da "AURORA" n° 25 (Aprile 1995)

RECENSIONI

 

Pacifico D'Eramo

L'ospedale di Kamensk

Occidentale Ed., Roma, 94    £. 10.000

 

È il titolo del prezioso libricino scritto recentemente da D'Eramo; prezioso anche perché, mentre sembra parlare del passato, ci invita alla consapevolezza di un presente che si fa subito futuro.
L'attività di D'Eramo si è espressa prevalentemente mediante saggi, interventi giornalistici e dibattiti.
Nel '68 presentammo il suo saggio "La liberazione dall'antifascismo", come un libro importante, ma non potemmo dargli il giusto rilievo. Erano tempi difficili, si combatteva su due fronti: da una parte il missismo sempre più confindustriale e atlantista e, dall'altra, una sinistra giovanile la cui velleitaria carica barricadera, prònubo il sistema, abilitata a contestare tutto e il contrario di tutto. A fatica tentavamo allora di far penetrare nelle fabbriche e nelle università l'idea che il riscatto morale e sociale degli italiani avesse la strada obbligata in quello che era stato definito il «fascismo immenso e rosso».
Tuttavia, quel libro non tanto per la rara freschezza e sobrietà della prosa, quanto soprattutto perché ogni argomentazione vi è sorretta da saldi principî etici, nonché da feconde e rigorose analisi storiche, è un'opera attualissima, degna di essere riproposta ad un più vasto pubblico. Il concetto di libertà, in essa, è pregno di una chiara ed universale coerenza.
Oggi, però, D'Eramo ci sorprende con questo libretto, in cui la breve componente storico-militare è sovrastata da rapidi cenni sull'infelice situazione generale, che recano, con un lirismo quasi celato, l'affermazione di una ineludibile ripresa etica. Persino un appena lambito abbandono ad un attimo di nostalgia per un sentimento nascosto nel cuore come realtà sacra e dolce, virilmente ancorata -senza moralismi- ad una concezione etica dell'esistenza.
La fedeltà vera non può che essere casta.
Tempo fa, avevo scritto che «in fatto di guerra civile, il nostro modello può essere Cesare e non Silla», ma dov'è ora Cesare, se «... gli italiani si sono afflitta l'umiliazione di essere governati da Berlusconi»?
Negli scritti e nei discorsi di D'Eramo ci s'imbatte spesso in frasi quali «pulizia morale», «onestà sociale», «tensione civile», dirette a postulare una non evasiva risposta all'angoscioso interrogativo «saremo vinti per sempre»?
Tali argomentazioni riflettono, a nostro avviso, un'inespressa ma risolutiva volontà di servire ancora, ossia di concorrere alla indispensabile rigenerazione ontologica della gente italica. Egli, inoltre, ha il raro potere di farci ascoltare i severi giudizi degli altipiani del nostro Abruzzo, dai quali scaturiscono imperativi etici universali e immutabili. La verità non va ricercata lontano, essa è in noi e non può esservi libertà senza verità. Dobbiamo quindi «... cercare dentro di noi... le ragioni del mutamento del nostro costume e della conseguente disponibilità ad accogliere ed assorbire il modello statunitense».
E ci consentono di guardare con occhio rasserenato laggiù nelle valli, nelle cento città accanto ai fiumi, dove vivono e operano i nostri fratelli, i figli della «Grande Proletaria», i nostri compagni (cum panen) di lotta e sacrifici, che noi amiamo e che (pochi bastardi a parte) sono come noi assetati di quella giustizia sociale e umana che la nostra Repubblica (la prima Repubblica sociale della storia) potè solo accennare prima di essere schiacciata (non scacciata, come qualche cialtrone va impunemente blaterando) dallo strapotere delle armi straniere.
Anche con "L'ospedale di Kamensk", D'Eramo ci rammenta che ciò accade, ci accade, ci tocca e ci riguarda; che il nostro compito non è mai terminato.
Il panegirico ci è estraneo: legga il libretto chi vuole.
Del resto, D'Eramo non potrà mai sottrarsi alla sua apologia racchiusa in un fascicolo del Comiliter di Bologna, così concepito:
«Non si procede all'interrogatorio dell'ufficiale in oggetto, perché la sua deposizione è esauriente. Considerato:
1) che si è arruolato volontario;
2) che, pur essendo Sottotenente, gli è stato affidato il comando di compagnia;
3) che, benché mutilato, ha prestato servizio in reparti combattenti;
4) che non ha mai collaborato coi partigiani;
5) che, catturato prigioniero da truppe americane, è fuggito dalla prigionia;
in considerazione di queste aggravanti, si conclude che l'ufficiale in oggetto è venuto meno ai più elementari principî dell'onore militare, e pertanto lo ripropone per la radiazione dai ruoli».

