonista: il superamento di quel concetto di «politica assoluta» che ha dominato, a prescindere da ogni colorazione ideologica, la prima metà del nostro secolo, finendo col provocare, nella sua seconda metà, la morte della politica in quanto tale. Questo superamento presuppone non solo una più alta visione della politica, ma l'esatta comprensione del fatto che il totalitarismo e la burocratizzazione non sono fenomeni propri soltanto alle dittature del XX° secolo, ma anche alle cosiddette «democrazie occidentali», costituendo una necessità interna allo sviluppo della fase estrema della «Zivilisation», anche, ma non solo, dell'organizzazione economica che le è caratteristica e si definisce «capitalismo finanziario», «usurocrazia». Gli abusi del potere, implicanti spesso gravi reati di competenza del codice penale (concussione, peculato, associazione a delinquere di stampo mafioso) sono quindi nient'altro che gli epifenomeni del totalitarismo proprio alle «democrazie occidentali» e apparvero senz'altro in misura molto minore presso le «dittature» della prima metà del secolo. In ciò Evola concorda con le impietose analisi di Max Weber (peraltro datate). Ma si discosta però drasticamente dalle conclusioni e dalle proposte politiche di questo grande studioso tornato d'attualità negli ultimi tempi. La sua «democrazia plebiscitaria» di modello «anglosassone» non può non essere che la forma più estrema del totalitarismo (di un certo cesarismo nostrano) e della demagogia, tenendo soprattutto conto della sempre più accentuata omologazione culturale della popolazione dei Paesi «avanzati» e altresì della sua crescente disaffezione a «riti democratici» e «ludi cartacei».
Sicché è dimostrato che la concezione evoliana è in grado di risolvere, da destra e nel quadro di una visione rigorosamente tradizionale, il problema del totalitarismo, fornendo gli strumenti concettuali -ed i suggerimenti pratici, come vedremo fra poco- della sua negazione: di una negazione recisa, e non di uno specioso «superamento dialettico» quale è ancora quello prospettato dal marxismo-leninismo con la teoria della «estinzione dello Stato» e della successiva instaurazione di una anarchica e indifferenziata «società senza classi», in cui la «naturale ineguaglianza dei bisogni» (ma non qualificazioni individuali) varrebbe di nuovo, epperò in funzione di una illimitata ricchezza materiale fornita da una macchina produttiva tecnologicamente perfetta, secondo quanto è detto nella marxiana "Critica del programma di Gotha".
Ed è per questa via, solo per questa via, che si può aver ragione, una volta per tutte e con argomenti chiari ed inconfutabili, delle elucubrazioni dell'intellettualità "progressista" sui pericoli di un «ritorno del totalitarismo di destra» dopo la «provvidenziale autoliquidazione» di quello sovietico.
È fondamentale per noi della Sinistra Nazionale avere idee ben precise circa la nostra collocazione a sinistra, perché il nostro richiamo all'esperienza e ai valori della RSI non deve in alcun modo prestarsi a confusioni col sinistrismo marxista-leninista più o meno edulcorato, confusioni in cui suo malgrado incappò lo stesso Gentile quando parlò del «comunismo» come di un «corporativismo impaziente». Da ciò dipende non solo l'esatta definizione del concetto di «socialismo nazionale», ma altresì la difesa di una superiore concezione dello Stato che deve essere per noi prioritaria e irrinunciabile, da essa dipendendo la netta linea di demarcazione che distingue, il nostro socialismo nazionale dal nazionalsocialismo, specie in ordine alla "vexata quaestio" del cosiddetto «razzismo». Al riguardo, noi lo respingiamo nella maniera più categorica nei suoi aspetti «biologici» (che è quanto dire egoistici ed economicistici in ultima analisi), ma non possiamo non condividere, ove esso venga inteso in funzione di una superiore razza dello spirito, così come ce la presenta Evola in tutte le sue peculiarità caratteriali non in una ma in tutte le sue opere. Ed è, questa «razza», quella in cui si incarnano i Valori tradizionali dello Stato secondo il modello romano di un, Impero che è «sovranazionale» nel senso che si pone al di sopra di ogni etnia -di cui si tutela e anzi esalta la specificità culturale-, di un Imperium in cui il «privilegio della latinità» consiste nel servire e non nel servirsi dello Stato.
E pertanto è la conservazione di questa idea dello Stato ciò che deve distinguerci sempre dai marxisti-leninisti, che lo Stato in quanto tale, invece, vogliono «estinguere» sic et simpliciter.
Tornando al nostro interrogativo di partenza circa l'attualità pratica della lezione evoliana, e tenendo conto delle enormi oggettive difficoltà dell'attuale momento storico, si deve concludere che qualcosa si può e si deve fare, sebbene occorra tener presente che non è detto non abbia il suo valore la massima confuciana di «attendere in riva al fiume che la corrente ci porti il cadavere del nemico». Tutto si può e si deve fare, ma a patto di aver ben saldo nella mente che «Puoi permetterti solo ciò a cui hai anche il potere di dire di no», e che solo «Se il cardine è saldo, la porta può anche sbattere».
