da "AURORA" n° 24 (Marzo 1995)

RECENSIONI

 

Pierre Drieu La Rochelle

Appunti per comprendere il secolo

Ed. all'insegna del Veltro, Parma    pp. 89    £. 15.000

 

La Rivoluzione del Corpo, la Restaurazione del Corpo: così Drieu definisce la fase storica del totalitarismo in questo smilzo libretto, buttato giù nei primi mesi del 1940, nel quale lo scrittore collaborazionista, suicidatosi dopo la fine della guerra, tenta di schizzare una sorta di profilo antropologico del fascismo dopo una lunga introduzione sull'intera storia letteraria di Francia. Più che il fascismo, a Drieu sembra interessare il totalitarismo: la rivoluzione che esso incarnerebbe è "totale" perché è dei corpi, ma insieme «è la rivoluzione dell'anima che ritrova tutti i suoi valori attraverso i valori del corpo»: una «potente convergenza di tutte le passioni, di tutte le idee su tutti i piani, in un'unica direzione» che si oppone al razionalismo. E in questa contrapposizione totalitaria non esisterebbe differenza tra bolscevismo, fascismo, nazismo.
L'uomo totalitario, l'uomo nuovo (espressione di Drieu) è un uomo europeo cresciuto tra Roma e Berlino, il quale però ha scoperto da un lato l'anti-urbanesimo primitivo della Russia e la figura del gangster. Su tale figura lo scrittore francese fa delle osservazioni acute, scorgendo in essa, e soprattutto nella sua popolarizzazione fattane da Hollywood, un esito -sia pure degradato e contaminato dell'immagine del mafioso- della tradizione dell'avventuriero anglosassone tutto immerso nella fisicità, nell'individualismo, in una carica di furore volta in sete di conquista e precursore-protagonista della scoperta dello sport. 
Alfieri di tale scoperta, boy scout, Wander vögeln, militanti dei Corpi franchi, gangsters, cekisti, e perfino «i mercenari delle guerre cinesi» avrebbero fornito altrettanti "exempla" dell'hitlerismo e del fascismo.
Un'allucinazione? Si, per molti aspetti: una tipica allucinazione di quella critica della civiltà in chiave romantico-nichilista, che fu propria di intellettuali come Drieu. Ma attraversata di lampi di luce, da intuizioni che ci aiutano a vedere e capire.

 

Ernesto Galli della Loggia

 


 

Mario Luzi

Libro di Ipazia

Biblioteca Universale Rizzoli, Milano '78     pp. 128

 

La figura di Ipazia -figlia del matematico e filosofo neo-platonico Teone, nata intorno al 360 dell'era volgare ad Alessandria d'Egitto e là massacrata dai cristiani nel 415- ritornata d'attualità grazie al recente adattamento teatrale, aveva già ispirato Leconte De Lisle nei suoi "Poèmes antiques" ed anche Ch. Kingsley, autore di un romanzo storico intitolato appunto "Hipathia, or New Foes under an Old Face" e Gérard de Nerval, che ne ricorda il martirio in "Le filles du feu".
Nel saggio di Mario Luzi vengono raccolti due poemetti drammatici: "Ipazia" e "Il messaggero", relativi a due episodi della crisi che sconvolse la vita dell'Impero Romano tra la fine del IV e l'inizio del V secolo. Nel primo dei due drammi il personaggio della scolarca alessandrina compare in scena soltanto nel breve spazio di un quadro, ma la sua presenza si fa sentire fin dall'inizio, sullo sfondo dello sfacelo di Alessandria, dove «gente mai vista prima -venuta da non so dove, forse dai nascondigli-, fa ressa dovunque, è padrona del campo».
«Su questo braciere non più coperto dalla cenere -uomini che tu conosci, discepoli di Proclo e Plotino- soffiano la loro pericolosa illusione di rinascita del pensiero ellenico». Gettano fuoco questi neo-platonici che non vogliono darsi per vinti: «e la figlia di Teone, la moglie di Isidoro ne sparge a zampilli».
Nell'incendio distruttore, che divora il mondo antico, Ipazia si consuma come una vittima olocaustica. Ella stessa ne è consapevole e dichiara: «ma è nel fuoco che bisogna ardere, niente si addice alla parola più che la temperatura del fuoco».
Ma in quel rogo sacrificale la sapienza di cui Ipazia è custode perderà soltanto le vesti e le forme: dopo la conquista islamica, infatti, Aristotele verrà promosso "Visir" di Alessandria. Platone sarà riconosciuto Imàm dei filosofi e da taluni addirittura profeta dell'Islam, a Plotino verrà conferita la qualifica di Shaykh e Proclo sarà tradotto in arabo.
Di questa rinascita della sapienza greca entro forme diverse si ha quasi un presentimento nelle parole della martire «pagana», allorché questa così parla a Sinesio: «La nostra causa è perduta, questo lo so bene. -Ma dopo? Che sappiamo del poi?- Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani. (...) Gettiamo questo seme nella bufera, -in questa taverna turbolenta che è Alessandria- giochiamo questa partita a dadi con la storia del mondo!» I conquistatori del 641 vendicheranno il massacro del 415 e integreranno nella loro civiltà l'insegnamento di Ipazia.
Il secondo poemetto di Luzi "Il messaggero", si incentra sulla figura di Sinesio, un allievo di Ipazia che, per dirla con Spengler: «da principe della chiesa neo-platonica diviene principe di quella cristiana senza che abbia luogo una conversione» (Oswald Spengler, "Il tramonto dell'Occidente"). In realtà Sinesio, che nasce verso il 370 e muore nel 413, ossia due anni prima del martirio di Ipazia, per cui non si può dire che Luzi (il quale colloca la vicenda del "Messaggero" in un periodo successivo alla morte della scolarca alessandrina) si sia troppo preoccupato della realtà cronologica; d'altronde Proclo viene citato come un maestro di Ipazia, mentre nel 415 non aveva più di cinque anni.
Ma in un'opera di poesia ciò non deve indignare: probabilmente l'obiettivo primario di Luzi era d'ordine formale e consisteva nella reinterpretazione moderna di certe strutture classiche, nella conciliazione del tono colloquiale con linguaggio sublime. Se l'Autore sia riuscito in questo proposito non sta a noi dirlo e lasciamo il giudizio ai critici letterari; a noi interessa piuttosto rilevare come il "Libro di Ipazia" riesca ad esprimere in modo suggestivo il senso dello sconvolgimento di un mondo e della fine di un'epoca.