 

Fantauzzi F. Gaspare

 


 

Giuseppe Baroni

Addio Africa. Un legionario racconta

Serarcangeli Editore, Roma 1995    pp. 240    £. 10.000

Giuseppe Baroni, prosatore e pittore nato a Scarperia (Firenze) nel 1900 e morto a Roma nel dicembre 1986, racconta in questo libro «una piccola storia»: «pagine della nostra storia che ribollono, sofferenze della nostra gente che è ingrato ignorare». 
L'Autore, che lavorava presso un'azienda italiana in Africa orientale ed era entrato a far parte del 3° battaglione Camicie Nere, alla caduta di Massaua, nell'aprile del 1941, comincia una lunga peregrinazione tra campi di prigionia ed ospedali. 
Nel 1943 gli Inglesi impongono ai militari invalidi di scegliere tra la rinuncia alla divisa e la rinuncia alla libertà. Come molti altri Italiani, Giuseppe Baroni opta per la seconda alternativa, sicché viene rinchiuso nel Forte Baldissera, per essere successivamente trasferito nel deserto, al Criminal Camp 337. 
Qui, accanto agli Italiani, vengono imprigionati anche i Libici. 
«Dignitosi, fermi, invincibili, i Libici fecero masticare amaro i signori inglesi (...) e che esempio di coerenza, di maturità, di fedeltà, di coraggio dettero anche a noi, e come meritarono perciò di far parte del Criminal Camp! (...) Se l'Italia avesse avuto più cittadini di questo stampo, avrebbe dato molto più filo da torcere agli invasori». 
Ma anche Tedeschi, e perfino Russi entrarono nel Criminal Camp. 
E così nel microcosmo concentrazionario della «non-cooperazione» si instaurò tra combattenti di nazionalità diverse quel cameratismo che non sempre si era realizzato sui campi di battaglia.

 


 

Michel Vâlsan

Giovanna d'Arco

Ed. all'insegna del Veltro, Parma   pp. 56   £. 10.000

 

In questo breve saggio di Michel Vâlsan l'eroina di Orleans viene vista in una prospettiva inedita; secondo una chiave di lettura che si riallaccia a Guénon, l'epopea di Giovanna d'Arco avrebbe costituito l'effetto di un'influenza spirituale agente attraverso di lei e avrebbe rappresentato l'ultimo combattimento della cavalleria europea. Una tale prospettiva risulta attendibile anche se si considerano gli eventi da un punto di osservazione puramente storico: l'intervento della Pulzella si colloca infatti, in maniera significativa, in una fase epocale della storia europea, profondamente segnata dalla crisi delle forze spirituali del Medioevo. Sembra perciò che intorno a Giovanna si fossero coagulate tutte quelle energie di cui la Francia poteva ancora avvalersi in un momento così avanzato della propria «marcia» verso l'età moderna.
Sul versante contrapposto, si schierano le forze che hanno costruito l'Europa post-medioevale. Da un lato l'Inghilterra, paese in cui era già cominciato il processo che sfocerà nella Riforma; dall'altro, certe forze distruttive annidiate in seno alla Chiesa cattolica e particolarmente attive attraverso i tribunali della Inquisizione, come testimonia lo stesso processo del 1431, dai cui verbali Vâlsan ha desunto significative indicazioni. Oltre che per il suo valore intrinseco, il saggio di Vâlsan va raccomandato perché fa indirettamente giustizia dei grotteschi e demagogici tentativi di una certa destra contemporanea di strumentalizzare la figura di Giovanna d'Arco ai fini di una politica che non ha nulla a che vedere né con la Cavalleria, né con l'Europa, né con la Tradizione, né con lo Spirito.