Ponendoci dal punto di vista di un'«altra Destra», la formula della «rivoluzione conservatrice», per quanto funzionale al realismo politico, va decisamente respinta per il suo rimando a qualcosa che si dovrebbe «conservare», e che altro non può essere, in ultima analisi, se non la «sophrosyne» borghese col suo corredo di agi materiali, che va condannata non solo come filosofia suprema dell'esistenza, ma soprattutto quale espressione «etica» di una classe che si è resa responsabile della «sovversione dei Valori», e la cui sedicente «rivoluzione politica» Evola definisce come una vera e propria usurpazione, e tale la definisce dal punto di vista dei Valori, non già degli interessi materiali del Clero e della Nobiltà che ne erano custodi magari non più degni. Come «atto politico» dettato dall'invidia e dalla cupidigia, e in cui la «trama del possesso materiale» è tutto, la Rivoluzione francese si configura come «usurpazione» anche nei confronti dei ceti popolari. Essa fu, a rigore, la rivoluzione della città di Parigi e non di tutto il popolo di Francia, come la Vandea -fenomeno che si estese ben oltre i confini geografici dell'omonima regione- dimostrò incontrovertibilmente, e la cui repressione violenta da parte delle forze rivoluzionarie assunse i caratteri di un genocidio "avant lettre", quanto meno nelle intenzioni per la rudimentalità dei mezzi di annientamento messi in campo. La Rivoluzione francese fu altresì una «infezione» che lentamente ma inesorabilmente si diffonderà in tutti gli strati della popolazione europea, e che determinerà la «proletarizzazione» del Quarto Stato assai più efficacemente, e dall'interno, che non i processi di «alienazione economica» posti in evidenza dall'analisi marxiana.
Così, alla formula della «rivoluzione conservatrice», che per i motivi addotti si risolve sempre in una mera controrivoluzione (il discorso è quanto mai oggi calzante per l'Italia, sebbene non debba essere assunto dogmaticamente), Evola oppone la formula della rivoluzione restauratrice dei Valori, che non «propugna in alcun modo un oscurantismo a tutto vantaggio delle attuali classi superiori», perché «la superiorità e il diritto di una classe in quanto e semplicemente una classe economica in un mondo materialistico, noi li contestiamo». Ma si contesta altresì con la massima energia «il cosiddetto elevamento delle condizioni sociali», che «va considerato non come un bene ma come un male, quando prezzo ne sia l'asservimento del singolo al meccanismo produttivo e al conglomerato sociale, la degradazione dello Stato in Stato del lavoro e della società in società dei consumi», ciò comportando «la eliminazione di ogni gerarchia qualitativa, l'atrofia di ogni sensibilità spirituale e di ogni capacità eroica nel senso più vasto della parola», laddove, invece, «le qualità che in un uomo più valgono e che lo fanno veramente tale spesso, si destano in un clima duro, persino d'indigenza e d'ingiustizia, che gli costituisce una sfida, e dal quale egli viene messo spiritualmente alla prova» (cor. J. E.).
Contro l'egualitarismo democratico liberal-marxista, Evola sostiene questa istanza radicale antiegualitaria che solo una visione ristretta delle cose potrebbe ricondurre ad analoghe posizioni del Nietzsche, giacché Evola ammette, a differenza del filosofo prussiano, che qualità «superumane» possano destarsi persino nel Quarto Stato indipendentemente da quale che sia «influenza culturale», anzi prima di aver inteso la predicazione di qualsiasi «maestro», si chiami esso Cristo o Zarathustra, sia esso un «consolatore» o un «eversore». Non è un caso che la formula della «rivoluzione restauratrice» venga da Evola collegata a quella bismarckiana della rivoluzione dall'alto. «Bismarck -egli dice- fece sì che in Germania, prima che in ogni Stato europeo, venissero prese iniziative di previdenza e di assicurazione delle classi operaie da parte dello Stato. È assai significativo che tali iniziative servirono a poco, facendo apparire chiaramente che l'agitazione marxista -allora come oggi- «non perseguiva affatto finalità positive oggettive» per promuovere l'elevamento non solo economico del proletariato, ma aveva piuttosto lo scopo di far nascere «un'agitazione, un risentimento e una insoddisfazione» dove prima non c'erano, dove il singolo conteneva «entro limiti naturali il suo bisogno e le sue aspirazioni», ignorando quindi quella «alienazione, quella Entfremdung messa avanti dal marxismo, il quale, peraltro, non sa superarla che con una forma assai peggiore di essa, ossia con l'integrazione (cioè la disintegrazione) della persona in un collettivo» (cor. J. E.). Ciò precisato, non si può dimenticare l'ostilità del Nietzsche nei confronti del Bismarck, le sue equivoche simpatie per l'eversione marxista non meno che per gli atteggiamenti più visceralmente reazionari di certi ambienti facenti capo alla grande finanza dei suoi tempi.
