da "AURORA" n° 25 (Aprile 1995)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Vorrà il Cavaliere Rosso aiutare il popolo della Fiamma a liberarsi del Cavaliere Azzurro?

Enrico Landolfi

Su "l'Unità" del giovedì santo è apparso una interessantissima intervista a Giorgio Bocca firmata da Roberto Roscani, recante il titolo "Strillo quotidiano". Argomento: la stampa di destra. Il valore e l'intelligenza di persone molto colte e informate quali l'Autore e l'intervistato, l'originalità e l'assenza di spirito conformista nel taglio del dialogo suggeriscono all'estensore di queste note di incitare coloro che non avessero letto il pezzo a procurarsi il segnalato numero del «giornale fondato da Antonio Gramsci» per farsi una idea di ciò che sono oggi i media destrorsi in Italia.
Relativamente ai contenuti, diciamo subito di sentirci stimolati da alcuni spunti della conversazione fra Bocca e Roscani a certe osservazioni assolutamente non settarie, ma pacatamente «obiettatrici» in ordine ai comportamenti pidiessini nei confronti della destra più o meno «estrema».
Il brano dell'illustre editorialista de "la Repubblica" e de "l'Espresso" che più ci ha sollecitati in tale direzione è quello che ha per oggetto il "Secolo d'Italia", quotidiano del partito di Fini. Lo riproduciamo integralmente: «Si, io mi sto occupando del "Secolo", il giornale passato dal MSI a AN, su cui sto scrivendo un libro. Ecco: il "Secolo" è come un giornale scisso in due parti. La parte politico-informativa è ammantata di una formale adesione alla democrazia. La parte culturale invece è ancora solidamente legata al fascismo e anche al nazismo: fanno pagine e pagine sul pensiero conservatore e anche reazionario, sui teorici del fascismo. È come se, attraverso il loro giornale, scoprissero il senso dell'operazione politica di Fini: per loro la democrazia è una specie di taxi che bisogna prendere per forza per viaggiare nella politica italiana. È come se dicessero: siamo obbligati a stare nella democrazia ma puntiamo su una versione autoritaria, plebiscitaria, presidenzialista della democrazia e siamo pronti a riempire la politica nuovamente dei vecchi riferimenti culturali».
Roscani pare voler attenuare la crudezza della denuncia bocchiana, forse memore dello scorso gennaio che vide l'arrivo in pompa magna a Fiuggi di una delegazione di livello del Partito Democratico della Sinistra, a significativa presenza partigiana per benedire il trasferimento del Giovin Signore di Via della Scrofa dal «Fascismo del Duemila» alla interpretazione della democrazia in chiave ottocentesca-bonapartistica congruamente messa in luce dal suo interlocutore. Se vi avesse aderito toto corde, che figura avrebbe fatto fare ai tre re magi della Quercia -Pecchioli, Ranieri e, ci sembra, Zani- partiti dalle remote Botteghe Oscure onde recare nella sontuosissima grotta ciociara non il desiato oro ma indubitabilmente incenso e mirra all'appena nato bambinello Nero, diventato Azzurro per un miracolo di Santa Giovanna d'Arcore? Tuttavia la sua debole eccezione non è tale da smentire nella sostanza la veloce requisitoria del Bocca, anche perché, con ogni probabilità, non ne ha l'intenzione. Dice: «Eppure il "Secolo", giornale strettamente di partito, spesso sembra meno estremista e meno aggressivo de "il Giornale" o de "l'Indipendente" o, che so, de "l'Opinione". Sei d'accordo?» A metà, sembra a noi. Ecco la risposta: «Sicuramente è più politico e più colto degli altri. Non è un caso: i fascisti hanno una loro tradizione strutturata. Gli altri giornali si comportano come truppe d'assalto delle diverse campagne che vengono lanciate dalla destra». Valutazione, questa, che volentieri facciamo convintamente nostra; però aggiungendovi, doverosamente, un altro elemento: la presenza al timone del giornale di un intellettuale serio e valoroso, di una persona civile come Gennaro Malgieri, cui non rimproveriamo di essere culturalmente -attenzione all'avverbio, molto importante per bene intendere il senso della nostra critica- di estrema destra, tutti essendo fatti, né potrebbe essere diversamente, così come mamma e papà ci hanno costruiti, ma col quale ci duoliamo perché consente le avventuristiche scorribande nelle sue pagine di autentici beceri del culturame e della penna, di professionisti della politica politicante e della provocazione. Tutti con il marchio della trivialità concettuale e dell'odio più gratuito, viscerale e volgarissimo per la Sinistra, e la sua cultura.

