da "AURORA" n° 23 (Febbraio 1995)

 

EDITORIALE

 

Caro Pino ti scrivo...

Luigi Costa

 


 

«Noi non naufraghiamo contro i nostri sogni,

ma contro la nostra incapacità di sognare con forza sufficiente»

 


 

Egregio on. Rauti, anche chi aveva spesso argomentato sulle strategie finiane, paventandone, con buon anticipo l'epilogo, non è rimasto indifferente alle risultanze della spettacolare messinscena, in semidiretta televisiva, approntata in quel di Fiuggi per celebrare con la necessaria solennità sia l'inumazione del Caro Estinto, che la concomitante venuta al mondo del «figlio di qualche troia del XX secolo».
È stata, nonostante il suo rimarchevole tentativo di «rovinar la festa», una rappresentazione degna di cotanto travaglio salutata con grande enfasi da critica e pubblico che ne hanno apprezzato sia lo sfarzoso allestimento che l'ottima regia nonché le notevoli performances dell'attore protagonista: Gianfranco Fini, artista, sostengono gli esperti, di sicuro avvenire. «Qualità» quelle appalesate nell'occasione dal fu «Miracolato da Donna Assunta», da indurre tante «comparse» a Fiuggi convenute -e a lui notoriamente avverse-, a tramutarsi in platea osannante, trepidante, partecipe e, persino, commossa allorquando, per ulteriormente valorizzare la sua esibizione, il Nostro, si esibiva, con consumata maestria, nella perigliosa e remunerativa recita della «furtiva lacrima».
Per quanti, e noi siamo fra questi, avevano da tempo preso le distanze dall'allegra compagnia, lo spettacolo presentava aspetti inconsueti e in parte del tutto inattesi tali, comunque, da mettere a dura prova l'equilibrio del nostro, non particolarmente sensibile, apparato digerente. Gli è che per quanto fossero risapute le inclinazioni al trasformismo dei Suoi (e nostri) ex-amici di "Linea Futura", "Spazio Nuovo" e "Andare oltre" ci sono sembrate insopportabilmente eccessive; non tanto le acritiche adesioni alle tesi finiote, ma la sfrontatezza con la quale, gli "ex" «duri e puri», le hanno esibite.
Un tristo e miserevole flettersi di spine dorsali che ha conferito alla Sua, pressoché solitaria, ribellione valenze epiche nella quale abbiamo colto residui bagliori di un'antica grandezza che, anche se solo in parte, ci ha risarcito per i sogni spezzati del dopo-Rimini da un Segretario inconcludente; prigioniero delle logiche continuiste di «Vecchi Rottami» e mansueto ostaggio di fatui e melliflui «Colonnelli», più interessati a conquistare e conservare poltrone che impegnati a lanciare e concretizzare «sfide epocali».
Ed è proprio questa ritrovata, anche se momentanea, sintonia, on. Rauti, che rende ancor più gravoso l'onere di scrivere queste note. Ci rendiamo conto, infatti, che è politicamente poco opportuno e umanamente inelegante riaprire ferite mai completamente rimarginate, la situazione venuta in luce consiglierebbe di unirsi a quanti già immolano il «vitello grasso» e celebrarne la lieta novella per il ritorno del «Figliol prodigo». La tentazione, ammettiamolo, è grande; siamo tutt'altro che insensibili al tentativo di alimentare la "Fiamma"; ci frena solo l'esigenza di comprendere bene e da subito, in quale direzione si intenda proiettare la luce, quale sentiero con essa si intenda rischiarare. Pretesa questa nient'affatto peregrina qualora si tengano presenti i poco lusinghieri risultati della sua breve permanenza ai vertici di via Della Scrofa; i tentennamenti e la confusione che negativamente segnarono quella che pomposamente veniva presentata come una «svolta storica».
