da "AURORA" n° 26 (Maggio - Giugno 1995)

DISSERTAZIONI

Venticinque Aprile

Francesco Moricca


«La democrazia americana è fatta su misura per gli americani;
per il nostro vecchio continente è altrettanto sbagliata,
cioè superata, quanto il comunismo russo.
Vedo la salvezza dell'Europa in un'unione socialista di tutti gli Stati europei. (...)
Tutti se ne accorgeranno. Se in tempo o troppo tardi, chi sa»

Mussolini, 20/4/1945


Cinquant'anni fa aveva termine la seconda Guerra mondiale. Il fascismo morto e sepolto, in prospettiva la fine del comunismo ma nessuno che riuscisse a prefigurarne il come. Oggi «tutto è compiuto». Qualcosa rimane dei totalitarismi del XX secolo nati nella coscienza dell'uomo europeo dalla nietzschiana constatazione della «morte di Dio». Ma è una realtà sfuggente e forse del tutto inconsistente, indicata eufemisticamente dai termini «post-fascismo» e «post-comunismo». Se fascismo e comunismo crebbero all'insegna della «morte di Dio», l'età post-contemporanea, da poco inauguratasi come post-fascista e post-comunista, nasce all'insegna della «morte del Superuomo» che fu fascista e comunista a un tempo. Ciò significa che la sconfitta del Superuomo ha decretato la vittoria dell'«uomo comune», cioè dell'uomo democratico inteso nell'accezione propria al liberalismo; un liberalismo che non a caso riscopre le sue origini settecentesche, la sua vocazione libertina (o «libertaria» nel gergo corrente pannelliano) sul terreno dell'etica, e anarco-liberista su quello economico.
L'uomo post-contemporaneo è all'apparenza, pertanto, l'esatto contrario del Superuomo. Non ha la serietà tenebrosa del tipo germanico né la vitalità avventurosa, spregiudicata e solare del tipo latino, neppure la sensibilità religiosa e misticheggiante che si trova ancora nel tipo slavo, quand'esso si da all'ateismo integrale. L'uomo post-contemporaneo, tollerante perché compiutamente edonista, sembra tutt'altro che feroce. Come «uomo comune» è a suo modo andato «al di là» del bene e del male; ma nel senso che ha smarrito il significato dell'uno e dell'altro, che è regredito al di qua di essi. Ciò era necessario perché il liberalismo (e dal canto suo anche il comunismo che ne fu figlio ma non destinato ad «evirare il padre») risolvesse l'etica nell'economia.
Dire allora che l'uomo post-contemporaneo è peggiore del Superuomo non è un paradosso ma una constatazione di fatto.
Post-fascismo e post-comunismo dovrebbero dunque, almeno tendenzialmente, ritenersi peggiori di fascismo e comunismo.
Non ci si esprime con questa cautela per non scandalizzare il lettore, ma per una precisa ragione di ordine euristico, in quanto non è lecito escludere a priori la possibilità che in potenza essi siano la stessa cosa o addirittura migliori.
In breve, si deve ammettere la possibilità di una «democrazia» diversa dalla demagogia dei regimi totalitari di questo secolo, e in pari tempo diversa dalla «democrazia liberale»; la quale, per quanto si è detto, è sicuramente la forma peggiore della demagogia e della tirannide, perché la più «progressiva», la più sofisticata e atta a suscitare il consenso ottundendo le coscienze col monopolio dei mezzi di informazione di massa e col mito consumistico di stampo americano. Non si tratta di un'ammissione puramente teorica, perché, diversamente, si dovrebbe rinunciare a qualsiasi speranza. Che è quanto dire alla volontà di resistere alle forze disgregatrici che al momento sembrano comunque avere ancora il sopravvento, soprattutto in Europa.
