da "AURORA" n° 24 (Marzo 1995)

L'INSERTO

Economia socializzata e realizzazione spirituale

Francesco Moricca

La fatica e la sofferenza sono strettamente legate alla percezione del tempo. Fatica, sofferenza, lavoro e tempo, altrettanto strettamente legati fra loro nella coscienza comune, non soltanto nella riflessione filosofica e scientifica. Sant'Agostino spiega la percezione del tempo in relazione alla condizione di dolore. In assenza di dolore e di noia, si prova «piacere» e si perde la percezione del tempo, si vive nell'«eternità», come Dio. Nel libro della Genesi, il lavoro e il dolore sono il castigo che segue alla colpa di Adamo, e, per il principio dell'ereditarietà della colpa, gravano sulla sua progenie fino alla «consumazione del tempo». In latino «labor» significa «fatica», «pena», «travaglio». Per Virgilio «sventura». Per Columella «malattia». Per alcuno poeti «solis labor» è l'eclisse solare.
Secondo gli Antichi, pertanto, la felicità consiste nell'«otium», nella liberazione dalla «condanna del lavoro»: lavoro però inteso come necessità di sussistenza, come fatto ripetitivo, non creativo e «divino», fatto che come tale viene definito «negotium», donde il nostro «negozio». Non è vero che l'«otium» degli Antichi implicasse il disprezzo del lavoro manuale. L'arte infatti, sia in Platone che in Aristotele, non può essere avulsa dalla fisicità in genere e dalla manualità (dall'abilità manuale) in particolare. In guerra poi (e le società antiche sono tutte società di guerrieri) non solo non entra in gioco la medesima inventiva e perizia manuale dell'artista ma il fattore rischio: il guerriero ha di fronte la morte e non può correggere gli errori, come può sempre fare l'artista.
L'«otium» non comporta quindi una gratuita avversione per il lavoro manuale, giudicato «di pertinenza degli schiavi». Non è riconducibile alla cosiddetta «divisione del lavoro» e allo «sfruttamento dell'uomo sull'uomo». Dovrebbe essere evidente che, se il guerriero ragionasse in termini utilitaristici, «da mercante», non dovrebbe concepire la guerra come il valore supremo e come un'esperienza mistica. L'economia antica ha origini del tutto extra-economiche: la sua organizzazione riproduce il modello dell'organizzazione militare, e non si combatte per ragioni economiche, ma perché nel combattimento si sprigionano forze primordiali, le quali convergono in un'unica direzione: la liberazione dalla schiavitù dell'esistenza, che i moderni, in una prospettiva assai parziale e ristretta, hanno appunto identificato con la schiavitù alle leggi della sopravvivenza e dell'economia.
In poche parole, la guerra è un «lavoro» finalizzato a distruggere l'incommensurabilità dell'esistenza rispetto all'essenza, ciò per cui l'uomo, e in un certo senso la natura nel suo insieme, non sono Dio. Guerra e lavoro sono un'azione orientata verso l'immobilità, il non-divenire, la stasi di un essere trascendente. E soprattutto quando quest'azione ha connotati luciferini, come nel caso dell'edificazione della Torre di Babele, o del furto del Fuoco divino da parte di Prometeo. Il lavoro degli schiavi costruisce per distruggere il tempo. Le Piramidi divorano la vita di migliaia di schiavi e la stessa tranquillità del Faraone, che non può diventare vero dio se non quando la sua sepoltura sarà ultimata. Ma alla fine le Piramidi divorano il tempo.
L'«otium» supremo è il conseguimento di una stasi che libera dallo stesso «principio del piacere». Non «si gode» in questa condizione di stasi, in questa inattività attiva perché non conosce la noia: si è beati. La descrizione della beatitudine di un guerriero moderno che, ricevuta una ferita che ritiene mortale, è convinto di star per morire, la si può leggere nel finale di "Tempeste d'Acciaio" di Ernest Junger. Senza essere un guerriero, chi ha conosciuto l'esperienza liminale della morte, racconta di aver veduto lo splendore di una luce più intensa di quella solare, di essersi sentito «pervaso» da essa e «indicibilmente felice».