I primi segnali, on. Rauti, non inducono certo all'ottimismo; la squallida kermesse di naziskin e nostalgici organizzata all'Ergife e nella quale, Suo malgrado Lei è stato, anche fisicamente, coinvolto, domenica 29 gennaio, in concomitanza con la pacata e misurata autocelebrazione del Presidente di Alleanza Nazionale a Fiuggi e che -grazie all'irradiazione televisiva- a questa è stata specularmente contrapposta, rivelandosi un boomerang di portata micidiale tanto che, solo a gran fatica, Pinuccio Tatarella -uomo dalla proverbiale arguzia- è stato dissuaso dall'inviarle un caloroso telegramma di ringraziamenti.
«Il mezzo è messaggio», insegna Mac Luhan. «Nelle scelte iniziali è già scritto il risultato di ogni avventura umana», argomentava, qualche anno fa un certo Pino Rauti. Evidentemente ci sfugge qualcosa? Oppure attribuiamo soverchia importanza ad un episodio destinato a rimanere isolato? La cronaca di queste settimane non ha risolto, ma dilatato le nostre perplessità!
Si potrebbe, caro Onorevole, banalmente sostenere: i «nodi gordiani» o si recidono di netto, senza esitazioni, oppure sono destinati ad aggrovigliarsi ulteriormente, facendo esplodere contraddizioni e conflittualità tali da annullare i buoni propositi, tutto riducendo alla replica, in sedicesimo, di «cose già viste».
Imbarcare tutti i naufraghi, rimandare la necessaria scrematura, mantenere basso il profilo delle «idee», invocare la protezione di San Giorgio -con o senza il beneplacito di Donna Assunta-, sono scelte, ci perdoni l'ardire, per le quali Le verrà presentato un salatissimo conto.
E non basta per ridare nitidezza ad un quadro plumbeo rimuovere l'ostacolo Pisanò (operazione peraltro auspicabile), se non si prende atto dell'incognita politica rappresentata da alcune migliaia di ex-finioti, non confluiti in Alleanza Nazionale unicamente perché resisi tardivamente conto dell'indisponibilità, della nuova formazione politica, a farsi ricettacolo di quanti ancora si attardano «tra sepolcri e botteghe da rigattiere»; e non certo in virtù di ravvedimenti «ideologici» implicanti il riconoscimento di una superiorità culturale e progettuale dell'«Incantatore di Anime».
Questo traspare in tutta la sua evidenza qualora si consideri la strumentalità dell'accusa di tradimento lanciata contro Gianfranco Fini & C. -con o senza i trenta denari di Khol-. Una accusa risibile, persino ingenerosa per il Discepolo di Almirante e i suoi compari colpevoli solo di aver condotto al naturale traguardo la «lunga marcia» iniziata da San Giorgio nel '71 con la Costituente di Destra. Certo, sono stati stravolti i «principi statutari», ma non erano questi ridotti da anni a vuoti simulacri retorici senza alcuna incidenza sulla linea politica del MSI? E se è scandaloso (perché storicamente falso) attribuire all'antifascismo -e non agli "Sherman" e alle "Fortezze volanti" alleate- il merito di aver riportato in Italia la «democrazia» che il «fascismo aveva conculcato», non si può ignorare che la tardiva vocazione antifascista è del tutto strumentale, tesa solo a legittimare una pletora di oligarchi che non si accontentano più del parassitismo clientelare al quale fin dai tempi di Michelini si erano votati, quello per intenderci del «partito taxi» controllato in grande parte dalla destra DC, ma pretendono ora di recitare alla luce del sole un ruolo ben più consistente e remunerativo di quello svolto nel passato recente e remoto. Un'operazione politica, quella di Fini, esemplare per realismo e tempestività, portata a termine con cinica e brutale determinazione.
