da "AURORA" n° 22 (Febbraio 1995)

RECENSIONI

 

Robert Brasillach

I fratelli nemici

Ed. all'insegna del Veltro, Parma '86    pp. 32    £. 8.000

 

Robert Brasillach si consegnò alle autorità golliste per ottenere il rilascio della madre e del cognato, Maurice Bardèche, che erano trattenuti in ostaggio. La realtà da lui conosciuta nel carcere di Fresnes riecheggerà nelle poesie che in quel luogo riuscirà a scrivere, utilizzando come penna un cannello di pipa su cui aveva infilato la punta di una matita.
In quei mesi di carcere Brasillach scrisse anche "I fratelli nemici". Il poeta francese aveva certamente nella memoria le "Fenicie" di Euripide, dove si svolge il dialogo tra i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, che non riescono a riconciliarsi nonostante i tentativi della madre Giocasta.
Nei due Fratelli nemici Brasillach vede una situazione paradigmatica che si rifrange e si ripete in molteplici episodi della storia: in particolare, nelle vicende della Francia divisa tra collabos e résistants. Per Brasillach i due fratelli rappresentano i due aspetti di una totalità, i poli di una realtà unitaria; sono termini complementari, non entità irriducibili. Al di là di quella sorta di manicheismo che ordinariamente si connette alla prospettiva del soldato politico, Brasillach fu dunque capace di intravedere il significato integrale dello scontro che lo vedeva parte in causa.
Come avvenne anche nel caso di altre opere che Brasillach scrisse in carcere, il manoscritto de "I Fratelli nemici" circolò tra i detenuti di Fresnes, poi fu portato clandestinamente all'esterno del carcere. Lo si riuscì a stampare, però, solo nel '46. Da allora, il "dialogo tragico" composto da Brasillach ha avuto una sola rappresentazione, nel marzo '62

 


 

Adolfo Arturo Eibenstein

Il paternariato per l'azienda di domani
Storia della partecipazione dei dipendenti alla proprietà

e alla responsabilità nelle aziende dal 1794

Patron editore, Bologna '78   pp. 291 £. 10.000

 

Pur con notevoli e imperdonabili lacune -neanche un breve cenno alla "Socializzazione delle Imprese" attuata nella Repubblica Sociale- questo saggio di Eibenstein, con una interessante prefazione di Cesare Zampulli, non è privo di interesse per quanti intendono informarsi a fondo sui tentativi operati da singoli imprenditori, sindacati, partiti politici e governi, allo scopo di superare la contrapposizione che, da sempre, esiste tra capitale e lavoro. 
Preceduta da un «glossario» (utilissimo per districarsi nella selva di "parole oscure" tipo: cooperativa impropria, cogestione, azionariato popolare, pan-capitalismo, partecipazionismo) è riprodotta, in questo libro, una serie impressionante di articoli giornalistici, studi, proposte di legge che vanno da Giuseppe Mazzini ("I doveri dell'Uomo") alla Legge tedesca sulla cogestione aziendale ("Mitbestimmung"), che consiste nel riservare una parte dei posti nei Consigli di Amministrazione (che in Germania son detti di Sorveglianza) a componenti eletti dalle maestranze: operai e tecnici.
Va chiarito che questo saggio è fortemente condizionato da un moderatismo riformista di ispirazione laborista e socialista-democratico che non dà alla partecipazione dei «produttori» alla gestione aziendale il respiro strategico, con ampie valenze politiche, che è proprio della Legge sulla Socializzazione delle Imprese emanata dalla RSI nel dicembre '44. 
Si tratta, in sintesi, di un saggio che, neppure tanto nascostamente, tenta di ridimensionare la proposta fascista riservando al «capitale finanziario» un ruolo comunque preminente sia nel controllo della produzione che nella spartizione degli utili. Tanto che non vengono prese in considerazione ipotesi di partecipazione che vadano oltre il 25% del totale azionario, riservando quindi al puro capitale finanziario un ruolo egemone rispetto agli altri soggetti della produzione. 
Nonostante questi limiti che sono, a nostro intendere, frutto di una sostanziale posizione filo-capitalista dell'Autore questo saggio merita comunque di essere divulgato per la notevole mole di informazioni in esso riportate altrochè per il fatto di rompere anche se da posizioni filo-capitaliste il muro del silenzio che da decenni è stato eretto su ogni proposta di codeterminazione nelle imprese.


