da "AURORA" n° 23 (Febbraio 1995)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Lettera aperta a Massimo D'Alema:
la questione fascista

Enrico Landolfi

Signor Segretario del partito Democratico della Sinistra, provvidenziale, a mio sommesso avviso, l'importante impegno internazionale di Bologna che le ha sacrosantamente impedito di presenziare alla kermesse di Fiuggi dove, sotto spoglie liberaldemocratiche più o meno mentite, un Gianfranco Fini sempre più furbo e sempre più ingenuo (come tutti coloro usi a sostituire la creativa intelligenza con astuzie destinate a lasciare il tempo che trovano) si accingeva soltanto ed esclusivamente a cambiare di spalla al pistone da scaricare, più che mai da posizioni reazionarie, contro la Sinistra e le connesse forze democratiche di avanguardia.
Certo, la delegazione della "Quercia" era pur sempre di pregiato conio rappresentativo. Gli on. Pecchioli, Ranieri, Zani non sono gli ultimi arrivati. Anzi, vengono in evidenza quali aspetti fondamentali e del modo di essere del PDS. (A proposito: fino a quando ancora si chiamerà così? Che noi si sappia attendere di essere stritolati dal più che mai imperversante «nuovismo», cui non par vero poter fagocitare qualcos'altro dopo aver fatto un solo boccone di parole caro al movimento operaio e popolare come comunismo e socialismo). E tuttavia il leader del partito è altra cosa. Ed è bene che nel nuovo/vecchio regno di Ciarrapico non ci sia andato.
On. D'Alema, queste considerazioni non suonino contestazioni «da sinistra» alla decisione degli organi responsabili pidiessini di accettare l'invito del gruppo dirigente di Alleanza Nazionale. Ho settecentocinquantasette difetti -piuttosto qualcuno in più che qualcuno in meno- ma non sono un estremista. Pur mai stato comunista e quindi, leninista, ricordo volentieri, con grande piacere morale, intellettuale, un famoso monito di Vladimir Ilic, grande maestro di rivoluzione: «gratta gratta l'estremista e salta fuori l'opportunista», il provocatore, mi permetto, modestamente, di aggiungere. Mi rendo conto, pertanto, che un grande partito come il Suo ha responsabilità eccezionali, straordinarie, tracimanti non solo l'area strettamente di riferimento ma anche l'insieme della Sinistra, essendo gli interessi totali della democrazia, del popolo nella sua interezza, dello Stato e della Costituzione, il vero, ineluttabile imperativo categorico. Sic stantibus rebus, non era il caso di negare una deputazione ufficiale alla massima assise di un partito come quello che fu della Fiamma ed ora della Fiammella; se non altro, per sottrarsi all'accusa di duplice settarismo e di mancanza di educazione. Ma ciò detto, osiamo sperare che Botteghe Oscure non vada oltre la presa d'atto della novella fede più o meno «liberaldemocratica» del signor Fini e dei suoi amici; e della loro, almeno sembra, disponibilità a scrivere insieme agli altri compari del parlamento le famose «regole» che dovrebbero rinnovare da cima a fondo la vita politica e l'assetto costituzionale del Paese. Naturalmente nel quadro di quella civiltà anticonsociativa e maggioritaria che ogni giorno di più spacca l'Italia in due grandi fazioni incomunicanti e incomunicabili; appiattisce in due ammassi la grande ricchezza di opzioni culturali e ideali che sempre caratterizzò il quadro italiano anche durante il fascismo (chi non ricorda la dicotomia defeliciana di «fascismo istituzione» e «fascismo movimento»?); ci fa vivere in un perenne clima di guerra civile (almeno fino ad ora) non cruenta; e distrugge la Sinistra «comandandone» il mortale processo di dislocamento al Centro dei contenuti della sua proposta.
Legga, signor Segretario, tanto per dirne una, il resoconto dell'intervento pronunciato dall'intellettuale di estrema destra Fausto Gianfranceschi -autore, fra altri di pari indole, del volume "Stupidario della Sinistra", pubblicato dalla Ed. Rusconi di Milano- dalla tribuna di Fiuggi. Di esso, il "Secolo d'Italia" -organo del fascismo antifascista ad uso e consumo dei Neri diventati Azzurri per un miracolo di Santa Giovanna d'Arcore- diede contezza intenzionale e soddisfatta nei memorabili giorni in cui potemmo assistere a una delle massime operazioni trasformistiche della storia patria, nell'ambito delle quali non è detto che De Pretis e Giolitti ricoprano ruolo di docenti e Fini e