Se i poeti antichi hanno parlato dell'eclisse solare come di un «solis labor», dev'essere per il seguente motivo: la fatica utile soltanto a perpetuare il divenire pullulante e privo di senso dell'esistenza, equivale all'«oscuramento» di un altro sole, o a uno stato patologico, secondo Columella. Ma l'oscuramento presuppone la luce, come la malattia presuppone la salute. L'eclisse, il sole «oscurato» e «malato», il Sole Nero degli alchimisti, il Piombo Saturnio donde gli alchimisti cavavano l'Oro, l'Età dell'Oro che ebbe il suo centro nella «saturnia tellus» (l'Italia) ed ebbe termine con l'autonascondimento di Saturno nelle viscere del Lazio («latium a latere», dice Livio): tutto ciò -con quanto si connette al mito virgiliano della restaurazione dell'Età dell'Oro- rimanda alla dimensione del lavoro umano che solo oggi può essere vista nella sua terrifica realtà, nel contesto della civiltà post-industriale. Oggi, alla fine dell'Età Oscura (che ebbe inizio attorno al IV secolo a.C.), il lavoro assai più che la guerra, esprime la trascendenza dell'azione umana come pura volontà autodistruttiva. Il lavoro -come ha mostrato Junger ne "l'Operaio"- ha cambiato il volto della guerra e ne ha messo a nudo l'essenza primordiale nella moderna versione della «guerra di materiali», in cui lo spirito è tutt'uno con l'Acciaio e si manifesta in una valenza prima ignota e inimmaginabile. Nell'età post-industriale, superato teoricamente il pericolo di una guerra nucleare, il Pianeta è minacciato da un pericolo anche più terribile, perché la distruzione avverrà in un arco di tempo molto più lungo. Intendo il pericolo di una possibile catastrofe ecologica, alla cui origine si trova ancora il lavoro, anzi -per quel che si è detto- il «monstrum» di una guerra non guerreggiata più letale della guerra propriamente detta.
Ciò pare inconcepibile, e il cosiddetto «pensiero debole» prova che è in effetti inconcepibile.
Vero è, invece, che ha una logica ferrea, una logica che però nessuno vuole accettare.
Tutti sarebbero disposti a concedere che la trascendenza costitutiva dell'essere umano -che in condizioni normali è volontà lucida e razionale- spinga l'uomo a distruggere la natura per distruggere la sua dipendenza da essa e per così dire la sua «naturalità». Epperò non al punto di distruggerla totalmente, anche perché, così facendo, distruggerebbe la «conditio sine qua non» dell'atto trascendente: che cioè vi sia «qualcosa» da trascendere.
Ma è pur vero che l'uomo contemporaneo, specie lo scienziato contemporaneo, è troppo «attaccato» alla sua naturalità (o «creaturalità» per alcuni) e non è in grado di comprendere veramente cosa significhi «dominare la natura». Essa è piuttosto «utilizzata» e «sfruttata». E questo non è dominio, ma l'illusione del dominio, perché l'uomo non riesce a controllare le modalità con le quali la natura risponde agli attacchi che riceve. Si può sostenere, pertanto, che la natura voglia la propria distruzione e si serva dell'uomo per realizzare il suo oscuro disegno.
È per tale motivo che il platonismo, la Gnosi fino al miglior Nietzsche, la Tradizione ermetica hanno visto nella natura una specie di «caduta» della divinità. Se il «ritorno» della natura alla divinità primigenia deve passare attraverso la distruzione della natura stessa, si comprende allora perché la sapienza antica pose limiti invalicabili alla ricerca scientifica, che comunque fu coperta dal segreto iniziatico. Limiti ancora più drastici furono posti alla scienza applicata. La scienza alessandrina -con Erone, Eratostene, Archimede, con i suoi molti e anche sofisticati congegni meccanici e idraulici, con i suoi «robot» («automata»), con la scoperta dell'energia del vapore e la costruzione dell'«eolipila»- avrebbe potuto anticipare la rivoluzione industriale. Solo che lo avesse voluto. Ma non lo volle, preferì il mantenimento di un'economia fondata sulla condizione subalterna di una larga parte dell'umanità.
Dunque, che l'uomo antico vivesse «secondo natura», quasi immerso nella natura, non è altro che un mito letterario che ebbe ben precisi riscontri nella speculazione politica, dal Cinquecento al Settecento e oltre. Ma all'origine di questo mito vi è una certa interpretazione che il cristianesimo diede dell'antichità «pagana», dalla quale peraltro ereditò non pochi ed importanti elementi.
Il cristianesimo trasse la sua avversione per la sessualità (che è il principale agente delle «ragioni» della natura e della sua signoria sull'uomo) non già dall'ebraismo, ma proprio dal platonismo, che costituiva il lato esoterico del «paganesimo». Il cristianesimo peraltro si sviluppò in un'epoca di decadenza e di accentuata licenza sessuale, per molti versi simile alla nostra: un'epoca in cui la licenza sessuale era tale che fiorivano una quantità di sette religiose nei cui riti la sessualità, spesso deviata, aveva un ruolo centrale, reale e non metaforico. La cosiddetta «sessuofobia» del cristianesimo ebbe pertanto una funzione positiva e un'origine pagana.
Ma il platonismo in che rapporto era con la più antica tradizione del culto di Apollo imperboreo, la religione «solare» che soppiantò quella pre-aria della «Magna Mater» nelle sue versioni mediterranee e non? In un rapporto sostanzialmente simile a quello che poi si instaurerà fra platonismo e cristianesimo, in quanto, per una forte influenza pitagorica, molti elementi di demetrismo passarono a Platone e si andarono accentuando nei suoi continuatori. La «sessuofobia» è caratteristica del demetrismo, e -come ha posto in luce Bachofen- fu il mezzo che rese possibile di dare un fondamento psichico al divieto dell'incesto, e nello stesso tempo al matriarcato quale primitiva istituzione giuridica.
