da "AURORA" n° 22 (Gennaio 1995)

L'INTERVENTO

Agonia del capitalismo?

Circolo Culturale "Comunità" Novara

Li chiamano «pessimisti», i «bostoniani dell'autunno triste», grandi economisti americani, tecnici del sapere, del denaro e dell'alta finanza che incominciano ad intravedere i sintomi della crisi del Capitalismo.
Occorre arrivare al degrado pratico, alla miseria sociale, per accorgersi, ex-post, della utopia congenita di un male filosofico storico.
Ci ha sorpreso, e non poco, leggere sulle pagine dell'autorevole "La Stampa" di Torino -presidente nientemeno che il sen. Giovanni Agnelli, magnate del capitalismo nostrano- del 1/11 e del 2/11 '94, un'interessante inchiesta sull'economia americana firmata da Vittorio Zucconi. I risultati, sorprendenti, soprattutto per i cultori del progressismo -intellettuale- americano, dell'«american way of life», basato su esasperata produttività, efficienza manageriale, marketing e quant'altro.
L'anno appena trascorso ha infatti segnato, per il Grande fratello americano, l'avvio di una ripresa economica quantomeno insolita, caratterizzata da particolari ripercussioni sociali, che non hanno potuto lasciare nell'indifferenza attenti osservatori, tra i quali spicca il nome dell'economista John Kenneth Galbraith, studioso delle cosiddette «società opulente».
I dati che più balzano all'occhio sono l'incremento di povertà cresciuto dal 14,8% al 15,1% in un solo anno, e per chi conosce i sobborghi di moltissime metropoli americane sa pure cosa significhi il termine «povertà» negli States: situazioni di invivibilità reale, mancanza di casa, occupazione, assistenza sociale e ospedaliera, senza contare quei circuiti satellitari dei grandi poli industriali che vedono il sorgere di baraccopoli -degne della peggior Rio de Janeiro- o di roulottopoli in cui vivono operai e famiglie al limite della sussistenza (la zona desertica nei pressi di Las Vegas ne è un esempio lampante).
Fenomeno per certi versi nuovo, è invece la crescita di una categoria sociale piuttosto numerosa; i sottoccupati, individui che percepiscono un salario, e che quindi non figurano nelle casistiche della disoccupazione, ma che possono contare solo su un reddito inadeguato alle loro preparazioni e mansioni tecnico-teoriche e di parecchio inferiore al precedente, così da non potersi permettere ritmi di vita che già avevano avviato. Un meccanismo a cascata che colpisce tutta la piramide sociale, dal manager all'operaio specializzato, senza distinzione alcuna, dirottati magari verso la produzione di servizi, nel contesto di una «economia di servizi» e non più di una produzione industriale.
Ovviamente segnali positivi in questa situazione giungono dai grandi operatori finanziari, impegnati nelle loro scorribande (veri e propri atti di pirateria) in Borsa come nel circuito delle grandi industrie, magari con il beneplacito da una classe politica in procinto di essere sostituita e quindi bisognosa degli appoggi finanziari delle lobby dominanti. Ma per le famiglie dei lavoratori, tale situazione è diventata una parabola discendente e rapida verso la miseria; il meccanismo escogitato è perfido quanto fine; si chiama illusione finanziaria ed è un errore di «percezione» provocato volontariamente dalle pubbliche autorità che, a mezzo di modifiche del sistema fiscale o grazie all'inflazione, suscitano nelle famiglie l'illusione di una migliore situazione economica. Ma perfino il Nobel Lester Thurow, eminente docente al MIT (Massachusetts Institute of Technology), laboratorio per la creazione artificiale delle menti dei rampanti d'America, ha rilevato come «(...) un marito ed una moglie con due stipendi oggi portano a casa meno del reddito reale del marito di solo 30 anni fa, e creano l'inganno statistico della Ripresa: sono due posti di lavoro ma con un reddito inferiore ad uno solo».
Già, poiché qualcuno ostenta ancora risolutezza nel chiamare ripresa una simile situazione, quando più avanti, nell'articolo di Zucconi, viene spiegato come alla riduzione drastica dell'occupazione e ad un livellamento verso il basso dei redditi dovesse corrispondere un esasperato aumento in termini di produttività: in altre parole i metalmeccanici della General Motors di Detroit, tanto per citare un esempio, si sono visti costretti a lavorare anche per 48 ore settimanali, comprese ovviamente, come sottolinea l'articolista, diverse ore di straordinario, che hanno portato però anche ad un incremento di assenze dovute a malattia, in un paese in cui ammalarsi può in molti casi significare il licenziamento -alla faccia dei «diritti dell'uomo»!-.