Rinviamo ad altra occasione un adeguato approfondimento della affermazione di Giorgio Bocca concernente il possesso, da parte dei vari e presunti «fascisti» de "il Secolo d'Italia", di «una loro tradizione strutturata», qui limitandoci ad esternare l'opinione dell'esistenza non di una sola tradizione fascista, di ben più di una e normalmente in reciproca contrapposizione, quella, per esempio, di Berto Ricci non ha nulla a che vedere con quella di Ciano. E quella di Cianetti niente ha a che spartire con quella del Conte Volpi di Misurata. Quella di Grandi è esattamente l'opposto di quella di Farinacci. Quella di Gentile ignora totalmente quella di Evola. Quella di Bottai confligge esaustivamente con quella di Mussolini. Et coetera, et coetera, et coetera. Orbene, l'avere sprezzantemente, superficialmente trascurato tali essenziali difformità è uno degli humus in cui affondano le radici del disastro elettorale delle forze democratiche di avanguardia e, correlativamente, del trionfo del blocco delle destre con i cinque milioni e mezzo di voti regalati, letteralmente regalati, a Gianfranco Fini. Da chi? Da una Sinistra che lungo tutto il percorso della leadership occhettiana oscillò fra il raptus moralistico -il vero o presunto «fascista», incarnazione demoniaca di tutti i mali solo perché individuato come tale, con cui neppure è lecito parlare essendo ciò vietato dai dogmi di un totalizzante Antifascismo di Stato, presidiato dalle inappellabili sentenze di una sorta di «Resistenzial Santa Inquisizione»- e una visione generale in base alla quale fino alla consumazione dei secoli il pianeta sarà dominato dalla lotta fra il Bene e il Male, cioè fra l'Antifascismo e il Fascismo, così come comanda il Vangelo dell'azionismo piccolo borghese.
Ma chiediamoci come mai la Quercia abbia ritenuto il processo di maturazione democratica dell'estrema destra giunto ad una fase talmente avanzata da consentire l'invio di una delegazione ufficiale di significativo livello -era assente il Segretario solo perché impegnato a Bologna per incontrare il Presidente dell'Internazionale Socialista, Pierre Mauroy- al meeting fondativo di Alleanza Nazionale in Fiuggi. Di sicuro, non va sottovalutato lo spirito confortevolmente antisettario presente in tale iniziativa, ma la sua probabile intempestività ci mette forse nella paradossale condizione di dover apprezzare la decisione di non intervenire presa da Rifondazione Comunista, vale a dire da una formazione partitica di cui ci capita di respingere, un giorno sì e l'altro pure, posizioni settarie di vario genere anche in tema di «questione fascista» -con l'eccezione di qualche autorevole personaggio, sul quale più avanti ci esprimeremo-, in concordia di intenti con esponenti dello schieramento progressista. Altro dato non sense di questa situazione: nel momento stesso in cui la segreteria D'Alema supera -e trattasi di non piccolo merito- i tanti aspetti ed elementi di fondamentalismo presenti nell'esperienza della precedente leadership, ne recupera in certa qual misura lo spirito. Così mentre per Occhetto ciò che valeva era un antifascismo comechessia, indipendentemente dai contenuti, quasi fine a se stesso -e senza attenderne il pieno dispiegarsi si metteva a sparare indiscriminatamente nel mucchio, in tal modo facendo il gioco del gruppo dirigente reazionario del già MSI- anche per D'Alema si appalesa la congruità di un antifascismo sic et simpliciter, comunque e dovunque collocato nello spettro politico e sociale