da "AURORA" n° 22 (Gennaio 1995)

AMBIENTE E SOCIETÀ

Lettera aperta a Massimo D'Alema

Enrico Landolfi

Signor Segretario del Partito Democratico della Sinistra, questo rapporto epistolare che cerco con Lei mi permetto dedicarlo ad un tema quant'altri mai delicato e scottante: la questione del post-fascismo, insorta dopo il superamento del neo-fascismo come frutto della distanza ormai semisecolare che ci separa dal vetero-fascismo.
Una "questione", ritengo, di grande e drammatica attualità; addirittura emergenziale in conseguenza degli esplosivi risultati delle urne "nazionali" di marzo e di quelle "europee" di giugno. Una "questione", mi pare di potere fondatamente affermare, venuta in luce solare non partenogeneticamente ma provocata da tutta una serie di fattori devastanti, non ultimi dei quali quelli che definisco i gravi errori di direzione politica dell'on. Achille Occhetto.
Su di essi non indugerei, perché già stati oggetto di miei affocati (troppo) articoli su pubblicazioni varie soprattutto della Sinistra extra-pidiessina, talvolta caratterizzati da una in me inusitata violenza di linguaggio -di cui volentieri faccio ammenda- dovuta alla emozione del momento e al disappunto per la vittoria delle Destre. Insomma, e a dirla schietta, mi è capitato di smarrire il retto ragionare e di perdere il controllo della penna, così finendo, come si suol dire, sopra le righe.
Ciò precisato, Signor Segretario, resta il fatto, il problema politico. Resta la necessità di un raccoglimento, di una riflessione, di un'analisi di quanto accaduto, che parta, appunto, dai limiti, dalle insufficienze, dagli erronei comportamenti occhettiani; e, parallelamente, dalle feconde astuzie, dalle capacità indubbie di interpretazione e di intervento sulle situazioni date, dal riconoscimento della creatività politica -a tratti perfino di caratura artistica- dell'avversario. E tanto più di buon grado Le sottopongo qualche mio modesto ma non occasionale pensiero su tutto ciò in quanto so bene che sta sudando, anche nei mesi invernali, le sette proverbiali camicie per mettere riparo agli errori del suo predecessore, fra l'altro indirizzando i Suoi sforzi e quelli dei suoi collaboratori verso l'inserimento pieno del partito nell'alveo del movimento operaio e popolare, della democrazia socialista italiana ed europea. Insomma Lei ha perfettamente inteso la vanità e la vacuità del disegno "achilliano" di prendere di peso il vecchio PCI, di recidergli senza il benché minimo beneficio d'inventario le radici tradizionali, e di immetterlo così, sic et simpliciter, nel quadro di quella cultura che fu tipica della componente moderata, vetero-lamalfiana, dell'azionismo. Una cultura, si sa, ricca di meriti democratici e già dimostratasi di notevole giovamento per il Paese, finché è restata ...al posto suo; finché ha svolto, cioè, il suo naturale ufficio, agganciando ferreamente al terreno costituzionale e offrendo un punto di riferimento ideologico e concretamente "ambientale" a tutta una serie di "aristocrazie" borghesi -della banca, della produzione, dell'università, dell'editoria, del giornalismo, della pubblicistica, della tecnica, della ricerca- potenzialmente impermeabili alle suggestioni reazionarie, conservatrici, di destra. E ciò per vocazione intellettuale, per tradizione familiare, per stile, per gusto, per modo di concepire la vita e, in essa, il proprio ruolo sociale e politico, certo liberale e progressivo ma, francamente, del tutto esterno, pur se non estraneo, non dico alla sinistra di classe vera e propria, ma alla Sinistra tout court.