Contro l'istanza marxista della «proletarizzazione» dell'intero corpo sociale mediante la «dittatura del proletariato» -cui si oppone specularmente l'istanza liberaldemocratica della «borghesizzazione» del proletariato mediante la democrazia «parlamentare» e più recentemente «maggioritario-referendaria»-, Evola fa valere l'istanza della «sproletarizzazione» del proletariato. Al proletario «sproletarizzato» -che è quanto dire «disimborghesito»- si riconosce un ruolo fondamentale ai fini della «rivoluzione restauratrice», epperò a condizione che si ponga sotto la guida di una élite in grado di testimoniare in ogni momento la propria fedeltà a valori superindividuali e superclassisti. Una simile classe dirigente non dovrebbe essa stessa possedere alcuna delle caratteristiche proprie al «proletario» non meno che al «borghese». È questa è la condizione ineliminabile della sua autorità; autorità che pertanto non è necessario abbia la sua «origine» e «legittimazione» né «in Dio» né «nel popolo», fondandosi semplicemente sul dato di fatto della sua esistenza, essendo «legittima» in quanto nulla del suo operato può essere ritenuto «illegittimo», avendo il suo centro animatore in ciò che è al di sopra della legge e in virtù del quale la legge si può sempre con chiarezza distinguere dall'arbitrio e dal capriccio individuale. Ma la condizione di questo distinguere è che il popolo ne riconquisti la capacità, e quanto ciò sia difficile nell'attuale situazione storica non è il caso di ricordare. È però notevole che, ove tale condizione fosse realizzata, il giusnaturalistico «diritto di resistenza» troverebbe posto nella concezione politica evoliana: ma senza alcun ricorso alla finzione di una pretesa violazione del «contratto sociale» da parte del «Sovrano». Tralignando la persona di questi dai doveri della sovranità, tornerebbe ipso facto un individuo comune, un semplice «suddito», e verrebbe sostituito, al limite eliminato fisicamente, senza ledere gli attributi della sovranità, questa continuando a sussistere in se stessa e per se stessa, una, indivisibile assoluta, totalmente altra rispetto agli «interessi» e al «consenso» di individui presi isolatamente e astrattamente come eguali, non concepiti, invece, come «membra» differenziate e organicamente aggregate nel corpo della società. A questa precisa condizione, l'atto rivoluzionario, restaurando la Giustizia in senso platonico, acquista caratteri di sacralità tali da redimere qualsiasi «abiezione». È sul piano politico, l'equivalente di una irruzione della trascendenza nel dominio dell'immanente, la quale, per così dire, rinnova la creazione ed eguaglia al più alto livello tutti gli individui che l'atto rivoluzionario compiono. Il proletario si sproletarizza compiutamente solo adesso, riconoscendo che non si è battuto per fini personali e «di classe», ma per riconquistare il suo posto nella società come individuo differenziato, portatore di una sua peculiare e irripetibile funzione nel cui scrupoloso adempimento consiste il suo Onore. Non è affatto escluso che simili convincimenti non abbiano albergato presso i combattenti delle armate rivoluzionarie francesi e sovietiche, e, ove, ciò si sia verificato, non è lecito sminuirne il significato altamente positivo - e senza chiamare in causa la idealistica «eterogenesi dei fini».
Senza mezzi termini, Evola afferma che «di contro ad ogni forma di risentimento e di competizione sociale ognuno sappia riconoscere ed amare il proprio posto, quello al massimo conforme alla propria natura, riconoscendo così anche i limiti entro i quali può sviluppare le sue possibilità, dare un senso organico alla sua vita, conseguire una propria perfezione: perché un artigiano che assolve perfettamente alla sua funzione è certamente superiore ad un sovrano che scarti e non sia all'altezza della sua dignità» (cor. nostro)
Così, entro il «posto» che a ciascuno compete nella società naturalmente, secondo l'ineguaglianza delle qualificazioni spirituali e la gerarchia che parimenti viene a stabilirsi secondo natura, ogni individuo è libero e personalmente responsabile verso lo Stato, sopraordinato alla «società reale» (la cosiddetta «società civile» dei giusnaturalisti), costituentesi come controparte (se si vuole come «emanazione») politica dell'Individuo Assoluto. Ognuno, pertanto, entro simile quadro, è «individuo assoluto» e può esercitare il «diritto di resistenza»: di fatto, materialmente, direttamente, senza le pastoie, ma anche i garantismi opportunistici, previsti dal formalismo della legge secondo la concezione liberale dello «Stato di diritto». Per questa via lo «Stato di diritto» viene cancellato dal ritorno del diritto eroico: cancellato -si badi-, e non idealisticamente «superato», giacché di esso, del suo spirito, non deve più rimanere niente a livello della «sintesi superiore».
Quanto si sia distanti dalle prospettive di «umana liberazione» del marxismo-leninismo, e dalle sofisticherie sul «diritto ineguale» che verrebbe a realizzarsi nella «società comunista» secondo la marxiana "Critica del programma di Gotha", si vede abbastanza chiaramente. Come solo entro tale modo di concepire la politica non si possa parlare di una «fine della rivoluzione», ma si debba invece parlare di una «rivoluzione permanente» -epperò non alla maniera di un Trotskij che era pur sempre un marxista-, non può sfuggire a nessuno, soprattutto ai conservatori e reazionari di destra, che non a caso considerano Evola «superato».