 

Mujahidin del Popolo Iraniano

Documenti della guerra sacra

Ed. all'insegna del Veltro, Parma '79   pp. 60    £. 10.000

I cosiddetti "Mojahedin-e khalq" sono noti in Europa per essere una organizzazione di fuorusciti iraniani oppositori della Repubblica Islamica. In Italia ebbero il loro massimo riconoscimento ufficiale allorchè il loro capo, Massud Rajavi, venne invitato al congresso veronese del PSI e si fece fotografare mentre stringeva lungamente la mano a Bettino Craxi. La pubblicazione di questo libretto, però, risale ad un periodo in cui l'organizzazione dei "Mujahidin del Popolo Iraniano" era una cosa molto diversa da quello che è attualmente.
Fondato nel 1965, da tre militanti del Movimento di Liberazione dell'Iran, il movimento in questione subì immediatamente la repressione del regime dello Scià. Grazie alla collaborazione fornita dagli organismi spionistici israelo-americani, la Savak riuscì ad arrestare duecento militanti, fondatori compresi. 
Nonostante le condanne al carcere e alla morte che ne seguirono, l'organizzazione seppe conquistarsi una sempre crescente popolarità, sicché il regime dovette ricorrere ai consigli degli esperti della CIA per screditarne l'immagine pubblica. Ma i Mujahidin continuarono la lotta, al fianco delle altre componenti dell'opposizione: giustiziarono agenti della Savak, militari d'alto rango, consiglieri statunitensi; resero insicura la presenza in Iran degli organismi sionisti compiendo una serie di attentati contro obiettivi israeliani; colpirono in vario modo gli interessi imperialisti nel paese.
Questo libretto contiene alcuni documenti fondamentali di quella fase di lotta: la Dichiarazione politica dell'organizzazione, la requisitoria pronunciata da Mehdi Rezai contro i suoi giudici, il comunicato politico-militare emesso nel decennale della cosiddetta "rivoluzione bianca" e altri testi di analogo interesse.
Dopo la rivoluzione islamica, l'organizzazione entra in una nuova fase, caratterizzata da una progressiva degenerazione che la allontana sempre più dalle posizioni originarie. Sotto la guida dei nuovi dirigenti, i Mujahidin partecipano ai cortei in difesa del giornale occidentalista "Ayandegan", boicottano il referendum per la Costituzione, provocano disordini in varie città dell'Iran e collaborano con altri gruppi controrivoluzionari. 
L'elezione di Bani Sadr alla presidenza della Repubblica sembrò consolidare la posizione dei Mujahidin; ma con la destituzione di Bani Sadr il movimento dichiarò l'inizio della lotta armata contro la Repubblica Islamica, che per loro sarebbe dovuta essere una «repubblica islamica democratica». 
I Mujahidin erano ormai diventati "munafiqin": tale termine, che nell'arabo coranico significa "ipocriti" e designa coloro i quali dicono d'esser musulmani mentre in realtà non lo sono, il popolo iraniano bolla da allora gli aderenti a questo movimento.