Vede, on. D'Alema, Berlusconi ha di sicuro tutti i difetti e le magagne che Lei gli addebita, e, magari, anche qualcuno in più, ma innegabili sono in lui certe qualità: scaltrezza, capacità di salire sul proscenio al momento giusto, istinto del comunicatore, fiuto... Ecco, soprattutto il fiuto, che gli ha permesso di capire una cosa che l'Occhetto non ha capito: la scomparsa del neofascismo sostituito dal post-fascismo. Con la conseguente possibilità di mettere in campo una vasta e aggressiva strategia diretta all'unificazione delle destre -intuite, concepite, mobilitate, "vissute" in chiave di massa- al fine della conquista non solo del governo ma, progressivamente, della totalità del potere e, quindi, del sistema istituzionale, dello Stato. La «soluzione finale», insomma. Vi si trova, per esprimerci come i pubblicisti di provincia dell'Ottocento «ad un tiro di schioppo». E se non ci si inventa il modo di contenere, bloccare, ricacciare indietro i vari "poli" il gioco è fatto. Con il fascismo -classico prezzemolo degli antifascisti tradizionali messo in tutte le minestre- che con tutto questo c'entra come i cavoli a merenda. Tanto per restare nella metafora gastronomica. Non c'entra il fascismo con Gianfranco Fini, anzi Fininvest, non solo e non tanto perché, come banalmente va dicendo, il suo certificato di nascita travalica in giù il perimetro epocale del periodo littorio, ma in quanto la sua personalità è marcata da quattro caratteristiche: intelligenza, furbizia, cinismo, maccartismo. Sic stantibus rebus a lui -e, ovviamente, a tutti quelli che in Alleanza Nazionale «vogliono arrivare» e gli si sono aggregati- del ventennio, di Mussolini, della Repubblica Sociale e di quant'altro non gliene frega assolutamente niente. Fini è, anzitutto e soprattutto, un reazionario e un nemico della Sinistra, comunista o non comunista che sia. E ha capito che per combatterla gli serve non il Duce Nero ma il cavaliere Azzurro. Per il semplice ma irrefutabile motivo che non siamo nella prima metà del secolo XX bensì a ridosso del XXI e, per soprammercato, del Terzo Millennio.
Cosa ha fatto invece il buon Occhetto allorché è esploso il fenomeno importantissimo della trasmutazione del neofascismo nel post-fascismo? Direi che si è limitato a non capire niente di ciò che stava avvenendo alla estrema destra, così come nulla aveva compreso di quanto si verificava nello spazio socialista, dove l'elettorato in odio non all'ex PCI o al PDS, ma a lui e al suo inqualificabile comportamento non soltanto contro Craxi, i craxiani, il craxismo ma anche contro i socialisti e il loro partito, si era in larga misura riversato sui candidati di Forza Italia. E allora si è messo a sparare nel mucchio -«molti nemici, molto onore» diceva l'ex-Punto di Riferimento di Gianfranco Fini- con le armi di un antifascismo targato 1945, ossia non filtrato attraverso il mezzo secolo trascorso dalla tragedia della guerra. Un antifascismo non intuito nelle sue «verità interne» (la locuzione è virgolettata perché non mia, ma di un grande intellettuale cosiddetto "catto-comunista", Franco Rodano -vade retro Satana!- cui anni or sono dedicai un saggio che nel PSI scatenò il putiferio solo perché non ritenni di doverlo scrivere ottemperando alle coordinate del Sant'Uffizio bettiniano), ma ringhioso, urlato, vetero-formalistico e, in definitiva, inconferente e infecondo. Risultato: il diffondersi nel Paese di un clima di simpatia prima strisciante indi galoppante per il partito della Fiamma, cui il povero (allora!) Fini cercava disperatamente di praticare la respirazione bocca a bocca. Conseguenza cinque milioni e mezzo di voti sulle liste della destra estrema, tempestivamente rimpannucciata con stoffe più o meno "liberaldemocratiche". E il suo ingresso trionfale nella maggioranza conservatrice-reazionaria del Cavaliere Azzurro. Su tantissimi di quei suffragi graziosamente consegnati all'avversario -una volta si diceva «avversario di classe». Non sarà il caso di riscoprire questa dizione?- la firma, risum teneatis, del giovane capataz missino accanto a quella dello stagionato leader pidiessino. Il quale ultimo ha avuto, fra gli altri, il torto di non rendersi conto che le masse piccolo borghesi, specie nel profondo sud, sono sensibilissime al vittimismo, al pietismo, al "davidismo". E così hanno visto in Occhetto -e, ancor più grave e sconfiggente, nel PDS come tale- un Golia contro il quale fare un tifo da Sud, appunto. Sia nelle piazze che nelle urne. E così fu subito sera, ungarettianamente parlando.
