da "AURORA" n° 23 (Febbraio 1995)

RAGIONAMENTI

Colletti il « pentito»

Francesco Moricca

Su "L'Italia settimanale" del 8/2/95 è pubblicata un'interessante intervista di Alessandro Scorzini a Lucio Colletti, definito «filosofo e politologo, nonché marxista pentito». Interessante, anzi molto interessante, questa intervista. Per due ragioni. In primo luogo, per l'analisi, spesso sfumata e allusiva, della situazione politica italiana. In secondo luogo, perché il suo contenuto è una conferma delle tesi, da tutti noi più o meno condivise, sull'essenza del marxismo come generale concezione del mondo, nonché come particolare tattica e strategia politica.
Il marxismo non è che l'altra faccia del liberalismo, e gli è stato antagonista -e lo è tuttora persino nelle frange che non hanno rinnegato le radici comuniste- solo in quanto i vantaggi della condizione borghese non erano e non potevano essere estesi anche al proletariato. Questi vantaggi non attengono tanto alla sfera del benessere materiale quanto alle «libertà» e ai «diritti» borghesi; in ultima istanza la massima libertà dell'individuo nel gestire a suo talento la propria esistenza. Questo è appunto l'obiettivo ultimo del «comunismo», che avrebbe dovuto raggiungersi dopo la fase intermedia del «socialismo». Inoltre il marxismo eredita dal liberalismo la concezione accentuatamente "élitaria" del partito e la struttura segreta, quasi iniziatica, del suo vertice, che ha avuto non poche somiglianze con la Massoneria e con le sue tattiche destabilizzanti, specie in determinanti frangenti storici.
Basti questo per rendersi conto in quale errore sia incappato Scorzini nel definire Colletti un «marxista pentito». Un marxista che «torna» al liberalismo (addirittura al liberalismo classico), mostra al contrario una coerenza di ferro. Non si «pente» affatto, ma esprime compiutamente la tendenza di fondo del marxismo. Che è quella di risolversi in un puro pragmatismo funzionale alla logica del liberalismo, manifestazione oggettiva della soggettiva, individualistica mentalità borghese che si «materializza» reificandosi, distruggendo la materia stessa col ridurla nei termini della rappresentazione astratta del valore indicato sulla carta moneta, infinitamente convertibile e moltiplicabile secondo processi che sono del tutto innaturali. Nel regime attuale di egemonia di un capitale puramente finanziario, la mentalità del borghese non è più quella propria alla vecchia -e perché non gloriosa?- figura dell'imprenditore privato, ma quella propria al mercante fenicio, all'avventuriero predone e senza scrupoli che è il modello primordiale del contemporaneo finanziere e la sua prima realizzazione storica. Va poi aggiunto che, per lo stesso Lenin, qualsiasi mezzo è buono -quindi in teoria anche il «pentitismo»- pur di conseguire lo scopo rivoluzionario. È la famosa tattica di «saggiare il terreno con la punta della baionetta», scansando il terreno duro e affondandola dove esso è cedevole. E sia detto con tutto il rispetto dovuto a Lenin, col quale certamente il marxismo toccò il massimo di antagonismo antiborghese che gli era consentito dalla sua natura. Per cui, non è affatto escluso che Colletti -e con lui tutti i comunisti o ex-comunisti nostrani- «si penta» un'altra volta, all'occasione. Non bisogna dimenticarsene mai.
Veniamo adesso all'analisi che Colletti propone dell'attuale momento di cui l'esito del Congresso di Fiuggi gli sembra il punto nodale, e in cui si risolve un processo storico che Fini ha intuito fra i primi e ha saputo gestire da par suo, rivelandosi uno «tra i politici più intelligenti e più audaci che abbiamo», oltre che «il miglior oratore del parlamento».
Questo processo è indicato -giustamente- nel venir meno delle ideologie politiche e nel fatto che l'Italia debba finir prima o poi con l'uniformarsi al bipartitismo che domina negli USA e nei maggiori Paesi europei.