Ma dire che Fini, a Fiuggi, ha affossato il MSI è una menzogna; egli ha solo reso evidente, visibile, ufficiale una svolta già interiorizzata da gran parte dei «quadri» e della «base» stessa del partito («rautiani» compresi).
Il «tradimento» si era consumato da tempo con il progressivo svuotamento dei contenuti ideali e programmatici, e non certo per merito o colpa del solo Fini.
E Lei, on. Rauti, non può prestarsi al gioco per obliterare parte delle Sue responsabilità e compiacere i residui nostalgici che oggi la acclamano. Così contribuendo a mantenere inalterata la favoletta melensa di un Fascismo monolitico, esente da contraddizioni, dottrinariamente lineare. Tanto «lineare» che si potrebbe agevolmente dimostrare che la stessa Alleanza Nazionale è molto meno antifascista di quanto Fini vada cianciando; e non solo per quanti ritengono fondata l'interpretazione defeliciana sulla disunità esistente tra fascismo-regime e fascismo-movimento, ma anche nel constatare che la stessa denominazione "Alleanza Nazionale" fu assunta, nel '30, da una componente interna al Partito Nazionale Fascista, facente capo ad Adelchi Serena e Mario Vinciguerra, che si riprometteva di coniugare «fascismo e libero mercato». Precedente storico certo marginale, ma non per questo privo di rilevanza e significato!
Il dubbio che ci attanaglia, on. Rauti è che, i pur drammatici avvenimenti dell'ultimo periodo, non siano stati sufficienti a separare le due anime che all'interno del MSI convivevano. Abbiamo la sgradevole impressione che attorno alla "Fiamma", che si vorrebbe alimentare, si siano accampati troppi «destri», troppi nostalgici, troppi filo-americani, troppi filo-capitalisti, troppi fautori del «partito d'ordine» e di contro ne rimangano a debita distanza quanti nel corso di questi anni hanno preso le opportune distanze da una politica reazionaria e occidentalista che ha uniformato la Sua segreteria alle gestioni precedenti e seguenti dell'on. Fini.
Ciò precisato, appare evidente che il «fondamentalismo continuista» che permea tutta l'azione dei "Comitati per la continuità del MSI" è politicamente suicida in quantochè alla chiara e inequivocabile scelta reazionaria e liberaldemocratica di AN avrebbe dovuto corrispondere un'altrettanto nitida virata a sinistra dei nazionalpopolari. Ci si ostina a portare avanti l'equivoco, a far finta di ignorare che sotto le insegne del MSI hanno convissuto due schieramenti, due culture, due visioni del mondo che la logica politica vorrebbe contrapposte; da una parte quanti si richiamavano al fascismo movimentista e repubblicano nel quale confluirono l'ala sinistra del partito socialista, i sindacalisti rivoluzionari, i futuristi di Marinetti e le associazioni anarchiche; dall'altra gli eredi delle "camicie azzurre" di Federzoni, la borghesia che indossò la «camicia nera» non per diventare fascista ma bensì per borghesizzare il Fascismo ponendo le premesse per le tragiche e ingloriose pagine del 25 luglio e dell'8 settembre.