È quindi lecito concludere che il conflitto vero fra apollinismo e destrismo non è tanto da ricercarsi sul piano etnologico, storico, economico, politico, perché la loro sintesi nel platonismo e poi nel cristianesimo sembrano escluderlo tassativamente.
È da ricercarsi piuttosto nella maggiore o minore incidenza che, nell'ambito della sintesi, viene ad avere di volta in volta il «principio della realtà», intendiamoci la «realtà» come «realtà naturale dell'uomo», come sua dipendenza dalla Madre Natura.
La dipendenza dal «principio della realtà» (anche come bisogno di quella «consolazione» che solo una madre sa dare) è già presente, sublimato nell'ideale della «philìa», presso il platonismo; si accentua nell'ideale cristiano della «charitas»; si estremizza nell'odierno culto mariano.
In definitiva, il cristianesimo accetta l'ideale eroico dell'apollinismo fino al punto in cui esso rimane al di qua dell'aperta ribellione al «principio della realtà», in ultima analisi alla legge della Madre Chiesa come istituzione. Dall'altra parte, l'apollinismo non può non scegliere la via della ribellione più o meno dichiarata, quando la tolleranza demetrica della Chiesa implichi ricadute nello stadio pre-demetrico dell'«eterismo», della licenza sessuale e della confusione dei sessi che immancabilmente ne segue anche somatizzandosi fisiologicamente, con quanto si accompagna a tale fenomeno sul più vasto terreno culturale e dei rapporti politici.
Si può spiegare così la complessa posizione dei fascismi europei nei confronti della Chiesa; più in generale i motivi del «centrismo» che i cattolici hanno assunto in politica dalla "Rerum Novarum" ad oggi.
Per un altro verso si è verificato un fenomeno inusitato: che il cristianesimo ha «trasferito» la sua dipendenza dalla natura -dal «principio della realtà»- ad ogni espressione di estremismo, qualificandola come neo-pagana. La minaccia, ogni minaccia al cristianesimo viene da una «natura cattiva». Da ciò, poi, il mito di una «natura buona» (a suo tempo fieramente contestato a Rousseau dal sacerdote cattolico Gerdil, e giustamente), mito che è stato adoperato contro il cristianesimo dai nemici del cristianesimo e di ogni religione.
Si badi, con questo non vogliamo affatto concludere che il cristianesimo sia viziato da una «contraddizione interna» e perciò sia falso. Una religione, qualsiasi religione, non può mai essere falsa, perché non è una qualsiasi «ideologia», un prodotto soltanto «umano». Nulla avrebbe impedito al cristianesimo di recidere ogni legame con la tradizione dell'apollinismo, e politicamente gli sarebbe senz'altro convenuto (fu anzi il sopravvento della componente apollinea su quella demetrica ciò che rese possibile il cristianesimo guerriero delle Crociate e dell'età della Controriforma, nella fattispecie la cristianizzazione del mito druidico del Graal).
In tale prospettiva, acquista un nuovo significato, tutt'altro che «reazionario» o anche piattamente «conservatore» la circostanza che la Chiesa sia stata e in parte continui ancora ad essere l'ultimo baluardo della lingua e della cultura classiche. Così anche l'opposizione, decisa ma per niente «oscurantista», alle prime manifestazioni del moderno metodo scientifico (alludo alla cosiddetta «vergogna» dei processi a Bruno e Galilei). Se le origini della scienza moderna risalgono al Medioevo e all'Ordine francescano (ad Ockham e Ruggiero Bacone), e sono dunque cristianissime, allora la scienza moderna, che è totalmente condizionata dalla dipendenza dal principio della realtà «naturale», non è forse una ripresa di sopravvento, in seno al cristianesimo, del demetrismo sull'apollinismo? E la scienza contemporanea dominante, caratterizzata dall'approdo finale nelle aporie del «pensiero debole», non costituisce forse una «regressione» dalla visione del mondo propria al demetrismo a quella propria dell'eterismo?
Un'ultima considerazione va tratta da quest'analisi. Chiunque voglia recuperare il contatto con la famigerata «Tradizione primordiale», dovrebbe farlo avvicinandosi al cristianesimo con occhio lucido e animo scevro da «pathos» esistenziale. Bisogna convincersi che la via diretta è impraticabile. Per converso i cristiani che sentono il fastidio e l'inautenticità dei sentimentalismi umanitari di certo cristianesimo corrente, dovrebbero avvicinarsi, con altrettanta impersonalità di prospettiva, alle altre confessioni religiose, cercando in cosa esse concordino fra loro e con lo stesso cristianesimo. Essi scopriranno così la «Tradizione primordiale». E riscopriranno la verità del cristianesimo, al di là delle sue «umane» falsificazioni.
