da "AURORA" n° 24 (Marzo 1995)

IL DIBATTITO

Il coraggio della sinistra

Vito Errico

Teme la deriva élitaria. Chi? Ma la nobiltà di sinistra, quella corte di àristoi che ha in Adornato e Galli della Loggia i pontefici massimi di una religione che diventa ogni giorno appannaggio d'un nugolo di stiliti. La deriva élitaria significa che si perde il contatto con la gente, che un tempo si nobilitava agnomicamente in popolo. Com'è strana la sinistra che parla per bocca di D'Alema e cervello di queste «teste d'uovo». L' upercut dello sbriciolamento del Muro mantiene nel tramortimento un corpo paralizzato. Perché? 
Perché D'Alema, politico puro e di vaglia, come lo ritiene una stampa scritta da mezze calzette, che si annidano in redazioni sempre più zeppe d'imbecilli piramidali, contende a Fini, altro grosso cervello, così giudicato dalle solite redazioni... Che cosa contende D'Alema a Fini? La data delle elezioni. 
Ma la vita dell'uomo, il suo destino, il destino di una Patria, l'avvenire di un popolo, il sentire di una Nazione, l'agire di uno Stato sono subordinati ad una data di elezioni? E dopo le elezioni che cosa succede? Può una questione istituzionale sostituirne una politica? 
Dalle risposte sensate che si danno a queste domande si ricava la tragedia dei tempi moderni. La politica sta venendo meno alla sua funzione precipua che è quella di progettare, di ideare l'uomo, la pianificazione della sua vita, delle sue città, del suo mondo. E la democrazia è un metodo per ottenere questi risultati. Facciamole queste affermazioni, che al sottoscritto non costano fatica: è più di vent'anni che si esercita il diritto di voto e si è diventati democratici per forza. L'alternativa è la deriva élitaria. Che cosa sta succedendo? Di quella ideazione, della pianificazione del modello di mondo non c'è traccia. Non solo. Da sinistra arriva la demonizzazione della democrazia. Esagerazioni? Nossignori. E vediamo. Ascoltate gli interventi degli uomini di sinistra. 
Imprecano contro un peronismo plebiscitario della destra. Non potendo ricorrere al solito, stereotipato fascismo, ripiegano sul peronismo. È la solita guerra di parole che ha affascinato questa sinistra logorroica e ladra nonché consociativa. E se la prendono col plebiscito, che altro non è se non l'appoggio che la maggior parte del popolo italiano ha dato ad una cricca di avventurieri che ha in Berlusconi il capintesta. 
Si è fatta male, questa sinistra, ma anziché sforzarsi di capire dov'è l'errore, si abbandona alla logorrea. Mentre Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, vota per il Cavaliere. E siccome concede consenso ai piduisti, il popolo è plebeo, come sostiene Luigi Pintor. Le cui argomentazioni vengono subito placcate dai pennivendoli della destra per paludarsi d'una difesa popolare che la reazione non ha mai avuto. Se la sinistra ha preferito la massa senza identità, soggetta alle manipolazioni più ardite, la destra ha fatto di peggio: su quella massa ha spianato i suoi cannoni ed ha fatto fuoco. Bava Beccaris è la realtà storica, ma la violenza apparentemente virtuale contro le classi popolari non ha inferto minor danno. Emigrazione, disoccupazione, sottoccupazione sono proietti d'una stessa bombarda. E se si afferma la demagogia verbosa infarcita d'impostura del Cavaliere, la sinistra non riesce più a compiere l'analisi dei processi sociali, come denuncia Stefano Rodotà. E non riesce a farlo perché è rimasta prigioniera del concetto di egemonia. Diciamola tutta; oggi la sinistra è il PDS, la sinistra è D'Alema. È o si vuol che sia? O sarebbe anche qualcos'altro? 
Ci sono nella società italiana fremiti che non riescono ad avere l'onore della cronaca. Il solito mondo mass mediologico corre sempre dietro il potente di turno. Eppure nelle città fiorisce l'associazionismo federato: realtà locali, organizzatesi dietro la spinta del soddisfacimento di bisogni negati, allargano i loro orizzonti. E questo avviene anche al Sud, in quel Sud sonnacchioso, apatico e conservatore, preda dei Gava prima, dei Tatarella dopo e dei soliti gattopardi, che sono peggiori dei primi e migliori dei secondi. Questi fenomeni sono ostacolati dall'egemonia del PDS, dall'arroganza dei suoi uomini, dei suoi «prefetti», delle segreterie che stentano a capire d'essere ormai generali senza soldati. 