Vede on. Rauti, conoscendo la sua statura intellettuale, siamo arrivati alla determinazione che l'equivoco, di cui sopra, sia dovuto a malriposte illusioni elettorali, ossia alla pretesa di conservare intatto l'attuale potenziale per riversarlo nelle urne. Sono diversi i segnali in questo senso tra i quali, quello più significativo è l'accorrere sotto le Sue insegne di personaggi che in questi quattro anni hanno mendicato davanti a tutte le Chiese: da quella di Pannella a quella di Bossi. Bèh, siamo convinti che i risultati saranno commisurati alla mediocre superficialità con la quale è stato analizzato il quadro politico; la «ribellione» di Fiuggi non oltrepasserà la soglia dei seggi elettorali e seppure la sua incidenza sarà senz'altro maggiore allo zero virgola qualcosa ottenuto da Pisanò, alle ultime politiche e solo in ragione di un autentico miracolo potrà approssimarsi all'uno per cento dei suffragi.
Attestarsi nel bunker, rinnegando le analisi e gli sforzi progettuali di vent'anni, nel momento, on. Rauti, in cui le sue straordinarie doti di preveggenza -non purtroppo supportate da pari capacità «realizzatrici»- trovano puntuali riscontri nella cronaca quotidiana, ci pare cosa non degna di un intellettuale della Sua levatura.
«Riscontri», non individuabili unicamente nel convergere di tutto il quadro politico nella palude centrista, che conferisce nuovo vigore alla tesi -per noi azzeccatissima- dello «sfondamento a sinistra», ma dall'uniformarsi degli schieramenti partitici alle esigenze del Mercato globale, così liberando ampi spazi all'azione di forze politiche e culturali che sappiano farsi interpreti dei problemi economici e morali di parte consistente della società civile.
Ma oseremo dire, caro Onorevole, che la tesi dello «sfondamento a sinistra» -che tante polemiche suscitò a suo tempo tra i corifei sostenitori di Fini- andrebbe oggi, per così dire, estremizzata, ossia trasposta dal tattico allo strategico, in virtù delle mutate condizioni politiche. Sarebbe insufficiente limitarsi ad intercettare le frange scompaginate di socialisti e comunisti in crisi d'identità, ed occorrerebbe «andare oltre», collocandosi anche fisicamente «a sinistra» nel momento stesso in cui si attenuano -fino a dissolversi- i legami intercorrenti tra Sinistra istituzionale e ceti popolari e intermedi.
Una crisi, egregio Onorevole, non determinata dalle scelte programmatiche di Bertinotti e D'Alema (anche se quelle di Rifondazione limitate all'aspetto culturale e non economico), ma dal venir meno delle «ragioni» stesse degli ex-marxisti di «essere sinistra», che, a nostro modesto parere, sono da individuarsi nell'ambiguo rapporto parentale che intercorre tra capitalismo burocratico di Stato e capitalismo finanziario apolide.
Vero è che vi sono, a supporto di questo ragionamento e a sostegno di una decisa svolta nazionalpopolare, altri stimoli: le difficoltà sempre più evidenti del liberalcapitalismo. Non si tratta -più volte in queste pagine ne abbiamo tentato l'analisi- di una delle periodiche turbolenze che, dal '29, hanno scandito lo svilupparsi e l'affermarsi del modello economico-sociale oggi dominante, ma di un malessere profondo, capace di sgretolarlo; la crisi della cellula fondamentale, dalla quale tutto il sistema trae la linfa vitale che gli è necessaria per vivere ed espandersi: il «consumatore produttore».