 


 

Curzio Malaparte, Alceste De Ambris, Tullio Masotti, Vito Rastelli

Filippo Corridoni:

mito e storia «Arcangelo Sindacalista»

a cura di  Mario Bozzi Sentieri

Ed. Settimo Sigillo, Roma '88    pp. 89    £. 10.000

 

Pacifista; anima del giornale antimilitarista "Rompete le file". Sindacalista rivoluzionario; fondatore e dirigente dell'USI (Unione Sindacale Italiana) dopo la scissione dalla riformista CGL. Agitatore; tra gli organizzatori della «settimana rossa», teorico dello sciopero generale. Interventista; «Senza questa punta di estrema sinistra dell'interventismo, senza gli operai sindacalisti che ruppero il fronte unico del neutralismo proletario e conquistarono come drappelli d'assalto le grandi città e Milano prima fra tutte, senza Corridoni che di questo esercito fu il capo e l'apostolo, la guerra italiana sarebbe stata impossibile e impossibili gli eventi successivi».
Questo lo straordinario percorso politico di Filippo Corridoni, uomo capace di farsi interprete delle esigenze immediate dei lavoratori inquadrandole però in una prospettiva di grande respiro che dalla critica serrata al parlamentarismo («la colpa non è dei proletari che sono stati -loro malgrado- i fabbricatori del trono di vaniloquenza e di arrivismo») spaziava alla necessità di «sborghesizzare» il Socialismo ed alla teorizzazione della conquista dello Stato da parte dei ceti produttivi («lo Stato non si distrugge, si conquista»).
Animato da una forte carica volontaristica, influenzato dagli scritti del Mazzini e del Pisacane, seguace dell'intuizionismo di George Sorel («Gli scioperi han fatto fiorire nel proletariato i sentimenti più nobili, più profondi e più fattivi ch'esso possegga. Lo sciopero generale li unisce tutti, in un quadro d'insieme; dà a ciascuno di essi, riunendoli assieme, la massima intensità; e, col richiamo ai ricordi più scottanti dei singoli conflitti, colora di vita intensa tutti i particolari del quadro presentato alla coscienza»), Corridoni, farà dell'elevazione sociale delle masse lavoratrici l'unico scopo della sua breve e intensa esistenza. Arrestato innumerevoli volte ha conosciuto il carcere e l'esilio: «ebbi nel maggio del 1907 la mia prima condanna e da allora ne ho dovuto registrare ben trenta. Per otto anni consecutivi la mia vita è stata asprissima, terribile. Ho fatto ininterrottamente la spola fra una prigione e l'altra, con qualche puntata in esilio».
«Le mie idee non mi procurarono che prigione e povertà; ma se la prigione mi tempra per le battaglie dell'avvenire, se la prigione mi tempra l'anima e l'intelletto, la povertà mi riempie d'orgoglio. Se avessi avuto anima da speculatore o se avessi per un solo attimo transatto con la mia coscienza ora avrei una posizione economica invidiabile; ma siccome io so, sento che un soldo illecitamente guadagnato costituirebbe per me un rimorso mortale e mi abbasserebbe talmente dinnanzi a me stesso da uccidermi spiritualmente, così posso tranquillamente prevedere che la povertà sarà la compagna indivisibile della mia non lunga vita». 
Filippo Corridoni pur ammalato e dichiarato non-idoneo dal Consiglio di leva (soffriva di tisi), riuscì ad arruolarsi, rifiutando di frequentare il corso allievi ufficiali e scegliendo deliberatamente di servire la Patria come semplice fantaccino: «Dove voi sarete io sarò. Se vi consiglio di compiere un'azione e perché io quell'azione l'ho compiuta o sono capace di compierla insieme a voi». 
Cade mentre va all'assalto sul Carso, nella Trincea delle Frasche, il 23 ottobre 1915 donando alla Patria, che gli aveva riservato solo galera ed esilio, la propria vita.

 

 

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