Stranamente -ma ciò, come si è visto, ha una ben precisa spiegazione- Colletti sorvola non solo sulle cause per così dire «sociologiche» di questa necessità di adeguarsi a modelli «stranieri» (sarebbe stato il caso di parlarne, sia per correttezza scientifica, sia perché si faceva l'elogio di un partito che si definisce "Alleanza Nazionale"), ma sorvola anche su una questione politica della massima importanza: quella riguardante il crollo dell'Impero sovietico e la conseguente caduta del comunismo nostrano. Circa gli ex-comunisti, si limita a constatare che sono allo sbando, visto che l'opposizione al governo Berlusconi l'ha fatta «Bossi, non certo D'Alema», e che -possiamo aggiungere- D'Alema si è fatto così platealmente giocare da Buttiglione, sicché non gli rimane in mano altra carta che quella di un Segni e di un Prodi. Ammesso che a Buttiglione non riesca pure di far rientrare i pattisti e impedire l'uscita dal PPI della sinistra dei Mancino e della Bindi; su cui, in caso di spaccatura, non è escluso che l'astuto Buttiglione potrebbe esercitare qualsiasi genere di influenza, al limite il ricatto «di un caso di coscienza», se la tentazione del potere non dovesse agire da sola sui potenziali transfughi...
Colletti sembra anche aver ben chiara l'importanza del Partito Popolare per la futura stabilizzazione del quadro politico, ma anche qui si limita a suggerire piuttosto che formulare ipotesi chiare. A lui interessa soprattutto, molto pragmaticamente, mettere alla frusta il PDS. In un'intervista pubblicata su "L'Avvenire" del 7/2/95, è anzi assai esplicito nell'accusare il PDS di continuare nella vecchia tattica spartitoria del defunto PCI, e denuncia l'ormai miope intento di occupare solo «posizioni», come nel caso emblematico -che ha dello scandaloso- della RAI. E per finire, prende assai opportunamente le distanze dalla curiosa tesi del maître à penser Norberto Bobbio, secondo il quale converrebbe al PDS una politica «centrista», come se su questa via non si fosse già incamminato l'astuto Buttiglione, con molte maggiori possibilità di successo anche indipendentemente dalle sue personali capacità manovriere. È vero, questo D'Alema che -come si vocifera- avrebbe in mente di convocare l'assise del Partito per cancellarne dal simbolo la falce e il martello (unicamente per tale scopo), fa rimpiangere perfino Occhetto e la sua disarmata ingenuità. Sembra ormai ridotto ad imitare il «depuratore» Fini, non rendendosi affatto conto che, nella sua posizione, ciò significa consegnare alla destra di Buttiglione e di Alleanza Nazionale la patente di veri difensori dei ceti più deboli: proprio quello che invece Colletti fa mostra di escludere categoricamente.
Insomma, il ragionamento che sembra emergere dalle dichiarazione del «filosofo e politologo, nonché marxista pentito» è il seguente: che anche i progressisti «anticlericali» -fra i quali si pone lo stesso Colletti nell'intervista a Scorzini) devono schierarsi con AN (!?!), per l'incapacità dimostrata dal PDS di rinnovarsi autenticamente, di diventare veramente un partito socialdemocratico. E quando anche vi riuscisse, non potrebbe sfuggire alle pesanti sconfitte che la socialdemocrazia va da qualche tempo collezionando proprio nei Paesi europei dove era tradizionalmente più forte. «Da quindici anni le socialdemocrazie europee vengono sonoramente battute», per cui il destino del PDS è «segnato» e niente lo «salverebbe dal confinamento all'opposizione, in minoranza» dice Colletti. Queste sono affermazioni tratte dall'intervista all'"Avvenire", dove pure si accusa la socialdemocrazia europea «di non aver capito» che è ormai necessaria «una revisione-ridimensionamento dello Stato sociale». Nella intervista a Scorzini, Colletti aveva messo in guardia Alleanza Nazionale dal «cadere» nello stesso «errore».
Si può essere più liberali e più reazionari di così? Non lo credo. Ma questa non è l'aberrazione di «un rinnegato del marxismo», è il marxismo. Colletti è nato come filosofo alla scuola del marxismo più intelligente (quella di Galvano Della Volpe, già professore di mistica fascista). Ha avuto una sorte privilegiata rispetto a quella del marxista Gorbaciov. Ma gli approdi sono identici. Ciò è solo un caso? O forse la conferma della tesi qui sostenuta sull'essenza del marxismo? Tesi «scandalosa» per i marxisti, e quanto meno «assai discutibile» per molti non-marxisti e perfino per un Buttiglione.