In Evola, dunque, la considerazione della «questione sociale» viene dedotta dalla considerazione della «questione politica», non viceversa, come presso liberalismo e marxismo-leninismo. «Sproletarizzare» il proletario; restituirlo alla sua dimensione spirituale, cioè tendenzialmente eroica, significa in essenza questo: fare in modo che l'operaio (Evola dice «operario») torni, ad essere quel che fu prima della rivoluzione industriale, ossia artigiano. L'«alienazione» dell'operaio consiste non tanto nel suo sfruttamento e progressivo impoverimento -come si è visto-, ma piuttosto nel venir meno dell'aspetto «creativo» e anzi sacro del lavoro quale si trova presso il lavoro artigianale e, a un più alto livello, artistico. Non vi è differenza qualitativa fra i due tipi di lavoro, essendo la manualità comune ad entrambi, ed essendo la manualità ciò per cui l'idea si materializza, o per meglio dire la trascendenza si immanentizza. Differenza esiste piuttosto in termini quantitativi, nel senso che in un prodotto artistico viene a concentrarsi una maggiore «quantità» di trascendenza. Lo stesso discorso, con qualche aggiustamento, si può fare per la fatica fisica e psichica che viene impiegata nella «creazione». Solo il lavoro artigianale e artistico è veramente gratificante, perché il soggetto entra direttamente in contatto con la trascendenza e ne diventa l'agente. E per tale motivo acquista i connotati della sacralità, «nobilita l'uomo». Ove vengano meno queste caratteristiche, il lavoro diventa in ogni senso degradante. Prevale l'aspetto mercantile «reificato» del lavoro, il «negotium», che è la negazione dell'«otium» (per gli Antichi, il lavoro per eccellenza, la pura attività «speculativa» propria all'uomo libero - cioè liberatosi dal desiderio delle cose materiali). Evola pertanto respinge il concetto moderno di «lavoro produttivo» e vi oppone quello di «azione», la cui valenza semantica indica che il lato pratico, interessato, economico del lavoro va messo decisamente in secondo piano. Contro il consumismo invoca la massima dell'economia antica «Nulla di troppo»; e non è per un retrivo pauperismo che fa l'elogio delle economie povere, giungendo a sostenere che l'indigenza non è «sempre fonte di abiezione e di vizio»; e non si perita di citare a sostegno della propria tesi il brano seguente di Hegel: «La storia universale non è il terreno della felicità, i periodi di felicità (nel senso di benessere e prosperità sociale) sono, in essa, pagine bianche.
Come azione purificata dal sacrificio di una austerità consapevolmente accettata, il lavoro è riscattato e restituito alla trascendenza, la immanentizza; e irrompe nella «storia universale» come uno dei suoi fattori decisivi. Esempi al riguardo possono trovarsi presso l'«autarchia» fascista, l'economia nazionalsocialista, lo stakanovismo sovietico.
La «sproletarizzazione» del proletario è dunque legata a un particolare spirito che deve animare il soggetto dell'economia, l'«operario» quanto l'imprenditore, ed è chiaro che in funzione di tale spirito, se da un lato l'operaio si sproletarizza, dall'altro l'imprenditore si disimborghesisce.
Secondo Evola, la costruzione di un modello di economia atto a realizzare la soppressione dell'«alienazione del lavoro», non deve partire, come in Marx e nella sua Scuola, dal presupposto che l'economia capitalistica sia la più avanzata storicamente avutasi, tal che si tratterebbe solo di perfezionarla ulteriormente, attraverso il «capitalismo di Stato» in un primo momento, e poi, «alla fine della preistoria dell'umanità», attraverso il «comunismo».
Un simile presupposto non può non riproporre, nel «capitalismo di Stato» come nel «comunismo», gli stessi difetti propri al capitalismo privato, ovverosia la schiavitù dell'individuo all'economia. Marx dice che nella società socialista i bisogni individuali saranno soddisfatti secondo i meriti (ovviamente valutati in funzione dell'utilità economica sociale), e che poi, nella società comunista, tutti i bisogni saranno soddisfatti, senza discriminazione alcuna e compatibilmente con la disponibilità di beni di consumo della società. Marx ha il grande difetto di concepire la libertà umana in funzione della possibilità di soddisfare dei bisogni. Quando anche si potesse soddisfarli tutti, resterebbe un bisogno da cui non ci si potrebbe liberare: il bisogno di fuggire la noia. La libertà, al contrario, va concepita come mai un materialista potrà concepirla; cioè come libertà dai bisogni, con l'unica eccezione dei bisogni elementari relativi a una dignitosa conservazione dell'esistenza. L'economia antica, con la sua aurea massima del «nulla di troppo», presupponeva appunto questo modo di concepire i problemi economici entro il più vasto orizzonte dell'esistenza umana. Le economie antica e medioevale furono sostanzialmente «economie di sussistenza», ovvero «economie chiuse», più per libera scelta che per «assenza di sviluppo». Tanto è vero che furono in grado di produrre opere monumentali ad alto contenuto culturale (anche tecnologico) e persino oggetti di lusso; i quali però valevano più come espressioni sacre dello spirito collettivo animatore che non per il loro valore di consumo. Le case dei Greci e dei Romani, anche presso la casta dominante e finché non sopraggiunse la decadenza, erano estremamente semplici, a fronte di opere pubbliche (templi, teatri, terme) in cui venivano profuse a piene mani l'intelligenza creativa e la ricchezza materiale della società.
Per Evola dunque -e qui appare egli fra i migliori interpreti della cultura del primo Novecento- il modello di una nuova economia deve essere radicalmente alternativo rispetto a quello liberalcomunista. Deve ispirarsi all'economia antica e medioevale. Non può essere che il modello corporativo.