La cosiddetta classe dirigente si giustifica mostrando le statistiche d'importazione: nel '93 l'import di automobili raggiungeva il 22%, nel '94 è sceso al 14% (magari, aggiungiamo noi, a costo di qualche reietto umano in più ad occupare le strade di Detroit). Ed ecco alzarsi un muro di accuse a questa via di ripresa economica: il Galbraith afferma: «(...) che questa distribuzione sempre più ineguale delle ricchezze sia la nuova (nuova? N.d.A.) norma delle economie capitaliste moderne»; Paul Krugman, uno degli ultimi santoni del pensiero economico americano, sulle colonne del "Foreign Policy" scrive: «(...) l'occidente computerizzato, robotizzato, informatizzato sta creando sempre più ricchezza globale e sempre più miseria individuale» ed ancora: «(...) l'aumento del reddito si è concentrato nelle mani dell'1% delle famiglie al vertice della piramide fiscale. La ricchezza non è più una pioggia benefica, ma un rubinetto aperto in pochi lavandini»; Thurow indica le cause delle disfunzioni nella pressione fiscale, nell'elevato grado di competitività con l'Europa e il Giappone e nella sottoccupazione.
Noi che non siamo voci autorevoli della economia mondiale, ma al massimo modesti studentelli di qualche sperduta facoltà di Economia, vogliamo guardare al di là di queste critiche, che, pur condivisibili per certi aspetti, ci sembrano fievoli scusanti di un sistema economico da pescecani, comunque partorito da menti che nulla intendono vedere senza la mano sul portafogli. Basterebbe ancora citare il Krugman che scrive, dopo le sopraccitate denuncie: «(...) e non lo dico perché voglio fare il liberal che piange sui poveri. Al contrario io sono un ricco professore viziato che vuole godersi la sua ricchezza in pace e per questo voglio che i poveri stiano tranquilli. Lo dico perché l'unica maniera per essere conservatori in una società moderna è essere progressisti». Ipse dixit!
Noi, dicevamo, crediamo al contrario che dopo la caduta del Muro di Berlino sia venuto meno l'antagonista del Capitalismo, e per quest'ultimo sia iniziata una crisi dovuta a contraddizioni interne ed emorragie incontrollabili, come l'imporsi nuovi obiettivi, diversi dalla ricerca del massimo profitto, quali la tutela del sistema tecnocratico e l'elevato livello produttivo, senza i quali sarebbe iniziata un'agonia molto più rapida e drastica, essi sono comunque spie fondamentali di quel meccanismo di controllo ed autodifesa proprio del capitalismo.
Non per fare del facile ottimismo, ma in molti paesi si è andata consumando quella elevata potenzialità che aveva tale sistema economico, generando collassi che si sono mostrati fatali per certi aspetti del mondo sociale. Appunto queste casistiche di sottoccupazione, di disoccupazione, di crisi dei sistemi pensionistici, ma anche dei livelli produttivi dovuti alla mutazione del modo di concepire la produzione -non più orientate verso i beni, ma verso i servizi, inducendo quindi a consumare anche prodotti fittizi-, sino alla crisi dei dogmi assoluti, in primis la dipendenza economica di molti Stati nei confronti di pochi finanzieri, la usurocrazia del sistema bancario, i problemi legati all'immigrazione di masse in cerca di lavoro, l'illusione, dell'opinione pubblica mondiale, di poter trasferire facilmente ricchezze dai paesi più "industrializzati" verso i più poveri senza arrivare alla colonizzazione più bieca, all'inquinamento, all'esaurimento delle risorse non rinnovabili, alla distruzione dell'ecosistema e quant'altro.
Insomma, la proposta sembra dover essere una soltanto: la proposizione di un nuovo modo di intendere i rapporti di lavoro, di un nuovo metodo di produzione basato sulla responsabilità e sulla co-determinazione, sul «raccorciamento delle distanze», ponendo l'accento sull'autentica gerarchia di valori, proprio nel momento in cui il capitalismo sembra stia per esaurire la propria vitalità, nell'apice del suo fallimento storico, sociale e persino culturale. Ardua impresa, ma se si pensa che questa battaglia può essere supportata da forme embrionali, o meglio imbastardite di quanto si vuole proporre, si accendono non fievoli speranze: in Germania la "Mitbestimmung", la legge sulla co-determinazione aziendale, che assegna alla morale un ruolo fondamentale, negando le scelte individuali al bene comune, introducendo