Questa idea di «resistenza» potrebbe trovarmi consenziente allo spirito del Venticinque Aprile; come anche quella che vorrebbe vedere in questa importante ricorrenza non già la vittoria sul fascismo, ma la vittoria contro il totalitarismo, quindi anche contro il comunismo e, quanto meno, contro una certa concezione meramente economicistica del liberalismo. Il che mi pare problematico per due motivi. Anzitutto, nonostante i funambolismi della critica storica più recente, io resto dell'idea che la vera resistenza al fascismo fu opera del comunismo, essendo stato il contributo delle altre componenti politiche (con esclusione forse di quella socialista) dettato da intendimenti nella sostanza restaurativi; massimamente in quella apparentemente più progressiva, la componente «azionista», repubblicana e illuminata dietro la quale si annidavano gli interessi degli industriali del Nord che assai bene avevano saputo barcamenarsi, con l'appoggio dei Tedeschi, sotto il governo della RSI. In secondo luogo, il tono della celebrazione di questo Venticinque Aprile e certi episodi a cui ho assistito personalmente, determinati anche dal clima della recente campagna elettorale, mi hanno convinto che gli eredi del comunismo non intendono rinunciare a quelli che io chiamo senza ironia i loro «diritti storici». Si è continuata a battere la grancassa dell'«antifascismo» per questioni non disprezzabili di «identità». Ciò è comprensibile presso la base, ma è inammissibile presso non pochi e prestigiosi dirigenti della Quercia come l'On. Violante. È una fortuna che da simili atteggiamenti di immaturità culturale oltre che politica si sia sempre astenuto l'On D'Alema. Egli conosce bene la storia del suo partito ed è fra i pochi ad avere inteso il senso della posizione a suo tempo assunta da Palmiro Togliatti nei confronti del fascismo, non solo all'epoca, forse sospetta, della Guerra di Spagna e del fascismo vincente, ma dopo la sua sconfitta, quando si oppose decisamente ai rigori della vendetta e dell'epurazione. Non si può non augurarsi che l'On. D'Alema rimanga a capo del PDS abbastanza a lungo da imprimere un ritorno, mutatis mutandis, alla linea di Togliatti, a quella «via nazionale» al comunismo che ai suoi tempi era ardua da praticarsi, e oggi, invece, continua ad esserlo soprattutto per la cecità degli uomini, per aver assunto i comunisti, specie ai vertici, tutti i vizi connessi alla gestione del potere in una società, quasi integralmente imborghesitasi, in una società in cui la propria identità la si riesce a cogliere ancora soltanto in termini di odio e di rigida contrapposizione, nei termini, cioè, del peggiore fascismo di cui si pretenderebbe di essere i correttori istituzionali. Non va al riguardo taciuto anche che gli intellettuali comunisti, e post-comunisti, lamentano la scarsa sensibilità popolare, specie nelle giovani generazioni «sciaguratamente attratte dalla destra», verso i «valori» della Resistenza su cui in ogni caso si fonda la legittimità etico-giuridica della Repubblica Italiana. Fra questi intellettuali merita una menzione particolare l'esteta e discepolo di Pasolini: intendo quell'Enzo Siciliano che mostra di avere inteso la lezione pasoliniana e gramsciana quanto l'On. Violante, gran teorico della lotta alla mafia, ha inteso quella togliattiana (per non parlare di quella gramsciana). Se questa coscienza popolare dei valori della Resistenza è scarsa per cui occorre stimolarla con manifestazioni di piazza accompagnate da indesiderati ma rituali atti di violenza verso fascisti veri o presunti, la colpa non è forse di coloro che di fatto, per almeno quarant'anni, hanno esercitato una incontrastata «egemonia culturale»? Perché nella Scuola italiana la storia si studia poco e male? Perché si è consentito che molto raramente, e solo per iniziativa spontanea di alcuni insegnanti, si studiasse con un minimo di serietà la storia dell'Italia fascista, della seconda Guerra mondiale, dell'antifascismo e della Resistenza? Perché si continua a deplorare che nelle scuole non si insegni affatto l'Educazione civica? Non mi risulta che in Parlamento si sia mai dibattuto su questi problemi che sono la vera origine di tutti i problemi e le contraddizioni della società. Ben strano è stato il modo con cui gli intellettuali comunisti hanno messo in pratica la gramsciana egemonia culturale. Se ne sono serviti, piuttosto, anziché servirne scrupolosamente l'idea.