È questo l'aspetto soggettivo della realizzazione spirituale. Il suo aspetto oggettivo consiste nella ricostruzione di un sistema politico-economico che la favorisca secondo giustizia, per ciascuno secondo le disposizioni spirituali ricevute dalla natura e suscettibili di sviluppo indefinito. Premesso che qui si assume il termine di «economia» nel senso alto proposto nell'omonimo trattato di Aristotele e per cui «economia» è il «governo della casa dell'uomo» (per estensione di significato, del suo «ambiente»), è da dire che l'economia assume nella concezione del mondo tradizionale la medesima importanza che essa ha nel marxismo-leninismo, per quanto le due concezioni siano diametralmente opposte; e che, quando si parla di economia tradizionale, si parla di corporativismo, ma non necessariamente di corporativismo fascista.
Così, nella concezione del mondo tradizionale, il corporativismo potrebbe rappresentare l'equivalente del socialismo nella concezione del mondo marxista-leninista. Dico «potrebbe», perché nella concezione tradizionale non solo è impensabile lo «Stato imprenditore», ma è impensabile anche la teoria dell'«estinzione dello Stato» e il regime di «comunismo» che ne dovrebbe seguire, perché la «natura concupiscibile» dell'uomo è riottosa alla sua «natura razionale» e può essere piegata in certi casi solo dalla forza. Lo Stato non è altro che il detentore di questa forza, il cui uso è legittimo solo se conforme all'«ideale della Giustizia». Lo Stato non ha in sé la sua «giustificazione»: non può assolutamente trarla «dal basso», ma dall'«alto»; sempre ed in ogni caso come sostiene Platone. Per tale motivo lo Stato non può avere parte nelle questioni economiche che non siano di indirizzo generale (pianificazione e controllo) e di supremo arbitrariato (nelle controversie eventuali fra i componenti dell'azienda). Nella concezione tradizionale non può avere luogo nessuna forma di «statolatria», e lo Stato detiene la suprema e incontestabile autorità solo in quanto è per così dire emanazione di una superiore Autorità Spirituale, della quale i governanti devono in tutte le circostanze presentarsi non già come i depositari, ma come i primi servitori.
Le analogie sostanziali fra corporativismo e socialismo (che comunque, visto quel che si è detto, non sono tali da far considerare il comunismo come un «corporativismo impaziente») hanno una ragione storica che è del tutto contingente: l'ostilità nei confronti del potere borghese e delle sue intollerabili ingiustizie che accumunò i rivoluzionari al tempo della prima Guerra mondiale e della Rivoluzione d'Ottobre. Poi l'alleanza venne meno per responsabilità delle potenze dell'Asse (ma non del Giappone) che ancora -oggi più di ieri- sono oggetto di discussione. Sta di fatto, però, che il comunismo ha ceduto le armi davanti al capitalismo, «vinto dalla logica del supermercato» piuttosto che da quella del ferro e del fuoco, come sembrava ragionevole aspettarsi.
Volendo ricostruire storicamente il modello del corporativismo tradizionale, se ne individuano tracce assai marcate nel Medioevo cristiano, assai prima che venisse definita la dottrina sociale della Chiesa a partire dalla "Rerum Novarum". In un seminario sulla Socializzazione organizzato di recente dalla Sinistra Nazionale si è menzionato il sistema delle "Partecipanze agrarie", ancora vigente in Emilia Romagna e che risale ai tempi di Gregorio VII. Si è anche ricordato un analogo sistema esistente in Sardegna fino al 1820.
Ma sono stati anche citati i molto più antichi "Collegia opificium" romani donde certamente derivò il corporativismo cristiano. Bisogna ora aggiungere che istituzioni analoghe sono state riscontrate nell'India antica e nell'antico Egitto. Il che ci riconduce appunto alla Tradizione Primordiale e alla seguente considerazione.
All'apollismo corrisponde l'organizzazione «socialista» dell'economia, per cui si è obbligati a vedere nel demetrismo, precisamente nel «diritto materno», l'origine della proprietà privata intesa come diritto di nutrire la propria prole con precedenza sulla prole altrui.
Ciò contraddice la tesi roussoniana e poi marxiana circa il preteso «comunismo primitivo». Del quale non è lecito parlare, così, più di quanto sia lecito parlare di «comunismo» fra gli animali; visto che, prima dell'instaurazione del «diritto materno», vigeva l'«eterismo», la promiscuità propria al mondo animale. La proprietà privata non ebbe origine dalla «prepotenza» del maschio, in epoca patriarcale o con la «rivoluzione del neolitico» (si vedano il "Discorso sull'ineguaglianza" di Rousseau e "L'origine della famiglia" di Engels), ma invece proprio in regime di matriarcato; che non è «naturale» o «comunista», perché «in natura», anche fra gli animali, la «madre» non conosce il «figlio»: lo abbandona e lo divora, o si accoppia con lui, a suo talento.
Ciò è una verifica della interpretazione del cosiddetto «progresso» che si è data nel corso della mia trattazione: sia in ordine alla scienza che al costume e alla politica contemporanee.
Procediamo ora a distinguere i "Sodalitia" dai citati "Collegia opificium" che devono ritenersi i veri antecedenti delle Corporazioni medioevali.
