da "AURORA" n° 23 (Febbraio 1995)

POLITICA E SOCIETÀ

Verso il partito unico:
itinerari possibili dei neo-liberaldemocratici italiani

Giovanni Mariani

Siamo tutti liberaldemocratici? Così pare, o meglio sarebbe più corretto affermare che la caduta del socialismo reale ha innescato una diffusa rincorsa al travestimento liberale, tanto a destra quanto a sinistra, al punto che risulta oggettivamente difficile individuare nello scenario parlamentare un soggetto che non si autodefinisca liberaldemocratico. Questa "rivoluzione" che si pretende nata sulle ceneri della sedicente Prima Repubblica, ha, a mio avviso, una origine ben più lontana che può essere individuata, a seconda dei casi, sia nel XX Congresso del PCUS del '56 (con l'avvio della destalinizzazione e delle aperture di Kruscev), che nella morte di Breznev, o con la caduta del Muro di Berlino.
Volendo sostenere la tesi più vicina, in termini temporo-spaziali, dovremmo far coincidere la caduta del comunismo, nell'estate del 1989, con gli scioperi dei minatori russi avvenuti nel luglio-agosto di quell'anno, che con qualche ragione potrebbero essere individuati come la scintilla che innescò, da lì a qualche settimana, i disordini di Lipsia e Praga ai quali seguì, dopo qualche giorno, la crisi nella DDR e nella Cecoslovacchia e il tragico cambio della guardia in Romania. Un travaglio repentino conclusosi l'anno seguente con la caduta dei regimi comunisti d'Ungheria e Bulgaria.
Nel qual caso si volesse invece far coincidere la caduta del comunismo ad eventi anteriori non vi è dubbio che la crisi irreversibile del socialismo reale è stata innescata dalla morte di Stalin e dal XX Congresso che criminalizzando la figura del Piccolo Padre delegittimava tutta l'esperienza marxista, ponendo una formidabile ipoteca anche sul futuro dell'Impero sovietico. Escludendo le episodiche quanto inutili riabilitazioni del Tiranno caucasico (come quella della rivista "Communist" nel '69), che rispondevano ad esigenze del tutto strumentali della politica brezneviana, è lecito affermare che il socialismo reale è morto nel '56 con il XX Congresso, in quanto, il passaggio dal marxismo-leninismo burocratico e monocentrico alla successiva «direzione collegiale», di stampo revisionista, ne sanciva, di per sé, la fine con una svolta che non poteva che portare il Partito ad un, sia pur timido, approccio con il libero mercato e a scelte, per quanto necessarie, fortemente in contraddizione con i princìpi base della «dittatura del proletariato».
Che, poi, Breznev sia riuscito a differire nel tempo il crollo dell'Impero comunista grazie alla rincorsa sugli armamenti e alla riacutizzazione della Guerra Fredda non cambia la sostanza. Perché se da un lato la stagnazione brezneviana fu utile in termini di conservazione del quadro geopolitico, in cui la Potenza sovietica recitava un ruolo preminente, dall'altro si risolse in un vero e proprio suicidio sotto l'aspetto economico, accelerando la crisi della obsoleta organizzazione produttiva dell'URSS.
Qui si chiude il cerchio delle contraddizioni; il popolo sovietico che aveva identificato il comunismo con Stalin visse la destalinizzazione come abiura del comunismo. Questa diffusa sensazione fu avvalorata dai disastrosi risultati economici e dal fallimento della politica di pianificazione; basti pensare che alla fine degli anni Ottanta l'URSS manteneva ancora una vera e propria «economia di guerra», ed era lontana dall'aver risolto i problemi dell'approvvigionamento dei beni primari e delle abitazioni. Tanto più che il trionfalismo ottimistico dello stalinismo, che di fatto costituiva la «speranza popolare» era stato ridimensionato, togliendo al popolo sovietico anche il «sogno» e lasciandolo alla mercé d'una realtà cruda e avvilente in cui si avvertivano chiari e tangibili i troppi passati e presenti inganni.
Crollato il comunismo, anche in termini ufficiali dopo l'agosto '91, l'assetto politico europeo e italiano non poteva che adeguarsi al mutamento dello scenario che non contemplava più la rigida contrapposizione tra blocchi ideologici affermatisi durante la Guerra Fredda.