 


 

John Kleeves

Vecchi Trucchi

Il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini

Scrive John Kleeves ("Vecchi Trucchi", Il Cerchio-Iniziative Editoriali, Rimini): «Gli Stati Uniti hanno introdotto nel mondo un modo nuovo di far politica estera, questa novità non consiste in metodi inventati da loro di sana pianta, ma nella scala e nella sistematicità con cui essi adoperano metodi utilizzati prima solo in via eccezionale. I sistemi con cui gli americani cercano di raggiungere i loro scopi in politica estera sono davvero molti, ma si possono comunque raggruppare sotto i seguenti titoli: la propaganda, il denaro, la violenza, la strategia della droga».
All’elenco stilato da Kleeves andrebbero aggiunte le sanzioni, uno degli strumenti spesso utilizzati dagli USA per piegare la resistenza di quei popoli che rifiutano di piegarsi alle loro prepotenze e angherie. Ne hanno fatto le spese in tanti: dal Vietnam a Cuba, dall’Iraq alla Libia. 
Ora è di nuovo il turno dell’Iran (già colpito da sanzioni statunitensi subito dopo la Rivoluzione khomeynista), che rifiuta di aderire al "Trattato di non-Proliferazione Nucleare, se questo non viene nel contempo ratificato dallo Stato di Israele.
La posizione degli iraniani ci pare ineccepibile. Non riusciamo a spiegarci in base a quale logica lo Stato ebraico (e con esso USA, URSS, Francia, Cina, India, Gran Bretagna, Sud Africa) possa disporre -senza scandalizzare nessuno- di ben 300 testate nucleari e che questo sia vietato agli altri Popoli dell’area medio-orientale.

 


 

Claudio Mutti

Mircea Eliade e la Guardia di Ferro

Ed. all'insegna del Veltro, Parma, 1989    pp. 62    £. 10.000

 

Le «inappuntabili messe a punto e inconfutate argomentazioni» (R. Melchionda) contenute in questo saggio (tradotto anche in francese e in romeno) hanno finalmente -per usare le parole di Alfonso Di Nola- «tagliato la testa al toro» per quanto concerne i rapporti di Mircea Eliade con Corneliu Codreanu e con il movimento legionario. Lo stesso Di Nola, che con Furio Jesi avviò una azione propagandistica intesa a sabotare l'assegnazione del Premio Nobel a Eliade, è stato infatti costretto ad ammettere di non avere mai visto il dossier israeliano sul quale egli aveva fondato la suddetta campagna!
Lo studio di Mutti, se da una parte smaschera le falsificazioni di coloro i quali hanno voluto presentare Eliade come un aguzzino che «consegnava alle SS gli ebrei romeni» (così scrisse testualmente Filippini su "Repubblica"), dall'altra ridimensiona i tentativi di quanti hanno minimizzato l'impegno legionario di Eliade o hanno addirittura cercato di negarlo.
Ma, per ricostruire il quadro dei rapporti intercorsi tra il grande storico delle religioni e la Guardia di Ferro romena, Mutti non si è limitato a compulsare e interpretare una vastissima bibliografia. Egli si è anche provato (ed è forse proprio questo l'aspetto più affascinante del libro) a decriptare la stessa narrativa di Eliade, assumendo l'ipotesi che il loro autore abbia raccontato nei romanzi quello che non volle rendere noto in forma scoperta nei propri Diari. E così le figure di alcuni personaggi della narrativa eliadiana lasciano intravedere altrettante figure reali: ad esempio, non è difficile riconoscere in Ieronio Tanase, uno dei personaggi di "Diciannove rose", il profilo di Julius Evola.

 

 

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