I "Sodalitia" erano associazioni private di liberi lavoratori che finirono col soppiantare gli antichi "Collegia" e divennero, nella tarda repubblicana centri di clientelismo e corruzione, come gli odierni sindacati nei Paesi «civili». Furono soppressi dal restauratore Augusto e non si ricostituirono mai più. I restaurati "Collegia", da Augusto in poi, divennero quasi istituzioni di Stato, specie per iniziativa di Imperatori come Traiano ed Alessandro Severo, il quale li estenderà a tutto il territorio dell'Impero. Per preservare i "Collegia" dalle tendenze disgregatrici ormai fortemente radicate nella società romana, fu necessario sottoporli ad un pesante controllo burocratico, che fu un limite come lo sarà, fra gli altri delle Corporazioni fasciste.
Ma col venir meno dell'autorità imperiale, si verificò spontaneamente, a causa di una lunga e grave recessione economica, un ritorno dei "Collegia" all'ordine più antico. Nel sistema curtense alto-medioevale esistevano associazioni di liberi artigiani (fabbri, falegnami, sarti) che godevano di ampia libertà e potevano spostarsi ovunque la loro opera fosse richiesta, anche senza previa autorizzazione del feudatario.
Il citato sistema delle "Partecipanze agrarie", nonché tutte le forme di gestione socializzata del lavoro che si riscontrano nel Medioevo come privilegio concesso dall'alto e non come «diritto naturale» rivendicato dal basso, vanno così ricondotti alla tradizione dei "Collegia opificium": a quello che, secondo le vedute del marxismo, sarebbe il «comunismo primitivo».
L'Hartwig ha invece dimostrato che perfino le "Ghilde" germaniche si sono modellate sui "Collegia" romani (ma è vero, piuttosto, che le une e gli altri hanno una comune origine, il che esclude la necessità di rincorrere a meccaniche e comunque problematiche influenze). Allo Hartwig si è obiettato che certi usi locali germanici hanno dato alle "Ghilde" una fisionomia del tutto particolare nel senso di una «maggiore democraticità». Questa mi sembra un'affermazione da prendersi con molta cautela, essendo dello stesso ordine di quelle care ad un certo illuminismo, e per le quali addirittura le differenti condizioni climatiche del territorio influirebbero sul carattere e sui costumi dei popoli. L'inclinazione scientifica a cogliere differenze e distinzioni non può infatti giungere al segno di cancellare gli elementi di identità, in particolare quando si analizzi la realtà umana. Qui certamente le ragioni di identità culturale -per non dire spirituale- dovrebbero avere maggiore risalto.
Così si potrebbe chiedere se il movente che spinse Tacito a comporre l'aureo libretto sulla Germania sia stato meramente storico-etnologico, o che non invece provenisse da un bisogno del profondo: cioè di riscoprire nei «primitivi Germani» le origini etiche della romanità, in un'epoca di profonda decadenza che Tacito avvertì e intese forse più e meglio di tutti quanti i suoi contemporanei. Per un altro verso, analoghe considerazioni si potrebbero fare davanti al quadro di Overbeck intitolato "Italia e Germania", quadro eseguito agli inizi del secolo scorso, in cui si vedono due nobili fanciulle in atteggiamento di pensosa amicizia, e in cui l'Italia è rappresentata in una postura di affettuosa predominanza, con il capo coronato d'alloro.
Riflessioni dello stesso tenore, ma in senso opposto, si possono fare per la celebre "Storia di Roma" del Mommsen, composta notoriamente dallo storico prussiano sotto l'influsso delle sue passioni politiche, nell'intento di interpretare le vicende della Roma repubblicana secondo le medesime categorie valevoli per la Germania ottocentesca, divisa dal conflitto fra democrazia liberale e autoritarismo «reazionario»: interpretazione che è stata poi rigettata dallo stesso Mommsen, il quale pur ripubblicando l'opera più volte non vi appose correzioni ne aggiunse la trattazione del periodo imperiale che tutti aspettavano, in quanto le sue ricerche posteriori al 1856 lo avevano convinto dell'arbitrarietà della tesi sostenuta nella sua opera più famosa, il cui valore, a parte la bellezza letteraria, era esclusivamente politico; cioè di testimonianza di una battaglia che lo aveva visto tra i maggiori protagonisti della vita parlamentare per un periodo intenso e non breve. Alle contestazioni a suo tempo sollevate dal mondo accademico contro le parzialità della «Storia» mommseniana, si dovrebbe aggiungere la constatazione della quasi totale incomprensione, da parte dell'Autore, non solo del cesarismo come fenomeno tipico della fase estrema della «civilizzazione», ma del suo significato democratico e più esattamente demagogico a fronte dell'opposizione repubblicana, oligarchica e ancora in parte autenticamente aristocratica e «reazionaria», cui appartenevano tutti gli storici romani ad eccezione di Sallustio, opposizione condotta in nome di una concezione della libertà esclusiva e antipopolare, che il Mommsen scambio invece per quella «democratica» e «progressiva». Epperò questo errore del Mommsen si spiega col suo liberalismo, e corrisponde all'«errore» di valutazione sulla politica di Bismarck, che lo storico giudicò antidemocratica perché non-liberale trascurando intenzionalmente la circostanza che la socialdemocrazia tedesca ammetteva senza reticenze il profondo valore popolare, e in questo senso democratico, di non poche iniziative del Cancelliere di Ferro.