«A tale riguardo, è di nuovo il retaggio tradizionale che potrebbe offrire l'idea direttiva», senza incorrere in confusioni col modo di vedere della scuola marxista: «ci si potrebbe riferire, né più né meno, al sistema feudale, adeguatamente trasposto e adattato. Ciò che nel regime feudale era l'assegnazione di una data terra e di una corrispondente giurisdizione o parziale sovranità, in sede di economia equivarrebbe al riconoscimento da parte dello Stato di complessi economici di diritto privato svolgenti determinati compiti produttivi, con un ampio margine di libera iniziativa e di autonomia. Il riconoscimento implicherebbe in caso di necessità la protezione, ma, come nel regime feudale, anche la controparte di un vincolo di fedeltà e di una responsabilità rispetto al potere politico, la statuizione di un diritto eminente a questo proprio, anche limitato, nell'esercizio suo, solo ai casi di emergenza e di particolare tensione. Su tali basi potrebbe venire organizzato un sistema riprendente l'unità e la pluralità, il fattore politico e quello economico, la pianificazione e vari spazi articolati di libera iniziativa e di responsabilità personale. Dunque, né centralismo totalitario da parte dello Stato, né interventi che disturbino o coartino i gruppi e i processi economici ove questi si svolgano ordinatamente. Direttive generali e schemi complessivi possono venire dati, ma quanto all'esecuzione, massimo spazio per lo spirito di iniziativa e di organizzazione» (cor. J. E.).
Nella visione evoliana dello Stato ideale -in un certo senso il corrispettivo della società comunista di Marx- lo Stato ha così poteri arbitrali nei confronti della pluralità dei soggetti economico-politici, epperò è totalmente disimpegnato dalla gestione diretta dell'economia. Lo «Stato imprenditore» è inconcepibile per Evola anche nella fase di preparazione delle condizioni necessarie all'edificazione dello Stato ideale. Lo Stato imprime la forma della organizzazione economica e ne impedisce le deviazioni, se occorre con l'uso della forza. Non ha altra funzione che quella etica di stimolare, incoraggiare, correggere. In ciò vi è piena concordanza fra Evola e l'ultimo Proudhon.
Se questi sono i caratteri dello Stato nazionale, lo sono anche dello Stato sovranazionale, concepito secondo il modello dell'Impero romano, come alcunché di simile all'ONU per la vastità planetaria, epperò senza quei limiti particolaristici (imperialistici e colonialistici) che esso eredita dalla vecchia Società delle Nazioni d'anteguerra.
Dunque federalismo, sia nell'ambito della Nazione che nell'ambito delle Nazioni. Ma un federalismo su base etica, come quella su cui si fonda la legittimità dello Stato in quanto tale. A differenza di Gentile, che concepisce la eticità come immanente allo Stato e pertanto identica ad esso, Evola la concepisce in funzione della trascendenza: precisamente nella tensione anagogica ("dialettica") verso la trascendenza, verso l'ideale platonico della giustizia; il quale, per principio, non può mai ritenersi del tutto realizzato, ma continuamente da realizzarsi per successive sintesi superiori, secondo un processo che può avere fine solo con la fine del mondo.
Per Evola, che ha presente non solo l'ideale della Repubblica platonica, lo Stato si incarna nelle due caste dei Sacerdoti e dei Guerrieri, la prima delle quali viene prescelta fra i componenti della seconda che dimostrino non solo qualità attive ma anche speculative e contemplative. Il che implica che Sacerdoti e Guerrieri abbiano lo stesso tipo di educazione, e che nello Stato di cui parla Evola non può darsi sostanziale distinzione fra «chi studia e prega» e «chi combatte», come si pretenderebbe, secondo una visione stereotipa e profondamente inesatta, sia accaduto durante il Medioevo.
Non a caso, i rapporti vigenti all'interno dell'impresa devono per Evola essere improntati al modello della vita militare, come accadeva presso le corporazioni medioevali che derivavano direttamente da quelle romane costituite «ad exemplum reipublicae», dove i «milites caligati» (semplici corporati) erano, rispetto ai «magistri», in un rapporto gerarchico identico a quello vigente nell'ordinamento militare. Nel nuovo sistema corporativo il capitalista, il proprietario dei mezzi di produzione, deve riprendere la funzione, che già ebbe in passato, «di capo responsabile, di dirigente tecnico e di organizzatore al centro dei complessi aziendali, e mantenendosi in stretto, personale contatto con gli elementi più fidati e qualificati dell'impresa come con una specie di suo stato maggiore, avendo intorno a sé maestranze solidali, libere dal vincolo sindacale, fiere invece di appartenere alla sua azienda. L'autorità di un tale tipo di capitalista-imprenditore dovrebbe inoltre fondarsi non solo sulla sua competenza tecnica specializzata, sul suo controllo, degli strumenti di produzione e su particolari, ampie capacità di iniziativa e di organizzazione, ma altresì su di una specie di crisma politico (cor. nostri).
Questo nuovo corporativismo esclude i sindacati sia padronali che operai, in quanto nel modello militare la legge dell'Onore non tollera conflittualità di «interessi» né egoismi di qualsiasi sorta, rende impossibile sia la prevaricazione che la ribellione. Sottolineando il carattere etico del lavoro come milizia, Evola prevede la statuizione, d'un «tribunale d'onore» all'interno di ciascuna azienda, sull'esempio di iniziative messe in atto con successo dopo la seconda guerra mondiale in Germania, Austria, Spagna e Portogallo. «Per spezzare la spina dorsale al marxismo», Evola auspica la «compartecipazione alla proprietà» dell'azienda da parte degli «operarii» mediante le cosiddette «azioni-lavoro»; vuole che gli operai si trasformino in «piccoli proprietari». Ma mette in guardia dai pericoli che ciò comporta, ove si attuino tali progetti in situazioni «di normalità», cioè in assenza di grandi motivazioni politiche e spirituali. Non solo si potrebbe compromettere la disciplina nell'azienda, ma indurre nell'operaio proprio ciò che si vorrebbe evitare, una esagerata valutazione dell'aspetto meramente materialistico e alienante della proprietà.