 


 

Ion Motza

Testamento di Ion Motza

Ed. all'Insegna del Veltro, Parma   pp. 48   £. 5.000

Il carattere di conflitto europeo che contraddistinse la guerra civile spagnola non emerse soltanto nella partecipazione di Italiani e Tedeschi a fianco delle forze franchiste, o delle brigate internazionali a sostegno della Repubblica. Altri interventi di gruppi minoritari a fianco dell'uno o dell'altro contendente sottolinearono il ruolo preparatorio che la guerra di Spagna stava svolgendo in rapporto ad una più generale e totale divisine del mondo su due trincee contrapposte. Così vi fu una legione ebraica che combattè coi repubblicani; e vi fu uno sparuto drappello di volontari romeni, militanti della Guardia di Ferro, che lottarono dalla parte franchista. Due di loro, Ion Motza e Vasile Marin, morirono nella battaglia di Majadahonda.
Quale fu il motivo che indusse migliaia di legionari della Guardia di Ferro a chiedere di poter partire volontari per la Spagna? Non certo la volontà di difendere la "civiltà occidentale", data l'appartenenza della Romania a quella parte d'Europa che, in virtù della sua matrice culturale bizantina, è Oriente e non Occidente. Nè tanto meno il desiderio di lottare per il Cattolicesimo, al quale i Romeni (come d'altronde i Marocchini al seguito di Franco) erano estranei in quanto Ortodossi. I volontari romeni erano invece animati dalla consapevolezza di partecipare a quella che secondo De Felice fu, più che una guerra ideologica, una guerra di religione. Non a caso Franco parlò di «vittoria dei credenti», e non di «vittoria cristiana» e tanto meno di «vittoria cattolica».
Certo, idealisti come Codreanu e come Motza non potevano prevedere gli sviluppi futuri della situazione spagnola, che, grazie alla mediazione di un regime conservatore privo d'ogni slancio spirituale e di ogni apertura alla partecipazione popolare, sarebbe sfociato in una democrazia che non ha nulla da invidiare alle altre democrazie dell'Europa americanizzata.
Ma questo è un altro discorso. Nelle pagine del luogotenente di Codreanu vibra quello spirito sacrificale che, estraneo al sentire dei militari franchisti, si ritrova invece negli uomini della Falange. 
Come Josè Antonio, così anche il romeno Ion Motza morì per quella che è passata alla storia come «la rivoluzione tradita».

 


 

Mohammad Hassan Askari

India: tradizione e modernismo

Ed. all'Insegna del Veltro, Parma '88    pp. 63    £. 10.000

Questo studio costituisce un contributo di prima mano ai fini della comprensione dei rapporti tra Islam e Induismo nel sub-continente indiano. Docente all'università islamica di Karachi e autore tra l'altro di un saggio su René Guénon, l'autore dimostra una considerevole capacità di penetrazione nel fondo dello spirito indù e si inserisce quindi nel novero di quegli intellettuali musulmani che, da Dara Shikuh in poi, hanno compreso il nucleo delle scritture vediche e upanishadiche molto meglio di tanti esponenti indù. 
L'interesse dei musulmani per le dottrine indù, largamente documentato da Askari, è dovuto al fatto che l'Islam ha riconosciuto all'origine dell'induismo una rivelazione pre-coranica analoga a quelle di cui furono destinatarie le «genti del Libro» - riconoscimento, questo, che diede modo ai conquistatori musulmani dell'India di assegnare alle popolazioni indù uno statuto giuridico preciso.
I non rari disordini e scontri che avvengono negli ultimi anni tra indù e musulmani dell'India non possono essere ridotti a fenomeni di reciproca intolleranza attizzati da gruppi "fondamentalisti" o "integralisti". L'autore spiega come siano state le influenze esercitate dal colonialismo britannico ad intaccare una situazione di pace e di amicizia che aveva dominato fin verso la fine del XVIII secolo. 
Dopo l'instaurazione dell'economia coloniale inglese, i missionari cristiani introdussero l'usanza dei dibattiti religiosi sulla pubblica piazza, mentre la "Theosophical Society" e le sue filiazioni prosperarono in questo clima di controversia, coltivarono presso gli indù inclinazioni fortemente antislamiche e diffusero una versione dell'induismo che mescolava sincretisticamente elementi ortodossi ed elementi desunti dalla cultura occidentale moderna.

 

 

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