On. D'Alema, penso che Lei sarà d'accordo nel ritenere l'on. Occhetto meritevole di comprensione per il suo errore. È fatto in un certo modo e non nel modo in cui piacerebbe a me e, forse, mi permetto supporre, a Lei. Cioè "Baffotragico" -lo chiamo così per ovvi motivi, diversamente da Gianpaolo Pansa che, su "L'Espresso", gli ha appioppato il nomignolo di Baffodiferro- ormai non è più né un comunista né un socialista, bensì un azionista arrivato all'azionismo procedendo, fin dall'età studentesca, su di un percorso estremamente accidentato e tormentato che lo ha visto di volta in volta, e cito alla rinfusa, trotskista, ingraiano, operaista, longhiano, berlingueriano, nattiano. E dell'azionista, naturalmente ha tutti i grandi pregi ma pure i grossi difetti, gli invalicabili limiti, le paralizzanti incapacità, le disperanti e ben conosciute ossessioni. Di più e più precisamente: colui che l'ha preceduta sul soglio di Botteghe Oscure ha dell'azionista un modo di «vedere» il fascismo e i veri o presunti "fascisti" in chiave demoniaca e plurimillennaristica. Fascismo e cosiddetti "fascisti" del secolo che tramonta sono, per lui, mostri satanici, incarnazione del Male, espressioni di illanguidimento della ragione umana e delle ragioni dell'Uomo. Esattamente l'uguale e il contrario, cioè, di come la destra «vede» la sinistra in genere e i comunisti o ex-tali in particolare. Dunque, con i "fascisti" non si discute, non ci si parla, non ci si saluta, perché portatori di un morbo, morale, intellettuale, storico, secondo il canovaccio esistenziale e interpretativo di un moralismo aggressivo, intransigente, intrasgredibile, perennemente in tenuta di combattimento. E chi si azzarda a non accettare il diktat spirituale del Sant'Uffizio azionista-occhettiano e da trattare alla stregua di un complice, di un manutengolo, di un collaborazionista.
Per l'azionista -va da sé che per azionismo non intendo un partito ma cultura; una visione della politica, della storia, della vicenda nazionale e mondiale- almeno fino al quinto millennio cristiano il pianeta è destinato ineludibilmente a dividersi in fascismo e antifascismo, nell'ambito di una lotta manichea del Bene contro il Male.
Orbene, questo "clericalismo" alla rovescia che ha dominato i pensieri e le opere di Akèl da sempre fino al capitombolo finale di luglio del testè cessato '94 è, come già rilevato, uno dei fattori dell'avvio della Seconda Repubblica all'insegna della spettacolosa riscossa egemonica della destra. Il tanto vituperato Togliatti -sia consentito oggettivamente rilevarlo da chi mai è stato togliattiano per il semplice motivo che mai è stato comunista- si sarebbe ben guardato dal commettere un sì macroscopico errore. Se non altro perché era ciò che Occhetto non è, e forse o senza forse, mai fu un marxista. Dunque, abituato a innescare l'azione politica non sulle scomuniche, le maledizioni, gli esorcismi, bensì sulle analisi della società, sulla valutazione distaccata delle componenti del gioco, sui rapporti di classe e di forza nel quadro sociale e sul modo migliore di gradualmente spostarli a favore della classe operaia e dei suoi alleati. La nota, viscerale avversione di Palmiro Togliatti per azionismo e azionisti fu il portato di incompatibilità e incomponibilità irrimediabili. E si trattò di insofferenza contrassegnata da aspetti, elementi, momenti di esasperazione del giudizio e del comportamento umano sicuramente censurabile e, talvolta, perfino riprovevoli.