Tatarella -fatte, si capisce, le debite proporzioni- quelli di discenti. Disse dunque il Gianfranceschi: «In questa nuova fase dobbiamo rivendicare la cultura di destra contro la sinistra, che è un'anticultura perché profondamente anti-italiana». A vero dire, non risulta che "L'Unità" profondamente anti-italiana". A vero dire, non risulta che "L'Unità" -ottimamente diretta, peraltro, da quel Walter Veltroni a me particolarmente caro da quando ha reiteratamente chiesto che sia data soluzione di continuità all'odio di cui è infestata la Repubblica- abbia risposto al Gianfranceschi nel modo e con i termini che meritava, facendo così balenare in noi, il sospetto che la commendevole prudenza della Sinistra stia scivolando verso la sua deplorevole traduzione degenerativa: il prudenzialismo; insomma, come non rilevare che «il giornale fondato da Antonio Gramsci» avrebbe potuto cogliere in castagna i pasticcioni provocatori di Fiuggi denunciando l'assurdità di rivendicare, con la faccia tosta che li distingue, addirittura il retaggio «nazionalpopolare» della cultura gramsciana, del comunista Gramsci, per poi consentire ad uno squadrista del pensiero di definirla anticultura e anti-italiana. Mai migliore occasione risultò sprecata.
Tutta questa chiacchierata a mezzo stampa, Onorevole è propedeutica ad una proposta che intendo formulare, a Lei e al Suo partito, apertis verbis perché grandemente e a molti interessa. Non sarebbe esagerato definirla strategica in quanto, ove accettata con o senza ...emendamenti, finirebbe per dislocare il discorso relativo alla destra verso indirizzi e obiettivi assolutamente inediti per il PCI, poi PDS, dell'ultimo quarantennio. Essi però -con varia fortuna, differenti esiti, impostazioni e dimensioni talvolta positive, tal'altra meno- vennero in luce come aspetti di un grande momento, di una linea del dialogo, di confronto, di comprensione reciproca fra il «partito della classe operaia» ed i «fascisti di sinistra» fin dagli Anni Trenta. Una linea che fu all'origine -unitamente all'approccio rassicurante, sinergico, superatore di altri steccati antichi e obsoleti- della formazione del «partito nuovo», nazionale, di massa, democratica le cui radici si collocano ben al di là della famosa «svolta di Salerno». Su di essa sarei in grado di scrivere un volume ampio; sia perché coinvoltovi in vari modi e misure a livello personale -ma codesto è discorso che porterebbe assai lontano, fuori dall'economia di un apporto epistolare al tema che propongo alla Sua riflessione-; sia per passione di italiano, impegno di studioso, tensione ideale, propensione diciamo pure rivoluzionaria. E non è detto che, prima o poi, non sarò in grado di far gemere i torchi di qualche editore interessato e coraggioso. Al momento mi limito a farLe presente quanto già, mi pare, ho avuto occasione di dirLe in una precedente missiva; e cioè che quella «linea» non solo è stata malauguratamente abbandonata -in omaggio al solito ciclopico errore moralistico di marca azionista, stando al quale «con i fascisti non si parla»- ma ha ricevuto fieri e, forse, non voglia Iddio, irrimediabili colpi dal disastroso modo di fare politica verso le masse del post-fascismo scelto dal Suo predecessore, che a furia di demonizzare, maledire, condannare, esorcizzare, sparare nel mucchio ha finito col regalare la bellezza di cinque milioni e mezzo di voti ad Alleanza Nazionale. 
Ora, io Le chiedo di ripristinare quella politica -vogliamo chiamarla «via italiana al socialismo», o sarebbe troppo retrò?- ovviamente aggiornata, arricchita, perfezionata, purgata dei «perdonismi» e degli «annessionismi» fuori luogo e fuori stagione. Che poi, a ben rammemorare, all'epoca non furono pochi e neppure tanti; visto e considerato che per tutta la seconda metà degli Anni Quaranta e per un buon pezzo dei «Cinquanta» uscì in Roma una rivista quindicinale, "Il pensiero nazionale" diretta dallo scrittore sardo Stanis Ruinas cui facevano riferimento gli «ex-fascisti di sinistra» solidali con le battaglie della Sinistra. Costoro, giovani e non giovani abbastanza altolocati nel Regime Littorio e nella RSI o soldati semplici che fossero, troppo «ex» non erano; se è vero, come è vero, che si raggrupparono -senza obiezioni e anzi con incoraggiamenti da parte del PCI e del PSI- costituendo non solo una struttura organizzativa propria ma anche elaborando un'autonomia culturale, ideologica, di giudizio storico. Insomma, niente «maddalenismi»; e neppure umilianti palinodie, Sant'Uffizi antifascisti, lavacri purificatori. Tutte cose odiose, specialmente se pretese da chi si professa laico, libertario, o, addirittura seguace dell'analisi marxista.