Questi pericoli non devono però fare accantonare il progetto a tutto vantaggio della conservazione dell'esistente. Evola è convinto che si debbano sfidare -prese le debite precauzioni- in ottemperanza alla sua etica che, come sappiamo, consiste nel cercare e non nello schivare i pericoli. Non solo. Egli è convinto che l'unica via per realizzare lo Stato ideale sia proprio quella indicata dal corporativismo, e, se vogliamo, più in generale quella di portare la rivoluzione nel terreno dei rapporti economici concreti. Non sorprenda questa mia interpretazione «marxisteggiante» di Evola. Ammesso che vi possa essere analogia di metodo fra Marx ed Evola -ed in parte vi è certamente- la differenza fra i due è radicale circa l'idea che essi hanno, della cosiddetta «reintegrazione dell'uomo» e della funzione su di essa esercitata dal «progresso». Per Evola la corporativizzazione dell'economia è «il mezzo migliore per integrare il singolo lavoratore nella sua impresa, per interessarlo ad essa ed elevarlo; anche di là del suo interesse più immediato di mero, sradicato individuo». Epperò (contro le ubbie di tutti i corifei delle «magnifiche sorti e progressive», ubbie che non cessano di essere tali anche se astutamente finalizzate secondo i parametri della evoliana «stupidità intelligente») «riproducendo il tipo di appartenenza organica, quasi 'nella vita', ad una data comunità di lavoro, che fu proprio appunto alle antiche formazioni corporative» (cor. nostri), quando «l'usura del denaro liquido e senza radice -l'equivalente di ciò che oggi è l'uso bancario e finanziario del capitale- veniva considerata cosa da Ebrei e ad essi lasciata, era lungi dal condizionare il sistema» (cor. J E.).
La corporativizzazione deve escludere la cogestione dell'azienda mediante «comitati di fabbrica» e simili, secondo il sistema dei «Soviet» raccomandato dai marxisti-leninisti allo scopo di sabotare, dall'interno del sistema di produzione industriale, la struttura del capitalismo. Evola cita al riguardo proprio l'esempio della Russia bolscevica, dove «i consigli di soldati che nell'esercito avrebbero dovuto sostituire o integrare gli alti comandi furono rapidissimamente liquidati; (...) cosa analoga (che) si ebbe in economia», per il fatto che l'alta dirigenza in genere e quella economica in particolare ha un carattere quasi esoterico per cui si «renderebbe dannosa, disorganizzatrice o per lo meno disturbatrice ogni ingerenza dal basso». Evola non nega che nel sistema dei Consigli i comunisti vedessero qualcosa di più di una tattica destabilizzatrice del capitalismo. Vi vedevano in realtà, vista l'origine illuministica dell'ideologia marxista, una sorta di «parlamentarismo economico», come ebbe a dire Carlo Costamagna. Ma dovettero, dopo reiterati fallimenti, constatarne l'impraticabilità, per cui i Soviet furono messi da parte, «quel che, per la forza stessa delle cose, nell'epoca moderna si verificherà sempre».
D'altra parte, la massima autonomia dei complessi industriali prevista dal progetto evoliano non è praticabile, nella situazione attuale dell'economia mondiale, se non entro precisi limiti, perché, per quanto vasta e potente possa un'azienda essere, non sarebbe in grado da sola di resistere al regime dei monopoli internazionali e al prepotere dell'alta finanza. Questi limiti, però, è lo Stato ad imporli dall'alto, senza altra considerazione che non sia quella dell'interesse comune della nazione, a prescindere da qualsiasi «interesse di classe», con l'obiettivo di contenere, "in extremis" col ricorso alla guerra, l'ingerenza di «gruppi extra e superaziendali e assicurare quindi alle stesse imprese condizioni di sicurezza e di regolata produzione».
Evola conclude -con lapidaria chiarezza- che l'attuazione immediata del suo corporativismo, che si caratterizza per intransigenza sui princìpi non meno che per una lucida e impersonale aderenza alla realtà effettuale, «rifletterebbe l'ethos chiaro, virile e personalizzato, proprio appunto ad una società basata sul tipo generale non del mercante o del lavoratore, bensì, come carattere e disposizione generale, in termine di analogia, del guerriero. Sarebbe il principio di un risollevamento» (cor. J. E.).
Su questa base Evola respinge come «qualcosa di invertito, di degradante e di degradato (proprio all'opposto) della concezione tradizionale», la formula gentiliana di «Stato del Lavoro», ripresa e sviluppata in direzione scopertamente marxisteggiante da Ugo Spirito e dalla sua Scuola; formula la quale è resa possibile integrando all'eticità dello Stato la presunta eticità del lavoro, il cosiddetto «umanesimo del lavoro». Infatti non vi è «alcun dubbio -scrive Gentile- che i moti sociali e i paralleli moti socialisti del XX secolo abbiano creato un nuovo umanesimo -l'umanesimo del lavoro (compimento dell'umanesimo culturale e letterario)- la cui instaurazione come attualità e concretezza è l'opera e il compito del nostro secolo».