Bisogna ora domandarsi perché Colletti escluda, nell'intervista a Scorzini, che AN possa aver fortuna assumendo le difese dello Stato sociale e dei ceti più deboli, e lo consigli di non ripetere l'«errore» della socialdemocrazia. Le ragioni tecniche sono chiare. Meno chiare quelle sottilmente politiche. Colletti concepisce AN come la nuova DC, che nel «futuro quadro politico italiano dovrebbe garantire all'indirizzo accentuatamente neo-liberista del governo una copertura nei confronti del Vaticano, quanto meno una certa neutralità fino alla morte dell'attuale e assai «scomodo» Pontefice. Egli è però sicuro che ciò non potrebbe mai accadere fino a quando la componente nazionalpopolare non viene ridotta all'impotenza o cacciata da AN, perché tramite di essa, Rauti, e ciò che questi rappresenta, continuerebbe ad esercitare la sua influenza. Sono convinto che a Rauti si guardi con molto interesse in quegli ambienti vaticani che seguono la linea del Pontefice e sono fieramente avversi all'ipocrita miopia dei catto-comunisti: quegli stessi ambienti che hanno scelto il filosofo Buttiglione per una azione di «altro tipo».
Sicché, dietro i «consigli» e le «speranze» pseudo-patriottiche di Colletti non dovrebbe esservi altro che la paura di Rauti. Se Rauti tiene il campo, AN non potrà diventare compiutamente ciò che è nei voti di Colletti e del più accorto marxismo nostrano; non potrà diventare «la balena grigia», con quel tanto di «nero» che occorre per tenere a bada la protesta popolare, che non potrà non esplodere, anche in maniera violenta, quando i sacrifici che verranno richiesti dovessero diventare intollerabili.
Epperò di Rauti non ha paura solo Colletti. Ha paura anche la sinistra del Partito Popolare e, supponiamo, anche una certa sua destra maggioritaria. Se leggiamo infatti l'inchiesta "I ragazzi di destra" pubblicata su "Famiglia Cristiana" del 8/2/95, ci accorgiamo che si è cercato di minimizzare, in modo abbastanza scoperto, sulle «simpatie di destra dei giovani». Si chiama in causa il sociologo De Lillo dell'Università Statale di Milano, il quale spiega il fenomeno col fatto che «i ragazzi non hanno più remore a definirsi di destra», a causa della «decadenza dei valori», che ovviamente sono quelli consolidatisi in cinquant'anni di «democrazia»; non lo si dice esplicitamente, ma si capisce benissimo che sono, in ultima analisi, i valori «catto-comunisti». La tesi di De Lillo e di "Famiglia Cristiana" è certamente esatta, se si identifica la destra per cui i giovani simpatizzano con la destra «vincente», con la destra economica di matrice anglo-americana. I giovani, salvo rarissime eccezioni, non ne conoscono altra (: e non sono certo loro i responsabili della loro ignoranza, come non lo sono nemmeno delle loro simpatie, che sono del tutto predeterminate dalla pubblicità e dalla stessa scuola). Che potrebbero conoscere un'altra "destra", è però oggi possibile proprio perché sono crollati i tabù sulla destra, anche quelli non certo per caso. Bisogna dunque impedire in ogni modo che una simile possibilità si attualizzi. In primo luogo, qualificando la destra «vincente», in secondo luogo ignorando l'altra "destra" e addossando a quest'ultima la responsabilità delle «intemperanze» e al limite dei delitti che ieri come oggi sono stati compiuti dal Potere. Così, l'inchiesta di "Famiglia Cristiana" è corredata da un articolo di Radius titolato "Gli scheletri nell'armadio", in cui si parla, tra gli altri, di Rauti e del libro di Brambilla "Interrogatorio alle destre". Due appunti sono da muovere a Radius: che non si dia alcuna spiegazione del perché Rauti e Pisanò abbiano ammesso oggi «quasi con disinvoltura (...) una verità che non era poi tanto nascosta» riguardo alle stragi degli anni Settanta; e poi che non abbia neanche accennato alla diversità reale fra le posizioni di Rauti e Pisanò, almeno in materia ideologica (non basta fare l'elogio delle qualità intellettuali di Rauti e presentare invece Pisanò quasi come un ignorante e un volgare botolo).
In definitiva, questa paura di Rauti è tra i pochi dati confortanti dell'odierno quadro politico. Si ha ancora paura della verità. Ed è per questo che si deve dirla. Forse è giunto il momento per iniziare una «battaglia per un nuovo illuminismo», di segno opposto a quello settecentesco, ma che dovrebbe avere lo stesso potenziale antagonismo e la stessa carica dirompente. 

Francesco Moricca

 

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