Potrei diffondermi, volendo, sulle larghe concessioni contenute nelle proposte di amicizia e alleanza avanzate -correva l'anno di grazia 1937 dal PCI «ai nostri fratelli in camicia nera», ossia alle masse dei lavoratori e dei giovani fascisti. Potrei discettare sulla grande simpatia con cui nella redazione parigina di "Stato Operaio" si seguivano -in special modo da Ruggero Grieco- le lotte ingaggiate da sindacalisti fascisti come Fontanelli, Cianetti, De Ambris, Landi, Micheli, Fioretti, Aghemo, Maia, Manunta e tanti altri per contrastare l'egemonia capitalistica e superare i limiti che una concezione angusta del corporativismo poneva alla iniziativa loro e delle classi lavoratrici, da essi dirette e tutelate nei confronti delle componenti conservatrici, di destra del Regime.
Una simpatia che in Di Vittorio si spinse fino a proporre ad Amilcare De Ambris, padre spirituale e capo riconosciuto dei sindacalisti reduci dalla catastrofe politico-bellica, di entrare nella CGIL unitamente a costoro per organizzarvi da leader una autonoma, caratterizzata corrente.
Ma tutto ciò potrebbe essere materia per il libro che -forse o senza forse verificandosi le condizioni necessarie sufficienti, sia di tempo disponibile che di possibilità concrete- mi accingerò a scrivere. Hic et nunc, preferisco utilizzare lo spazio che questi miei amici di "Aurora" mi concedono per, come suol dirsi, battere il ferro finché è caldo per quanto attiene alla esigenza, da varie sponde vivissimamente avvertita, di restaurare i preziosi dialoghi fra la Sinistra -di cui il Suo, Segretario, è la massima espressione- e i veri o presunti «fascisti di sinistra», talmente di sinistra da risultare disponibili e, perché no?, desiderosi di un costruttivo, sinergico confronto ravvicinato con le proiezioni partitiche e culturali del movimento operaio e popolare.
Poniamo il caso che Lei avesse bisogno (si fa per dire!) di un input psicologico per prendere in considerazione quanto Le vengo sollecitando. Se così fosse, le riferirei ciò che ebbe a dirmi, l'allora Segretario di Rifondazione Comunista, on. Sergio Garavini, poche settimane prima di lasciare il suo incarico nel corso di un'intervista al mensile di politica e di studi storici per il quale lavoro, "Ragionamenti sui fatti e le immagini della Storia". Questo eccellente e cortesissimo personaggio -affascinante per la preparazione, il rigore culturale, la larghezza di idee- a proposito del rapporto fra Sinistra, democrazia nel suo complesso e fascisti, così esternò: «Per quanto attiene questo tema io concordo pienamente con Togliatti. Non bisogna, cioè, perseguitarli, emarginarli, bloccarli, annullarne di fatto i diritti di cui usufruiscono in virtù della Costituzione; ma, anzi, metterli in condizione di pienamente svolgere il loro ruolo politico, in modo da assuefarli alla vita democratica sino al punto che la democrazia penetri integralmente nelle loro fila, nelle loro coscienze, nel loro modo d'essere». Onorevole, non ho sotto gli occhi il testo della intervista e, quindi, ricostruisco mnemonicamente, ma, insomma, questo è esattamente il senso delle parole di Garavini.
Lei, certo, potrebbe dirmi che, in fondo, questo ha fatto, sta facendo, la Quercia con Alleanza Nazionale. E io le risponderei che è vero, ma non sufficiente per chi, come Massimo D'Alema è sostanzialmente democratico, ossia non solo attento ai meccanismi parlamentari sic et simpliciter della democrazia -pur fondamentali, irrinunciabili-, ma anche e soprattutto, al suo spirito, che tanto manca nel partito di Fini (basta dare una scorsa ai resoconto degli interventi congressuali. Roba da far rizzare i capelli sulla testa di un calvo!). Per chi, mi piace soggiungere, come Massimo D'Alema è uomo di sinistra e della Sinistra, «un socialista europeo», come egli ama definirsi. Con osservanza e la più viva stima, in attesa di una nuova lettera che Le invierò con il prossimo numero di "Aurora".

Enrico Landolfi

 

articolo precedente indice n° 23 articolo successivo