«Questo umanesimo del lavoro -secondo Evola- fa (...) tutt'uno con l'umanesimo integrale o realistico o nuovo umanesimo degli intellettuali comunisti e l'eticità e l'alta dignità rivendicate al lavoro sono solo una insulsa finzione a che l'uomo dimentichi ogni interesse superiore ed accetti di buon grado il suo inquadramento ottuso e insensato in strutture barbariche: barbariche, perché non conoscenti altro che lavoro e gerarchie produttive. Il più singolare è che questo culto superstizioso e insolente del lavoro viene bandito proprio in un'epoca in cui la irrevocabile meccanizzazione ad oltranza toglie quasi senza residuo alle varietà principali del lavoro (di ciò che può venire legittimamente chiamato lavoro) quel che in esse poteva avere un carattere di qualità, di arte, di esplicazione spontanea di una vocazione, facendone invece qualcosa di disanimato e di privo di ogni significato immanente» (cor. J. E.).
Così il Gentile, nella fase finale del suo percorso speculativo, mostra non solo le inequivoche radici illuministico-liberali del suo attualismo, ma per così dire anche la necessità logica del loro confondersi con quelle del comunismo marxista, non a caso dall'ultimo Gentile definito «un corporativismo impaziente».
Ma può veramente confondersi il comunismo col corporativismo fascista? La risposta dovrebbe essere negativa ed è tale per me.
Evola scrive al riguardo:
«Contro il sistema partitocratico demo- parlamentare, la riforma fascista che portò alla costituzione della Camera delle Corporazioni ebbe sicuramente vari titoli di legittimità», il principale dei quali consiste in termini etico-politici nella «spoliticizzazione delle forze economico-sociali» contro «all'incompetenza politicante che fa il buono e il cattivo tempo in regime demo-parlamentare». Unico difetto del corporativismo mussoliniano l'eccessiva burocratizzazione delle unità corporative, un vizio proprio al «cesarismo» come fenomeno tipico della "Zivilisation", di cui si è già detto trattando del rapporto Evola-Spengler; e di cui -è da aggiungere di sfuggita- pare sia stato quasi indenne il nazionalsocialismo; epperò attraverso l'esasperazione del «cesarismo», che fu la controparte negativa di un fatto etico-giuridico di grande momento: la radicale affermazione, contro il principio democratico-parlamentare della sostanziale irresponsabilità delle decisioni assembleari, del principio opposto della responsabilità personale secondo gerarchia, principio per il quale chi decide è sempre una persona, secondo la sua specifica competenza e la sua capacità di comando, e con la necessaria tempestività. Evola riconosce al nazionalsocialismo, così, di aderire meglio a quello spirito militare che è da trasferire nel dominio dell'economia per farne il più immediato centro di rigenerazione del singolo come della società.
Ad Evola si e spesso rimproverata la non-adesione alla RSI. E si sa che dopo l'8 Settembre egli soggiornò in Germania ed Austria, benché inviso alle SS ed al loro Capo. Dopo quel che si è detto, la causa di questa mancata adesione potrebbe vedersi proprio nel fatto che Evola non condivideva, per ragioni di coerenza ideale con quello che per lui era il vero fascismo (e che non era certo quello della «dittatura»), le «eccessive», aperture nei confronti del comunismo, aperture alle quali un Gentile aveva impresso il suo crisma in un modo -occorre ammetterlo- quanto meno azzardato. Vi erano per il Gentile -e non solo per lui- delle «ragioni di forza maggiore», delle ragioni «politiche» nel senso migliore della parola. Ma per Evola le «ragioni politiche» non erano tutto. Potevano diventare tutto solo a patto di trarre dall'alto la propria legittimità. E credo di esser riuscito a mostrare che per Evola etica e politica non coincidono. Non solo, ma che la stessa etica è qualcosa di eticamente insignificante ove non la si consideri, in funzione di un assoluto trascendente (la libera e incondizionata volizione dell'Individuo Assoluto), come anomia (si rammenti la citata interpretazione evoliana del passo di Duns Scoto).
Quanto alla spiegazione che Evola diede della sua non-adesione alla RSI, (la sua fedeltà all'idea monarchica che non può essere tradita per le colpe di un re fellone), potrebbe trattarsi di una spiegazione puramente «ufficiale», con la quale egli volle sottrarsi deliberatamente dal dare «altre» spiegazioni. Forse si trattò non tanto di una difesa coraggiosa del fascismo di cui troppo male si era detto e si continuava a dire. Ma di una forma di estremo pudore: della difesa di ciò che egli aveva scorto nel fascismo e in cui aveva riposto tutte le sue speranze.
Di Evola si è parlato come di un «mito incapacitante». Non si potrebbe sostenere che per lui -e non solo per lui- il «mito incapacitante» sia stato invece il fascismo?
Non è un caso che coloro che oggi pretendono di rendere il fascismo «capacitante», rinneghino Evola e «prendano le distanze». Anche dal fascismo. Anche dal suo mito, troppo condiscendenti verso il barbaro corifeo del «mito americano» (1).