Signor Segretario, uno dei dati di più accentuata personalizzazione della gestione occhettiano è da individuare nella famosa discontinuità. Che però da famosa si fece famigerata quando, anche in conseguenza del temperamento passionale e talora irriflessivo del suo Autore, ebbe a trasformarsi in violento e radicale rinnegamento, spesso assumendo i tratti di un vero e proprio cupio dissolvi. Così, ispirato dalla qualità azionista del suo antifascismo Achille Occhetto volle mettere una pietra tombale su di una tradizione d'umanesimo socialista, nazionalpopolare e libertario fondata sul dialogo, sulla reciproca comprensione, sul confronto possibilmente persino sul rapporto collaborativo fra le sinistre di classe e le componenti popolari ma anche piccolo borghesi e medio borghesi dell'esperienza fascista, sia di regime che post-bellica.
Dimenticò, volle dimenticare, che il tanto pur criticabile Togliatti, fin dagli Anni Trenta aveva ideato e promosso «l'Appello ai nostri fratelli in camicia nera»; dopo l'attacco tedesco all'URSS, parlando a Radio Mosca con lo pseudonimo di Mario Correnti ai giovani italiani, aveva affermato testualmente: «noi comunisti mai abbiamo puntato sulla disfatta dell'Italia»; nel dopoguerra non si era limitato a concedere, da Guardasigilli, una generosa amnistia ai fascisti, non solo aveva dato il suo apporto alla pacificazione, alla ricomposizione nazionale, ma ebbe una riservata e durissima polemica con la Direzione Secchia del comunismo oltre la Linea Gotica lanciatasi in una squallida e obbrobriosa resa dei conti con la Repubblica Sociale Italiana mediante i vari "triangoli della morte", le svariate "volanti rosse", i cosiddetti "tribunali del popolo", le stragi fratricide. Dimenticò, l'on. Achille Occhetto, volle dimenticare, che cardine importante della «via nazionale al socialismo» -anch'essa lasciata cadere, benché strategia degna di essere ripresa, emendata, approfondita, ampliata, adeguata, insomma all'epoca che viviamo- era il confronto con le masse popolari, lavoratrici, giovanili fasciste, senza alcuna pretesa di annessione né ideologica né partitico-organizzativa, ma anzi, riconoscendo ai "fascisti di sinistra" il diritto di autonomamente esprimersi, organizzarsi, agire sul piano politico, così usufruendo degli strumenti offerti dalla libertà nell'ambito di un rapporto sinergico con le forze democratiche d'avanguardia di ogni indirizzo culturale, ideale, e anzitutto con quelle legate al movimento operaio e contadino.
Caro Segretario, chi le scrive ebbe ad operare, durante i verdi anni, nel quadro di questo aspetto della linea dialogica dei comunisti e dei socialisti italiani -italiani e non all'italiana, come da qualche parte si pretende-, spendendosi, sia pure a livelli modesti di apporto e di rappresentatività, con la penna e la favella; con la prima con pubblicazioni ad hoc, con la seconda in innumerevoli riunioni, dibattiti, convegni, incontri nelle sedi di quella FGCI di cui Lei, a suo tempo, resse la segreteria. Sono stato, insomma, un testimone, però molto operativo. Sarebbe interessante una rievocazione di quella stagione e delle sue vicende niente affatto irrilevanti e squallide. Tutt'altro! Ma, come si usa dire con pomposa enfasi, la tirannide dello spazio ciò mi vieta. Chissà se mi deciderò mai ad utilizzare quest'antica materia per dare corpo e corso a un volume. Sarebbe il settimo, per l'esattezza. Al momento, vorrei concludere provvisoriamente -perché su questo tema del rapporto tra Sinistra e fascisti, o post-fascisti che siano, ritornerò già nel prossimo numero- manifestando l'opinione che quella lontana operazione dialogica-confrontuale si esaurì non per l'efficienza reazionaria e ostruzionistica della destra o per un modo bovino e distorto di concepire l'antifascismo da parte dell'estremismo di sinistra, ma a cagione degli impedimenti gravi allora sofferti dal PCI e conseguentemente dal PSI frontista per la più o meno obbligata adesione ad una solidarietà con l'URSS fondata sulla accettazione della leadership statuale della "patria del socialismo" e dalla funzione di guida del PCUS. Ma oggi che al Bottegone questa camicia di Nesso ve la siete sfilata?

Enrico Landolfi

 

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