Sappiamo che, studiando il rapporto di Bismarck con la socialdemocrazia Spengler giunse a teorizzare la sintesi di «socialismo prussiano» e bolscevismo, che ha avuto un seguito importante nella storia di questo secolo, checché se ne possa pensare, e per quanto nessuno se ne possa oggi nascondere gli aspetti ambigui e inquietanti, indipendentemente dai pregiudizi e dalle patenti falsificazioni della storia ufficiale, che -nessuno può negarlo- è stata sempre dei vincitori.
La sintesi di «socialismo prussiano» e bolscevismo ha, secondo me, storicamente il suo supporto teorico nel monumentale "Tramonto dell'occidente" di Spengler, nonostante i limiti segnalati da Evola e che qualsiasi lettore che abbia la pazienza di leggere tutto il libro, può rilevare confrontandolo con la più stringata ed essenziale "Crisi del mondo moderno" di Renè Guénon. In effetti l'importanza storica dell'opera spengleriana e da attribuirsi al suo enorme successo editoriale e al fatto che sia costruita con le medesime categorie concettuali della scienza ufficiale, categorie che sono invece rifiutate dai due Maestri latini, i quali, al di fuori di circoli, per così dire, iniziatici, furono ritenuti perlomeno degli «eccentrici». Circa la sintesi di «socialismo prussiano» e bolscevismo, è da segnalare la straordinaria attualità politica della visione guénoniana dell'Islam nel quadro di una rinascita dei Valori Tradizionali in Occidente.
Il momento della elaborazione delle strategie operative di questa rinascita, è nella riforma radicale del sistema economico senza la quale essa rimarrebbe una parola vuota, una mera istanza utopistica, è costituito dai congressi italiani del '30-'32 e da quello italo-francese del '35, tenuti per discutere la riedificazione, con i dovuti aggiustamenti alla nuova realtà storica, di quell'assetto corporativo dell'economia che era stato proprio all'Europa prima della Rivoluzione francese: prima che, il 22 maggio 1791, la Costituente parigina approvasse la legge Chapelier che scioglieva le Corporazioni, in applicazione all'articolo terzo della «Dèclaration» che opponeva la sovranità della Nazione alla autorità armata dei «Corpi».
I primi due congressi, voluti da Bottai al tempo della sua collaborazione col Ministero delle Corporazioni, videro protagonista la cosiddetta "Scuola di Pisa" di Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli, due allievi di Gentile. Fu in questi convegni che Ugo Spirito propose la concezione del fascismo come «terza via» oltre capitalismo e comunismo, sviluppando un'idea di Gentile che poi condurrà quest'ultimo, all'epoca della RSI, alla celebre e contestata definizione del comunismo come «corporativismo impaziente»: una definizione che -come ebbe a dire Evola- sottende un'evidente influenza illuministica sull'attualismo gentiliano in quanto passa sotto silenzio l'irriducibile diversità esistente fra socialismo tradizionale e socialismo marxista.
Tuttavia questi congressi hanno importanza per la «querelle» che ne scaturì, e che coinvolse la Confindustria e in prima persona il suo segretario Gino Olivetti, il quale era frattanto diventato un esperto di economia corporativa nell'intento di sabotare il sistema dall'interno. Già da allora la resistenza del capitalismo italiano alla rivoluzione corporativa era decisa e ancora di più lo sarà, con l'appoggio dei Tedeschi, durante la RSI. Bottai e Gentile seppero manovrare abilmente dall'esterno, sicché le idee di Spirito, nonostante le precisazioni e gli approfondimenti analitici, non furono sconfessate. La questione del «fascio-comunismo» rimase aperta, col suo equivoco di fondo ma anche con la sua carica problematica suscettibile di diverse soluzioni.