Tornando sulla vicenda nazionale va ricordato il ruolo essenziale, nel quadro della strategia NATO, assegnato all'Italia, pedina geopolitica vitale per il controllo del Mediterraneo e per la tenuta dello schieramento Sud dell'Alleanza atlantica. Domato l'Orso russo, anche ad un sistema obsoleto, burocratico e corrotto come quello italiano venne imposto un recupero di efficienza ed un maggiore allineamento alle esigenze dell'economia capitalista. Ciò poteva ottenersi unicamente attraverso una rapida e violenta delegittimazione della classe politica di centrosinistra. È da sprovveduti non contemplare, nella dinamica degli avvenimenti, "Tangentopoli" come una diretta conseguenza del crollo marxista.
È bene chiarire che la "rivoluzione" innescata da "Mani Pulite" e dalle elezioni del 27/28 marzo non è di per sé -come qualche incauto mostra di credere- «un ricambio della vecchia classe dirigente», ma piuttosto un'evoluzione politica che, guardando ai modelli anglosassoni, tende alla costituzione di soggetti politici con le stesse caratteristiche. Il Polo di Destra, ad esempio, che rappresenta l'anima piccolo-borghese e ultra-moderata non si contrappone ideologicamente allo schieramento progressista in quanto l'idea di società che entrambi propongono è sovrapponibile e le differenze sono meno che marginali. Persino Rifondazione Comunista, che pure è considerata una formazione estremista, si differenzia dagli altri soggetti politici solo sul piano economico e non certo in quello culturale.
Qual'è la differenza tra i Soloni della cultura di sinistra, schierati a difesa degli interessi borghesi ed i politici rampanti di Forza Italia e Alleanza nazionale? Nessuna, proprio nessuna! Del resto la visione del mondo di questa Sinistra liberal, appiattita sulle suggestioni della cultura d'Oltreoceano, sensibile al disagio di quella parte della società ricca e viziata, può dirsi in qualche misura lontana dal «sogno italiano» di Forza Italia, anch'esso conclamato referente della cultura statunitense? Non inseguono entrambi lo stesso «sogno»? Ossia, massificare gli ideali borghesi nelle sue due varianti; reaganiana o clintoniana!
Le analisi rischiano di cadere nel più pedissequo semplicismo, ma è comunque indispensabile segnalare con grande evidenza il pericolo che il modello sociale che si propone per il Terzo Millennio è quello dell'«american way of life». Tutti, in pratica, a cantare la stessa canzone; con Alleanza Nazionale che si dichiara per la solidarietà (Ohibò!), fonda Comitati contro l'intolleranza e il razzismo ed esprime, con tutta la virulenza del neofita, la sua condanna dell'antisemitismo ritenendo inaccettabile persino la critica agli eccessi del sionismo e alla politica criminale dello stato ebraico nei confronti del popolo palestinese. Questo, senza volersi addentrare troppo nelle strategie finiane e per fare un esempio sul concetto di «destra sociale» espresso da Fini e Buontempo; un nonsenso assoluto che è copia conforme del «collettivismo oligarchico di Orwell». Ma almeno quest'ultimo era fantapolitica!
È difficile trovare anche tenui ragioni di ottimismo in questo quadro politico; se Achille Occhetto ieri si genufletteva nella City, oggi Massimo D'Alema afferma con tono trionfale di aver pranzato con i massimi esponenti della NATO e dell'Alta Finanza. Contemporaneamente il "Manifesto", irriducibile quotidiano comunista, si trasforma in SpA, aprendo al capitalismo, col quale evidentemente corre, da sempre, buon sangue... Altro che il rinnegato Kautsky...!
Del resto le complicità tra la Sinistra ed i nemici di un tempo è sotto gli occhi di tutti, e non si può non evidenziare che essa è da tempo legata a doppio filo con quanti, Confindustria e Grande Finanza internazionale, non erano certo estranei alla degenerazione della Prima Repubblica.
La lunga marcia verso il Capitalismo della Sinistra italiana in generale e dei comunisti in particolare è iniziata ben prima del crollo del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro; ci si scorda che fin dal 1968 il partito comunista indirizzò gran parte del suo attivismo politico alla salvaguardia e dilatazione delle «libertà borghesi» piuttosto che in quella della costruzione del socialismo. In questa ottica l'Ottantanove più che per il crollo del comunismo -fatto verificatosi ben prima- va ricordato per il venir meno delle sovrastrutture totalitarie che alle soglie del nuovo millennio non riflettevano più le nuove esigenze che il Mercato globale, sempre alla ricerca di nuovi spazi, imponevano. Questo poteva anche avere riflessi positivi qualora si fosse accompagnato ad un reale recupero delle sovranità nazionali (annichilite dall'imperialismo russo) e libertà individuali alle quali una società civile non può certo rinunciare. Ma è cosa diversa e ben più pericolosa qualora sia solo un Cavallo di Troia -come nella sostanza è stato- teso in primo luogo a smantellare il quadro di garanzie sociali -e morali- che comunque i totalitarismi avevano costruito.