italiano e internazionale, purché proiettato in direzione di una qualche costituzionalizzazione della destra. Due leaders produttori di due «errori di democraticismo», dunque come avrebbero detto i vecchi comunisti, anche se autorevoli titolari di molte altre fasi della linea del PCI/PDS indiscutibilmente commendevoli. Errori che hanno consentito al tandem Fini-Tatarella di spacciare per antifascismo -al modico prezzo di una frettolosa visita pre-elettorale alle Fosse Ardeatine, atta a conciliargli il voto del ceto moderato di bocca buona; e di alcuni plateali rinnegamenti scritti e orali, che solo chi non li conosce può ritenere frutto di conversione anziché di spietato cinismo e di opportunismo- un calcolo di potere nudo e crudo, estraneo sia al fascismo che all'antifascismo, di ambo i quali a questi signori non importa assolutamente nulla. E le varie delegazioni affluite al Congresso di gennaio non hanno avuto altro ruolo che quello di testimonianza e di legittimazione di una truffa di proporzioni storiche, utile al disegno maccartista e conservatore dell'Asse Arcore-Marino. Naturalmente buona fede e buona volontà democratica sono del tutto fuori discussione, non però la sofferenza della democrazia e della Sinistra. Peraltro, l'ambiguità della operazione dei Fiuggiaschi è rispecchiata proprio dalle proposizioni del Bocca, soprattutto in queste parole riferite alle interne articolazioni de "il Secolo d'Italia": «La parte politico-informativa è ammantata di una formale adesione alla democrazia. La parte culturale invece è ancora solidamente legata al fascismo e anche al nazismo». Superfluo aggiungere che del fascismo il giornale riflette una interpretazione strettamente reazionaria. In essa ci sono non le idee di Berto Ricci e di Ugo Spirito, ma quelle dei devastatori dei circoli socialisti. Non siamo folli fino al punto di illuderci di poter suggerire agli organi responsabili del PDS e di tutto il fronte di sinistra, progressista e popolare ciò che debbono fare o non fare in tema di «questione fascista». Mancherebbe altro! 
Tuttavia qualche idea in questa materia la abbiamo e ci sembra giusto renderla di pubblica ragione. Per esporla prendiamo le mosse da quanto personalmente dettoci da una personalità autorevole come il leader del dissenso rifondazionista e già-Segretario di Rifondazione Comunista, on. Sergio Garavini. Intervistato all'epoca del referendum che materializzava il conflitto fra due modi di intendere il metodo di competizione elettorale, così rispose alla domanda con la quale intendevano appurare se avvertisse disagio o meno per il coincidere della sua battaglia in pro della proporzionale con quella del MSI: «A noi comunisti Togliatti ha insegnato che il problema dei fascisti si risolve non con emarginazioni, anatemi, persecuzioni e cose di questo genere, ma creando le condizioni per abituarli ai diritti e ai doveri della vita democratica. Per quanto poi attiene alla lotta per la difesa della proporzionale, non posso negare liceità e legittimità della azione dei missini volta a difendere il loro diritto di esistere come partito presente nelle Camere in legale rappresentanza del loro elettorato». Ora, pare a noi che Massimo D'Alema sia molto di più vicino -Togliatti o non Togliatti- a queste parole di quanto non lo fosse Achille Occhetto. Il che viene in evidenza come una conquista preziosa. Tuttavia la nostra sensazione di una ancora insufficiente traduzione in realtà della intuizione garaviniana-dalemiana è netta. Come mai?