Quanto ad Ugo Spirito -che negli anni Trenta studiava con grande interesse Bachofen e il suo «mutterrecht»- è da dire che l'equivoco lo risolverà, dopo la guerra, rigettando le componenti tradizionali del suo pensiero giovanile -compreso il suo scetticismo «problematico»- e sviluppando piuttosto quelle illuministiche dell'attualismo. Non è casuale quindi la sua -pur breve- adesione al marxismo, un marxismo che viene sempre più colorandosi di un cristianesimo «sui generis» nella concezione della «vita come amore», la quale sola riuscirebbe a sopprimere l'assoluta «alterità» di Soggetto e Oggetto. Assai sintomaticamente, per tale via egli giungerà a sostenere che «in effetti ridurre tutto a natura è lo stesso che ridurre tutto a spirito (?!?) perché a qualunque termine si diano gli attributi del tutto, si dà insieme il «carattere divino», per cui nell'«amore» l'«assoluto oggetto e l'assoluto soggetto si identificano» (sic!). E siamo a quanto di più antitradizionale possa pensarsi in sede ontologica: siamo tornati addirittura a Spinoza, al padre del libertinismo settecentesco. Quel che Ugo Spirito verrà poi sostenendo in materia di epistemologia -specie nel saggio "Dal mito della scienza" datato 1966, si inquadra bene-, mi sembra, con quanto si è detto sul carattere della scienza moderna: sulle sue distorsioni axiologiche (in ordine alla pretesa «neutralità» della scienza, che non può ritenersi un «valore» giacché i valori non sono mai neutri) e sulle sue falsificazioni logiche (in ordine alla pseudo-dottrina della «doppia verità»). Questi cenni critici dovrebbero mettere in guardia sulle seduzioni che problematiche spacciate come scientifiche esercitano tutt'ora in certi ambienti che intendono aprirsi al dialogo con ciò che resta della cultura di sinistra.
Il congresso italo-francese del '35 (anche esso promosso da Bottai e a cui non mancò la partecipazione della "Scuola di Pisa") mi sembra significativo ai fini del nostro assunto per il confronto del fascismo con forze meno antitradizionali del comunismo: e cioè con i cattolici sociali della rivista "Esprit", rappresentati dal filosofo personalista Emmanuel Mounier che avrà poi un'incisiva influenza sul socialista Mitterand (la cui recente conversione al cattolicesimo ha dunque una storia, come anche le sue compromissioni «collaborazioniste» durante il Secondo Conflitto mondiale e, recentissimamente, la politica di apertura nei confronti di Fidel Castro che si configura come il suggello di un lungo, tormentato ma coerente itinerario spirituale e politico).
Nonostante certe ambiguità permanessero, e nonostante la vivacità del dibattito fra le varie interpretazioni del corporativismo -anche fra gli stessi fascisti- l'incontro fu comunque fruttuoso, perché Bottai riuscì ad evitare ingerenze estranee e condusse le cose in modo che il dialogo si mantenesse entro l'alveo della discussione teorico-politica. Per la prima volta, poi, furono sollevate questioni inerenti la differenza fra il fascismo italiano e quello tedesco. Sia pure ancora nell'ambito fuorviante della interpretazione del fascismo come «terza via», Rossoni sostenne nel suo intervento conclusivo che il fascismo «latino» respingeva gli opposti estremismi del nazionalsocialismo e del comunismo, di cui si evidenziano, giustamente, le matrici scientistiche e materialistiche con la conseguente impostazione razzistica dei rapporti tra i popoli e, nel seno dello stesso popolo, fra le classi e gli individui.
Sarà questa la posizione «romana» e «cattolica» sostenuta strenuamente da Julius Evola, prima, durante e dopo la guerra. Mounier, come esponente dei cattolicesimo sociale, l'accettò in pieno, ma rientrato in Francia, con atteggiamento tipicamente «politico», pubblicò il testo del suo intervento attenuandone parecchio i toni. Dopo la guerra le sue posizioni divennero sempre più equivoche, ed egli è forse da ritenersi fra i principali responsabili delle interpretazioni devianti e antitradizionali del Concilio Vaticano Secondo.
Il congresso italo-francese lasciava comunque irrisolta la questione di fondo: se cioè -come sosteneva la destra economica strumentalmente concordando con Mussolini- la Socializzazione potesse attuarsi unicamente in uno Stato fortemente centralizzato, oppure se -come sosteneva il fascismo di sinistra- trovasse proprio nelle pastoie burocratiche che caratterizzavano questo tipo di Stato il limite di fatto invalicabile. I fascisti di sinistra, con in testa Berto Ricci, ritenevano infatti che, per quanto al momento necessaria, la centralizzazione impedisse la partecipazione totale e creativa della persona all'attività economica, che non poteva ridursi alla mera cogestione aziendale e alla spartizione degli utili, ma doveva liberare le potenzialità dell'imprenditore quanto dell'operaio, realizzare una rivoluzione spirituale mediante la rivoluzione economica, che rispetto alla prima valeva come a fine e non viceversa. Posizione «romantica», questa, che tuttavia aveva indubbiamente grande valenza concettuale e filosofica e che mi sembra di gran lunga superiore, quanto a coerenza interna che non quella di Ugo Spirito e della "Scuola di Pisa". Non a caso Indro Montanelli stroncò sulle Pagine de "l'Universale" l'intervento di Ugo Spirito cogliendone i limiti di fondo sia pure non con la competenza filosofica che si sarebbe richiesta. Il fascismo di sinistra restò un'utopia che per ragioni storiche contingenti tale sarebbe rimasto anche se avesse avuto una formulazione teoretica rigorosa.