dunque una forte politica di provvedimenti complementari di servizio esclusivamente sociale; in Giappone, ove forti sono le influenze religiose del buddismo, la stessa mentalità imprenditoriale che pretende si accosti al "Kairo" -ossia l'investimento aziendale in tecnologia- il "Kaizen", l'arte di migliorare le prestazioni lavorative attraverso il coinvolgimento motivazionale e la partecipazione attiva dei lavoratori alla crescita dell'azienda; persino negli stessi Stati Uniti, la Ford ha abbozzato dei piani di socializzazione e dopo aver visto calare le proprie vendite del 47% (sostenere forti politiche di licenziamento e di chiusura dei principali impianti di montaggio) è riuscita a produrre una automobile con un terzo di ore-uomo e con prezzi nettamente inferiori anche rispetto alla opprimente concorrenza straniera.
Anche in Italia poi vi sono stati simili fenomeni: basta risalire al '92 per verificare come alla sezione "Acciai Speciali Terni" -società partorita dalla triplice scissione della ILVA- i quadri dirigenti e manageriali abbiano stilato un documento che prevede la costituzione di una "S.r.l." attraverso un versamento di £. 300.000 per ogni aderente e la disposizione a (si legge testualmente) «... sottoscrivere una quota di partecipazione al fine dell'acquisizione di quota della società "Acciai Speciali Terni" per un importo pari al 30% del proprio trattamento di Fine Rapporto, per un ammontare comunque non inferiore a due mensilità lorde e non superiore a tre mensilità lorde». Numerose altre iniziative sono state poi avviate, sempre in Italia, per far fronte alla recessione che costringeva a chiudere diverse aziende, poi salvate attraverso la costituzione, ad esempio, di cooperative.
Naturalmente, per ritornare al realismo, non ci illudiamo che questi progetti siano inquadrabili nell'ottica dei grandi princìpi, hic et nunc, lontani dal concetto di «soldato del lavoro» come da quello di sviluppo etico della «comunità nazionale»; siamo al contrario convinti che questi progetti siano quantomeno viziati sin dall'origine da cui muovono, essendo insiti nel modello liberista, soprattutto in termini di mentalità individuale: è certo, però, che tali esempi possono offrire una prova tangibile di quanto sia d'attualità un modello economico che trae le sue origini sicuramente da qualcosa di più profondo di una visione economicistica, e che, altrettanto sicuramente, potrà assicurare sviluppo economico e, ancor prima, individuale e sociale a tutti i paesi stretti oggigiorno nella morsa del Capitalismo.
È dunque ora di uscire allo scoperto, non certo alla maniera del MSI che tanto discorreva di Socializzazione quando quello che aveva a cuore erano gli interessi di una borghesia stolta e reazionaria, ma proporre alle masse lavoratrici un modello socio-aziendale in cui siano effettivamente partecipi alla gestione e agli utili, in cui gli stessi capi dell'impresa siano autentici lavoratori e non occulti finanzieri; in cui sia assicurata una vera e valida assistenza medica; in cui venga assicurato il sacrosanto diritto a possedere un'abitazione; in cui sia possibile una perpetua possibilità di miglioramento; in cui esista un'efficiente organizzazione del cosiddetto «tempo libero» (anche se tale definizione ci piace poco essendo nata ad uso di questa società consumistica) attraverso strutture finanziate dall'azienda e che tendano al completamento e all'evolversi della personalità umana. Tutto in un contesto che non ostacoli o penalizzi la libera iniziativa, creando quella sintesi e comunanza di intenti, anche concettuali, che annulli una volta per tutte il vecchio schematismo marxista di eterna conflittualità fra "classi".
Noi crediamo che questo sia il momento di urlare queste proposte, sicuri che non potranno essere accolte con indifferenza dai lavoratori, stanchi dell'ormai moribonda utopia marxista come della prepotenza liberista, e neppure da quella classe imprenditoriale che deve, ogni giorno, fare i conti e misurarsi con le congiunture imposte dalla grande Finanza. Tentiamo di unire tutte queste forze per cercare di dare, si spera, l'ultima spallata ad un sistema in difficoltà evidente che non può più neppure contare, quale giustificazione allarmistica, sulla schmittiana dicotomia «amico-nemico», che la pianificazione comunista rappresentava.
«... il seme è già stato gettato ...»

Circolo Culturale "Comunità" Novara

 

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