Pure a questo «mito incapacitante», che sarebbe il magistero evoliano, non riguardiamo solo noi della Sinistra Nazionale -e con intenti diversi da quello della semplice rivalutazione del cosiddetto «pensiero di destra», o della sua «ricostruzione storiografica»: l'una non essendo, in definitiva, altro che folklore orientato alla fraudolenta ripresa del «regime dei residui»; l'altra una ricerca puramente scientifica, che non può interessare chi non creda nella cosiddetta «neutralità della scienza» e anzi ne denuncia la mistificazione-. Anche in Russia, dopo il crollo del comunismo, si è avuto un inatteso e sorprendente interesse per Julius Evola; e dettato da motivi sostanzialmente identici a quelli propri della Sinistra Nazionale. Che si interessino al Nostro i tradizionalisti russi è comprensibile, ma che se ne interessino i «nostalgici» del vecchio regime lo è assai meno. Al di là del rimpianto di un passato comunque glorioso che non può non accomunare oggi Bianchi e Rossi, al di là dell'influenza invisibile di una tradizione millenaria per cui la Santa Madre Russia si ritenne sempre l'erede naturale dell'Impero bizantino e per cui Mosca si presentò al mondo come la «terza Roma», esiste una ragione più profonda di questa concomitanza di interessi per Evola mostrata da due concezioni del mondo così radicalmente divergenti. E cioè la scelta geopolitica per cui l'Unione Sovietica, pur accettando il sistema industriale moderno imposto da Stalin con spietata determinazione e con la eliminazione fisica di milioni di contadini, rimase tuttavia una potenza continentale avente la stessa vocazione antimercantile e antimarittima propria all'«economia chiusa» di un regime tradizionale di tipo feudale. Non è senza ragione che fu proprio la Scuola geopolitica russa a «scoprire Evola, assieme ad Haushofer e a Schmitt.
Crollato il comunismo, si vede bene che l'utopia romantica di un'alleanza di prussianesimo e bolscevismo in funzione antiborghese -utopia felicemente espressa da Spengler e von Salomon- acquisti oggi potenzialità di realizzazione tutt'altro che romantiche. Le indicazioni e i suggerimenti in tal senso offerti da Evola, specialmente ne "Gli Uomini e le rovine", non sono solo preziosi. Sono ad oggi insuperati per realismo e lungimiranza. In definitiva per aver prospettato la possibilità di un nuovo sistema economico in cui sviluppo agricolo e sviluppo industriale siano organicamente articolati in funzione antimercantilistica e antiusurocratica.
Poiché il programma della Sinistra Nazionale fa sua l'istanza di una rivalutazione dell'agricoltura -non soltanto a vantaggio della classe immediatamente interessata dei contadini, ma per la difesa dei suoi valori, che comunque rimangono ancora in qualche modo legati alla Tradizione, e al contempo per una soluzione non speciosa dei problemi connessi al degrado ambientale- dovrebbe essere chiaro che un costante riferimento all'insegnamento di Evola non è solo auspicabile, ma necessario.

 

Francesco Moricca

 

* Il Cinabro è un minerale (solfuro di mercurio) di color rosso bruno allo stato naturale, rosso vermiglio (rosso sangue) allo stato purificato. Plinio (33 - 7) lo definisce col termine alchemico di "tintura rossa" o "sangue di dragone": «Perciocchè così chiamano (i Greci) il sangue ch'esce dal drago stracciato dal peso degli elefanti che muoiono» (Domenichi, II-1086). «Fassi con zolfo et ariento vivo (mercurio), a forza di fuoco il cinabro» (Baldinucci, 34 - cor. nostri). Il color cinabro purificato è simbolo della regalità per eccellenza, in quanto sgorga dal sangue del drago pitone, simboleggiante i poteri arcani della natura «uccisa» e «soggiogata» da Apollo iperboreo. Anche in Cina il dragone è simbolo di regalità. L'«elefante», di cui nel citato passo del Domenichi, è tradizionalmente, come «Re degli animali» in ragione delle dimensioni e della longevità, l'equivalente del simbolo apollineo. Assumo il rosso cinabro naturale (rosso bruno) come simbolo del socialismo tradizionale opposto a quello moderno e contemporaneo, il quale ultimo innalza la «rossa bandiera» (rosso-vermiglia, cinabro purificato) come simbolo della pretesa «naturale regalità» del quarto stato, secondo il noto fenomeno dell'«inversione dei simboli», studiato da Guénon ed Evola. Nel brano citato del Baldinucci, lo "zolfo" può interpretarsi come la coscienza «infiammabile» del quarto stato, la quale, trattata con l'«ariento vivo» della sapienza (Mercuriale) e col «fuoco» della «volontà di potenza» regale, si trasforma in cosciente volontà della rivoluzione restauratrice: e cioè in cinabro vivo. Non è quindi senza ragione che la bandiera dei legionari fiumani fosse appunto rosso-bruna. Come la bandiera della Sinistra Nazionale.

 

(1) Ne "L'Italia settimanale" del 2 novembre '94 (ricorrenza dei Morti), è pubblicata una lettera di tale Gianluca Brancadoro da Roma, intitolata «Ci sono anche gli intoccabili di destra». Di costoro, però e stranamente, si cita soltanto Julius Evola, di cui Brancadoro (cognome curiosamente allusivo, "nomen omen") dice: «trovo profondamente noioso Julius Evola, ma così tanto che non se ne può più; non sono il solo a pensarlo: schiere di, più o meno, volenterosi lettori di destra si sono accasciati sulla rivolta». Poi Brancadoro lancia a Veneziani questo accorato appello: «Affinché ciò non avvenga, la prego prevenga: organizzi al più presto un convegno sul tasso di noia di Julius». Veneziani non dà alcuna risposta a una richiesta tanto insulsa. E a ragione. Infatti non risulta che «a destra» si sia mai obbligato qualcuno a leggere gli autori di destra e in particolare Evola. Semmai, se si è veramente «di destra», ci si dovrebbe sentire obbligati. Anche a leggere gli autori «di sinistra». Perché Veneziani ha pubblicato una simile lettera? E perché non ha tagliato una richiesta talmente insulsa? Forse non se ne è accorto? Oppure comincia a difettare di stile?

 

 

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