da "AURORA" n° 24 (Marzo 1995)

LETTERE

 

Le navi italiane continuano ad esserci tolte. Non mi riferisco a quelle militari che, anzi, negli ultimi anni sono riapparse sulla scena, naturalmente accodate alla VIª Flotta statunitense ed impiegate, magari, in sporche operazioni come la Guerra del Golfo.
Mi riferisco alle navi mercantili e passeggeri.
Lungi da me qualsiasi forma di nazionalismo borghese, patriottardo o fascistizzante, ma sensibile a certa tematica di nazionalità (concetto presente d'altronde in ampi settori della Sinistra latino-americana, russa e, persino nel tanto deprecato, dalla «sinistra ufficiale», Partito Comunista Francese) che mi porta a constatare -paranoia? mania di persecuzione?- che nel dopoguerra sembra sia stata intrapresa un'azione occulta per danneggiare l'immagine di una flotta, come era la nostra; tra le più consistenti e affidabili dopo quella britannica.
Incidenti, si obietterà, ma ciò non toglie che gli incidenti continuano a verificarsi, magari a causa di qualche misteriosa forza «negativa», extraterrestre e extraumana (eppure nessuno dei tanti disastri si è consumato all'interno del tragicamente noto "Triangolo delle Bermude").
Nel 1956 tocca alla nave "Andrea Doria", speronata dal mercantile svedese "Stockolm".
Nel 1980 affonda nel Golfo di Guascogna (il "cimitero delle navi" si dirà) il mercantile nuovo di zecca "T. Campanella" di Savona (30.000 tonnellate di stazza), nessun membro dell'equipaggio si salva, sebbene, occorre riconoscerlo, per la prima volta nel dopoguerra l'allora Capo di Governo Bettino Craxi, si precipitò personalmente sul posto, cosa che nessun Presidente del Consiglio italiano aveva mai fatto prima.
Sempre nell'Ottanta, nel Golfo di La Spezia, durante i lavori in cantiere affonda il più bello, l'estetico e geometricamente perfetto transatlantico "Leonardo da Vinci", una nave che in 22 anni di attività non aveva subito alcun incidente, riuscendo a tenere perfettamente il mare anche in occasione di sproporzionati cicloni sulla rotta Genova-New York.
Recentemente è stata la "Achille Lauro", che ai tempi delle navi di linea aveva solcato i Sette Mari, dal Giappone all'Australia, dall'India alle Americhe.
Solo chi è stato in Marina, ha navigato e appartiene a tre generazioni di marinai, può comprendere lo sconforto e il dolore -non è retorica deamicisiana-, nel vedere le più belle navi (e la nave è il simbolo estetico del futuro: da Marinetti a Majacowski) scomparire da un momento all'altro. 
E, si badi bene, non è mia intenzione difendere gli interessi degli armatori (pirateschi per natura), anzi è accaduto spesso che siano stati loro stessi a fare affondare le navi per riscuotere i premi dalle assicurazioni.
Ma amare la nave, che domani potrebbe (perché no?) essere «prodhonianamente» e «bakunianamente» autogestita e/o socializzata tra i membri dell'equipaggio (dico autogestita e non statalizzata; come era accaduto ai transatlantici sovietici) è naturale per gli uomini di mare.
Ma tornando agli incidenti c'e da constatare (magari con cattiveria, cinismo e sarcasmo) che finalmente, di recente, anche la prestigiosa "Queen Elizabeth" ha dovuto (fortunatamente senza vittime) chinare la testa, anzi la prua...
 

Gianni D.

 

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