Anzitutto, non si è colto -ma questa osservazione riguarda l'insieme delle forze democratiche e popolari- nella sua totalità la manovra finiana diretta a garantire alla operazione di sdoganamento di AN verso l'area del potere le maggiori coperture possibili (da ciò l'offensiva del sorriso azionata dal segretario della «destra», volta a presentare la medesima , momentaneamente almeno, come la meno «estrema» nel «Polo»; nonché il colpo inferto a Rauti, messo in condizione di scindersi anche in conseguenza di una vasta opera di corruzione -politica non venale, intendiamo- idonea a privarlo del suo stato maggiore e patire una situazione di isolamento).
Quindi, innegabilmente, l'approccio concreto alla «questione post-fascista» si è rilevato di natura esaustivamente verticistica, élitaria, da potenza a potenza; quasi privatistica, addirittura: cioè fondata su di una sorta di éntente cordiale fra due capi, Fini e D'Alema, collegati -almeno così è apparso ai più- da reciproca simpatia tracimante le impossibilità della politica pura anche in virtù dell'ausilio della solidarietà generazionale. Con il risultato -tenacemente perseguito dal callido ex-pupillo di Almirante, nella nuova sorprendente veste di un Dino Grandi in edizione Anni Novanta- di ribadire le catene a quella non piccolissima né risibile quota della base e pure del quadro intermedio che non si riconosce né punto né poco nella scelta di destra, nel maccartismo berlusconiano, nel clerico-reazionarismo di Cesare Previti, nel liberismo selvaggio e antipopolare di segno tatcheriano-reaganiano del «Polo», nel catto-moderatismo dei «coccodè» di Casini e Mastella, nelle coperture pannelliane pseudo-libertarie alle operazioni restaurazioniste.
Va da sé che le buone intenzioni del leader della Quercia sono assolutamente fuori discussione; come, del resto, il notevole contributo da lui dato, con la sua iniziativa, alla costruzione di una più moderna, antidogmatica e sostanziale, civiltà dei rapporti politici, di cui tanto ha bisogno la nostra democrazia, della quale tanto necessita il nostro Paese, spiritualmente condizionato -senza soluzioni di continuità o semplicemente interruzioni- da una serqua di retaggi di spinte faziose, di scontri comunali, di sanguinose contrapposizioni frontali, di «anti» di ogni genere e specie, di vere e proprie guerre civili. E tuttavia detta iniziativa ha comportato un prezzo usuraio: la drammatica rinuncia, appunto, a favorire -mediante il dialogo e il confronto creativo, nel clima di una pari dignità- il sorgere all'interno dell'area del «post-fascismo» di una opposizione alla linea reazionaria di Fini, il suo graduale strutturarsi in soggetto politico autonomo soprattutto ideologicamente, ispirato a una cultura popolare-nazionale, di sinistra, socializzatrice, disponibile a corrette relazioni emulative e sinergiche con il popolo delle varie Sinistre storiche. Fuori dei vecchi logori schemi «perdonisti», delle richieste di rinnegamento e di omologazione alle interpretazioni storiche ufficiali proposte in una versione grettamente banalizzante, manichea, fondamentalista.
Già in precedenti scritti abbiamo manifestato compiacimento per il fatto che la segreteria D'Alema cominciava a innovare sulla leadership occhettiana con linguaggi e comportamenti depurati del devastante moralismo aggressivo e vetero-azionista che fu tipico di quella gestione del PDS. Manteniamo, ovviamente, tale valutazione, come, del resto, si evince da quanto siamo venuti affermando in questo stesso pezzo; epperò chiediamo al Segretario di riequilibrare il suo discorso relativo al mondo del «post-fascismo» accedendo ad allargamenti di tematiche, analisi, approfondimenti, elaborazioni nuove che soprattutto tengano presente il popolo che fu della Fiamma Tricolore e che, in non trascurabile misura, finge di essere in sintonia con Fini e Berlusconi solo perché non c'è in vista alcun Cavaliere Rosso che lo aiuti a sbarazzarsi del Cavaliere Azzurro e delle sue idee raccattate nella peggiore paccottiglia reazionaria.

Enrico Landolfi

 

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