E tra i sistemi totalitari non possiamo non includere il pachidermico potere democristiano imposto all'Italia, che si fece garante, accrescendolo, dello Stato sociale ereditato dal Fascismo, perseguendo -pur tra errori e degenerazioni- obiettivi solidaristici e popolari e mantenendo sotto il controllo dello Stato settori economici vitali come l'energia e la ricerca. E non si può certo negare che il mantenimento, ad esempio, di un apparato poliziesco, per certi versi ben più efficiente e raffinato di quello diretto dai Bocchini, Senise e Buffarini Guidi, servisse solo a garantire «la democrazia»; esso era ed è uno strumento flessibile in grado di assolvere a compiti che vanno ben al di là del mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica (tutta la strategia della tensione e la convivenza con i poteri forti, criminali e non, è una chiara indicazione in questo senso).
È comunque accertato che il regime democristiano prima e quello di centrosinistra poi hanno posto, per oltre mezzo secolo, un freno alle istanze del capitalismo più selvaggio; basti pensare ad uomini come Mattei, La Pira e lo stesso Craxi che per alcuni versi hanno anche incarnato istanze sociali e di indipendenza nazionale pur rimanendo sempre in minoranza all'interno della corrotta macchina elettorale democristiana e socialista.
L'intralcio al Mercato in salsa liberista rappresentato dai soggetti politici della Prima Repubblica, dal PCI al MSI (con l'eccezione dei liberali), andava rimosso, svuotando i partiti politici delle componenti anticapitaliste che erano ben presenti, seppure con visioni limitate e moderate. Del resto la involuzione liberaldemocratica, pur essendo stata accettata da tutti, tanto a destra che a sinistra, presenta ancora non pochi centri di resistenza. Le «sacche di socialismo reale», contro le quali si scagliava Cossiga nel '92, sono lungi dall'essere totalmente eliminate e difficilmente saranno azzerate nel breve spazio di qualche legislatura. Ciò per una serie di motivi che andiamo ad elencare:
a) nonostante gli sforzi di Achille Occhetto e Massimo D'Alema per proiettare la Sinistra e il PDS verso orizzonti liberaldemocratici, Rifondazione Comunista guarda con grande diffidenza all'avventurismo pidiessino conservando intatta tutta la carica anticapitalista del marxismo;
b) il ricambio di alcuni segmenti del potere politico e della pubblica amministrazione non è bastato ad annullare le resistenze all'interno della macchina amministrativa e burocratica;
c) uomini come Agnelli e De Benedetti, che sull'attuale sistema hanno fondato i propri imperi economici, non intendono lasciare troppo spazio ad un anarco-liberismo senza regole e limiti.
In quest'ottica mi pare utile tentare di capire quale sarà il ruolo di Alleanza Nazionale, visto e considerato che all'interno del MSI-destra nazionale hanno sempre convissuto due anime, una nazionalpopolare e nazionalreazionaria l'altra. A Fiuggi, mi pare di poter affermare con assoluta certezza, Gianfranco Fini ha portato a termine la lunga marcia di avvicinamento al liberismo iniziata da Michelini e proseguita da Almirante. Non bisogna dimenticare, infatti, che Michelini ed Almirante avevano per lungo tempo, con metodi scientifici, quasi marxisti, isolato e represso le opposizioni anticapitaliste interne fiancheggiando, in numerose occasioni, la parte più retriva e reazionaria della DC. Fini ha solo portato a compimento l'opera di codesti Maestri superandoli, abbondantemente, in cinismo, spregiudicatezza e malafede.
Ma nonostante la nuova veste liberalconservatrice, e la chiara abiura di tutto il suo retroterra ideale e culturale, Fini non è sufficientemente affidabile per un ruolo guida del Polo conservatore; troppo repentina la svolta; troppo posticci e approssimativi i contenuti del suo credo liberista.