Oggi, nella crisi attuale di capitalismo e comunismo -una crisi irreversibile che riguarda in particolare il capitalismo nonostante la sua speciosa vittoria sul comunismo-, ciò che un tempo era una utopia diventa una scelta obbligatoria e una necessità epocale. La Sinistra Nazionale non è la sola forza politica ad esserne consapevole. Essa si pone come centrale, pertanto la soluzione del problema di un'economia nuova, e il modello che presenta di cui sta studiando le modalità di realizzazione sulla base della scienza economica più aggiornata non è affatto il corporativismo fascista per le precise ragioni che si sono analizzate.
È bene sottolinearlo e ripeterlo fino alla noia: il corporativismo fascista ha un valore solo nella misura in cui fu un tentativo di adeguare l'economia comunitaria tradizionale alla realtà moderna. Il corporativismo fascista non ha dunque un valore «archeologico» e come tale non è per noi il feticcio di una «nostalgica adorazione». È invece un puro e semplice precedente storico che come tale potrebbe anche costituire una lezione pratica per l'avvenire. 
Ma nulla più. La nostra posizione nei confronti di Alleanza Nazionale è dunque chiara: noi non rinneghiamo la Socializzazione perché non rinneghiamo i valori sociali e siamo convinti che essi possano essere tutelati e potenziati solo da uno Stato che creda nei valori della partecipazione. Siamo per la libera iniziativa individuale unicamente in quanto essa è condizione ineliminabile dello sviluppo della personalità di ogni uomo. Il quale sviluppo però non può reificarsi nel possesso, trasferirsi dall'uomo alla proprietà dell'uomo. Siamo e rimarremo sempre in posizione antagonistica rispetto al capitalismo e alla visione del mondo propria alla borghesia. Vi è un equivoco di fondo nella sconfessione del «corporativismo fascista» da parte di Alleanza Nazionale, un equivoco da cui dipendono le sue fortune elettorali. Noi denunciamo questo equivoco; la resa incondizionata al liberalcapitalismo, sia esso l'«anarco capitalismo» o il più rassicurante «capitalismo ecumenico» (e qui ribadisco il mio convincimento che il «capitalismo ecumenico» è morto, perché il capitalismo può ancora sopravvivere -non si sa per quanto- solo se si trasforma in «anarco capitalismo»; poi -come sostiene Costa- esso imploderà, annientato da quei processi di informatizzazione delle operazioni speculative che esso stesso ha generato e che tendono a sfuggire ad ogni regola e controllo).
Dire «corporativismo tradizionale» è la stessa cosa che dire economia fondata sulla partecipazione. Una partecipazione generalizzata a tutti i componenti e livelli del «corpo» sociale nel quadro di modelli di impresa che non saranno più quelli che conosciamo, che potrebbero essere radicalmente diversi dai modelli del capitalismo privato, del capitalismo di Stato e dello stesso sistema «misto» che sono stati sperimentati nei secoli XIX e XX.
Per noi, come già per i nostri precursori che facevano capo al fascismo eretico del gruppo de "l'Universale", partecipazione è, in ultima analisi, partecipazione spirituale e questa coincide con l'«amore» solo se all'amore si sappia restituire il suo significato primordiale e tragico, nella misura in cui la componente naturalistica dell'amore (edonistica e al limite familistica) venga riportata al ruolo che le compete. Se vogliamo essere franchi: tenda ad essere azzerata. Di fatto, per coloro che ne sentano la vocazione e che perciò sono tendenzialmente i depositari della Potenza e i reggitori dello Stato. Solo parzialmente, per tutti gli altri: nel senso che si dovrebbe gradualmente diffondere l'attitudine a non considerare più come prioritaria la cura per la propria esistenza; persino come dedizione alla propria famiglia, dove la famiglia venga naturalisticamente intesa come prolungamento della propria esistenza corporea e quasi una forma di «proprietà privata».
Solo in una simile prospettiva sarebbe possibile restituire dignità alla donna, tutelare la funzione sacra dell'istituzione familiare, la vita del nascituro e dell'infante, la libertà delle giovani generazioni come superiore diritto ad essere forgiatrici del proprio destino, secondo le disposizioni naturali, e non invece secondo considerazioni intrinseche di convenienza economica o di «status» sociale.
Sul piano specificatamente etico-religioso -cioè sul piano della coscienza individuale, della responsabilità assoluta e al di sopra di qualsiasi legge umana che ognuno ha in sé e che nessuna abiezione può mai cancellare del tutto- ciò significa il ripudio della morale edonistica dominante, la sua sostituzione con una morale del sacrificio, non considerata come mortificante e meramente repressiva, ma come premessa di un'autentica crescita spirituale e -se si vuole- di «redenzione». Si potrebbero riscoprire valori sociali in cui la solidarietà fra gli uomini non abbia niente in comune con l'«istinto del branco» o con l'utilitarismo borghese; fondandosi al contrario, o su una spontanea e giocosa espansività, o sull'obbligo etico di mostrare a se stessi che si è capaci di vincere la propria natura fino al punto di beneficare perfino il più irriducibile nemico.

Francesco Moricca

 

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