In soldoni, la sinistra fa fatica ad accettare il pluralismo. Forse s'è convinta che la dittatura del proletariato è ormai merce marcia, ma le è rimasta, come camicia di Nesso, quella tendenza a soffocare parole e pensieri. Ma dov'è il limite di questa sinistra? Nel non saper pensare in grande, nell'aver timore di avvicinarsi a tematiche che sono carne e sangue dell'uomo, nel non saper spiegare l'effimerità dei suoi miti. Prendete l'internazionalismo: è stato il cavallo di battaglia della sinistra. Non è riuscito ad attecchire e gli uomini si sono regolarmente scannati in due guerre mondiali e in centinaia di conflitti locali. Perché l'internazionalismo è un'impostura, come la fratellanza. Lo sanno bene Baltici, Ungheresi, Polacchi, Cecoslovacchi che hanno subito cicliche invasioni dei «fratelli» di Mosca. E perché è un'impostura? Perché sotto i piedi dell'uomo c'è la terra, la terra calpestata dai figli, dai padri e dai padri dei padri. La terra è memoria, è tradizioni, è cultura, è civiltà. La terra è un legame forte che unito all'idioma dà una Patria. Non si può negare l'evidenza d'un fatto. 
La sinistra deve diventare patriottica. E non farebbe fatica. C'è una branca dell'interventismo, da Corridoni a Pertini, da Di Vittorio a De Ambris, a Togliatti ed anche a Gramsci, che rappresenta un aggancio storico di non lieve entità. Lo Stato è stato patrigno della sinistra, perché è stato violenza dei poteri dello Stato, che si sono accaniti contro chi languiva nel bisogno. Ma quando la statolatria muore e al suo posto s'insedia un concetto di Stato che è organizzazione della vita comunitaria, la sinistra può -e deve- acquisire il senso dello Stato, perché senza esso non si governa. L'antitesi dello Stato è l'anarchia, la quale a sua volta è pura utopia se non teoresi. 
Ma laddove la sinistra deve essere presente e non lo è più, è nel comparto socio-economico. Nel fallimento della sinistra in questo settore c'è la ragione della «Stalingrado d'Italia» che vota per il Cavaliere. Domanda: se il capitalismo italiano fosse stato partecipazionista, nel senso che nel corso di questo mezzo secolo si fosse data piena attuazione all'articolato costituzionale che prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende e alla divisione degli utili, le fabbriche di Sesto San Giovanni avrebbero fatto la brutta fine ch'è incolta loro? 
La sinistra che va a Londra in bombetta, come fa la destra, rappresenta la tragedia del lavoro italiano. Perché turibolare ancora un capitalismo accattone che produce ormai solo povertà? 
È d'altro che s'ha bisogno. Bisogna tornare ad un livello di conflittualità che non può avere i risvolti melliflui della attualità. Il nostro è un paese dalle grandi potenzialità. Se siamo risorti dopo la guerra e i debiti sono stati onorati, possiamo farcela ancora perché le nostre case sono in piedi. Le nostre macerie sono morali, ma ciò non è limitativo. Però bisogna cambiare modello di sviluppo. È necessario riscattarci dal nodo scorsoio di certi trattati internazionali che ci soffocano. Noi non siamo la Francia né la Germania; noi non abbiamo un sottosuolo ricco. La nostra ricchezza viene dall'economia di trasformazione, frutto del lavoro delle nostre braccia e dei nostri cervelli. E queste nostre specificità non vanno perse di vista. 
La scelta dell'Europa è libertà; questa Europa è una forca. La sinistra rifletta su queste argomentazioni ed abbia il coraggio di esprimersi. E di chiedersi: era questa l'Europa sognata da Altiero Spinelli? Il capitalismo non ha patria e il continuo richiamo dei padroni all'Europa puzza maledettamente soltanto d'affarismo. 
Ribellarsi, quindi. Ribellarsi all'idea che il sistema previdenziale nazionale sia fomite di sventure finanziarie. Quand'eravamo più poveri ed avevamo da rialzare i muri delle città bombardate, pagavamo lo stesso le pensioni. Quel democristiano di Prodi, una verità l'ha riconosciuta: la grandezza del '900 non fu la bomba atomica, bensì lo Stato sociale. 
Bisogna combattere il privilegio, laddove s'annidia e prolifica. Non si può fustigare il deputato nazionale, privilegiato come un dignitario se in Italia esiste un privilegio per ogni categoria. I ferrovieri non pagano treno, i telefonici non pagano telefono, gli elettrici non pagano luce, i cassintegrati fanno lavoro nero. Che senso ha chiedere la tassazione dei BOT, dai duecento milioni in su? O tutti o niente. E sarebbe preferibile tutti. Certo, ci sarà un effetto qualora ciò avvenisse, ma quando si fa una proposta, bisogna far precedere il movimento labiale dal lavoro neuronico. 
Altrimenti si fa demagogia. E Hobbes insegnava che questa è la degenerazione della democrazia. 
Queste sono idee forti che la sinistra deve professare a voce alta, battendo i pugni sui tavoli, con il rossore della foga sul volto. Per la vulgata, bisogna tornare ad incazzarsi. Perché se non lo si fa, allora si scivola fra le fauci dei demagoghi oppure fra le mandibole dell'integralismo religioso. Fra le une e le altre, a rimaner triturata è sempre la dignità dell'uomo. Per difendere questa dignità ci vuole coraggio.

Vito Errico

 

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