Se a sostenere questa tesi fosse solo un periodico marginale e marginalizzato qual'è "Aurora" si potrebbe pensare che ciò è dovuto alla sopravvalutazione di alcuni elementi del quadro politico-economico interno e internazionale ed alla sottovalutazione di altri. Circostanza assai comune nelle analisi «estremizzate» e «autoconsolatorie» di «gruppettari» impotenti.
Ma, Lei sa bene, on. Rauti, che, anche se in spazi defilati, i grandi quotidiani borghesi ospitano spesso opinioni simili alle nostre e a volte molto più malevoli rispetto alla «sbornia da liberismo» in quanto che ciò esporrebbe l'intero sistema occidentale a pericoli letali.
L'accusa più consistente che viene mossa alla deregulation economico-finanziaria è quella di avere, attraverso la politica degli sgravi fiscali, dopo il 1982, dilatato, facendolo deflagrare il deficit pubblico, apprezzando il dollaro su valori insostenibili per la competitività industriale, ed innescando così, paradossalmente, tensioni protezionistiche antiliberiste, e indebolendo in misura non sopportabile il ruolo d'intervento sociale dello Stato. In nome di un malinteso liberismo, osservano gli economisti, si tagliano i bilanci della scuola e della ricerca, si permette alla disoccupazione di dilagare, si tollera il degrado delle aree urbane deboli. «Ancor più -rileva un noto analista- la pericolosità di un liberismo senza regole si può rilevare in quei paesi a struttura economica debole in Europa come in America Latina (che hanno subito i più o meno lontani esperimenti in salsa cilena) e nella preoccupante transizione russa verso un mercato dominato da mafia e corruzione». Perfino nella «vivacissima espansione dell'economia cinese» vi sarebbero, a detta degli esperti economisti, «analoghe e pericolose spirali liberismo-corruzione».
I rilievi non si limitano ad una critica spietata delle scelte economiche governative ed arrivano ad investire pesantemente il modello di sviluppo «in versione oligarchica, dove il confine tra liberismo ed arbitrio di poche grandi famiglie o lobbies è assai sottile». Il tono di queste filippiche «antiliberiste» è senz'altro sconcertante quando si spingono ad affermare che «la crisi del modello di sviluppo più che attribuibile a deviazioni «partitocratiche» della democrazia parlamentare ha la sua causa prima nella collusione partiti-sindacati-grandi imprese che difendono i propri interessi di categorie scaricando i costi sulla collettività meno rappresentata nelle sedi istituzionali (contribuenti, risparmiatori, disoccupati, cittadini fruitori di servizi pubblici). Una collusione che di volta in volta scarica la «garanzia» dell'occupazione e dei redditi (incluse le pensioni) nonché il sostegno agli investimenti (anche improduttivi) sui bilanci dello Stato. Una collusione che trova terreno fertile nel campo delle opere pubbliche, gestite come acquisizione di consenso e di potere economico e politico, anziché come investimento soggetto a severo scrutinio di redditività e utilità sociale. Gli esempi sono tanti, e non solo di casa nostra: si va dalla fallimentare politica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e del pubblico impiego in Italia, alla crisi finanziaria dello Stato sociale svedese, alle insufficienze del modello giapponese di banca-impresa con intreccio azionario, che tutto è fuorché trasparente e permeabile ai controlli».
Sono questi «stralci» estrapolati dal "Corriere della Sera", "Sole 24 Ore" e "La Repubblica" a riprova di quanto prima si sosteneva. E ci pare che lo situazione non tenda a migliorare, anzi! Il punto è che nel momento stesso in cui il capitalismo è costretto a produrre a minor costo per far fronte alla spietata concorrenza dei Paesi del Sud-Est asiatico, non può che utilizzare al massimo la tecnologia riducendo ai minimi termini l'utilizzo di manodopera, allargando di conseguenza l'area di emarginazione sociale, riducendo il potere d'acquisto di vaste masse di consumatori che sono vitali per mantenere la redditività dei sistemi di produzione.
Siamo all'avvitamento, al serpente che si morde la coda. Le aree di malessere si allargano fino a superare la soglia di tolleranza. Storicamente, allorché un modello economico-sociale perde i requisiti per i quali si è affermato, entra in crisi ed è destinato a crollare. La società dei «due terzi», che sarebbe l'ultima frontiera delle oligarchie finanziarie, non è proponibile. L'espulsione dalla logica consumista di due terzi della popolazione avrebbe nei Paesi occidentali contraccolpi devastanti.
In conclusione, on. Rauti, pensiamo di averle -anche se in parte e molto altro vi sarebbe da dire, ma lo spazio è tiranno- spiegato i motivi delle nostre perplessità e la nostra riluttanza a firmarle cambiali in bianco sostenendo un'ipotesi politica confusa e approssimativa, priva del respiro necessario nell'attuale frangente storico per poter giocarci la «partita».
Ciò precisato da parte nostra non vi sarà nessuna preconcetta ostilità e seguiremo attentamente il suo tentativo auspicando che la severità del giudizio qui espresso sia smentita dai fatti. Tenendo conto anche dei nostri personali sentimenti nei Suoi confronti, ci auguriamo che questa non sia solo una speranza. Ci illudiamo ancora, per dirla con i versi di un grande poeta, che «laddove è più profonda la tenebre, là si annuncia l'aurora».

Luigi Costa

 

 

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