Così se a Sinistra tengono banco i vari Bordon, Veltroni, Adornato quali esegeti dichiarati del partito democratico all'americana, a destra saranno per qualche tempo Forza Italia e la pattuglia dei Riformatori di Pannella a rappresentare l'ossatura ideologica del partito repubblicano italiano. È abbastanza evidente che, in questo momento, l'apporto di Alleanza Nazionale è solamente politico e numerico e non certamente ideologico. Questo anche tenendo conto del ruolo che, all'interno del Polo conservatore, avranno economisti come Martino e Dini; teste d'uovo formatesi all'interno di organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale, frequentatori quotati dei Centri di Ricerca e delle Università statunitensi. Certo fra i due vi è qualche differenza; Martino è più vicino alla concezione anarco-liberista di Berlusconi e Friedmann di quanto non lo sia Lamberto Dini più legato alla tradizionale commistione Stato-privato. Ma questo non cambia la sostanza del loro ruolo che è quello di cinghia di trasmissione delle istanze economiche dei centri di potere internazionali.
E poi mi pare doveroso porre in risalto una figura mefistofelica della politica italiana, la vera Eminenza grigia di Forza Italia, l'americano per eccellenza; colui che spesso è deriso e sbeffeggiato, ma che da diverso tempo muove i fili all'interno di Forza Italia con una lucidità strategica stupefacente, che nessuno degli alleati di Berlusconi possiede. Parliamo di Marco Pannella; chi meglio di lui ha saputo finora interpretare lo «spirito dei tempi»? Chi meglio di questo imbonitore, di questa presunta vittima del sistema partitocratico, può escogitare valanghe di «riforme» americanizzando dolcemente la società italiana?
Marco Giacinto Pannella è il vero «rullo compressore» a disposizione del Polo di destra, lo Sciamano del verbo anglosassone che dopo avere corroso e corrotto la Sinistra si mette a disposizione delle strategie antipopolari della Destra. L'uomo dell'aborto e del divorzio, dei diritti dei gay, della depenalizzazione delle droghe, che «flirta» cattolico Casini e col conservatore Fini. L'unico capace di pensare tra i tanti demagoghi privi, di respiro «riformatore», che già lancia nuove campagne referendarie in linea con i desiderata del grande capitalismo e in particolare dei Chicago Boys ai quali pubblicamente ha ammesso di ispirarsi.
Certo, quando Pannella afferma che le attuali rappresentanze sindacali sono una truffa a danno dei lavoratori ha qualche ragione, ma è bene capire dove il Nostro intende andare a parare: all'abolizione di tutti i soggetti sindacali tout court! Certo se si trattasse d'abolire i Sindacati per sostituirli con un sistema di cogestione socializzata delle imprese noi saremmo d'accordo! Ma non ci pare questa la sua intenzione. Il suo progetto è ben altro ed è direttamente collegato a quello più volte enunciato dalle associazioni imprenditoriali; cancellare le rappresentanze sindacali per poter ridimensionare, con la minore opposizione possibile, il quadro di garanzie sociali.
A questo punto il cerchio si chiude. Il partito unico liberaldemocratico è stato varato e procede a ranghi serrati. Tanto a sinistra quanto a destra si parla lo stesso linguaggio. Il modello Usa si afferma definitivamente cancellando le differenze e sensibilità che rendevano diversi e l'un l'altro alternativi i vari soggetti politici. La fedeltà all'imperialismo americano si è affermata al punto da scimmiottarne il modello legislativo. La velocità della svolta italiana deriva anche dalla preoccupazione, delle centrali d'Oltreoceano, di uniformare le economie avanzate a «modello unico» in un momento di grave crisi strutturale dell'economia liberalcapitalista che gli Stati Uniti ritengono di poter affrontare solo se si verificano due condizioni:
1) che tutti i paesi ad economia avanzata assecondino politicamente, economicamente e militarmente gli Stati Uniti per ridurre la turbolenza delle nazioni non allineate al modello occidentale;
2) che i paesi alleati non permettano al loro interno la crescita di formazioni antagoniste di massa che pongano in discussione il predomino economico e politico statunitense.
In questo senso l'affermarsi del bipolarismo in Italia rappresenta un indubbio successo per quelle forze che aspirano al controllo della economia dell'intero Pianeta.

Giovanni Mariani

 

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