Riprendendo la questione della verità storica sulla Resistenza, occorrono alcune precisazioni riguardo ai motivi per i quali si è detto, secondo una linea decisamente controcorrente, che la Resistenza fu opera non solo di una minoranza, ma della minoranza effettivamente rivoluzionaria dei comunisti, poi costretti dalle decisioni di Yalta ad una politica che non poteva non degenerare alla fine nel consociativismo, nell'inestricabile groviglio di contraddizioni e vere e proprie complicità col potere democristiano che solo adesso si manifesta come un processo inerziale di svuotamento di identità politica e, di conseguenza, di capacità di analisi e dunque autenticamente propositiva (al riguardo non si possono sottovalutare le più o meno occulte relazioni del PCI col capitalismo illuminato che andranno man mano prendendo corpo nella linea azionista occhettiana e sono ancora presenti e attive nell'ala del PDS facente capo a Veltroni, il quale, non a caso, si mostra nei confronti di un Prodi assai più condiscendente che non l'On. D'Alema; quanto al recente pellegrinaggio di quest'ultimo alla City di Londra, l'apertura di credito della grande finanza nei suoi confronti sarà verificabile, a prescindere dalle interpretazioni della stampa, dalla misura in cui diminuirà o non diminuirà la fluttuazione della Lira sui mercati; ed è presumibile che, nell'eventualità negativa, quasi certamente si verificherà quello che in un suo articolo su "Aurora" Landolfi ha definito come il «ritorno dell'Akèl»).
La prima delle precisazioni sulla verità storica della Resistenza riguarda la composizione del CLNAI, dove la «minoranza della minoranza» -cioè i non comunisti- rappresentavano proprio quelle forze della conservazione, di matrice essenzialmente liberale, che avevano, costituito la palla al piede del fascismo durante il Ventennio, quelle stesse che in un primo momento -si pensi alla primitiva presa di posizione di Benedetto Croce- avevano visto nel movimento mussoliniano un mero episodio funzionale al consolidamento dello Stato liberale, e non invece un fattore potentemente eversivo, quale era in effetti, come comprese subito Lenin fin dal tempo dell'impresa fiumana di D'Annunzio, e come non ignorava lo stesso Stalin quando, all'inizio della seconda Guerra mondiale non esitò a sottoscrivere il famigerato Patto Ribbentrop-Molotov. Un'eccezione andrebbe ammessa per i resistenti cattolici, più o meno dello stesso ordine di quella che occorre fare per i socialisti, perché sia fra gli uni che fra gli altri si trovavano frange che rifiutavano per principio, qualsiasi intesa col liberalismo, e che, dopo la guerra, verranno emarginate, né più né meno di come accadrà, nonostante gli sforzi di Togliatti, ai repubblichini di sinistra.
La seconda precisazione riguarda le finalità rivoluzionarie dei resistenti comunisti (di cui esistono prove inconfutabili) e che non possono essere messe in discussione dalle decisioni di Yalta in quanto, a parte ogni considerazione di priorità cronologica, è impensabile che un Togliatti, che era di fatto il numero due della Internazionale dopo Stalin, potesse consentire, in nome del rispetto dei trattati sottoscritti con le Potenze capitalistiche, a rinunciare persino alla possibilità di una rivoluzione italiana, rinuncia che peraltro non conveniva neanche a Stalin, se non pro tempore. Una prova storica della temibilità delle formazioni partigiane comuniste in vista di una loro possibile alleanza coi repubblichini e forse con lo stesso Mussolini per finalità rivoluzionarie, a mio parere è costituita dalla drastica sospensione dei rifornimenti angloamericani ai partigiani durante l'inverno del '44. Non si voleva correre il rischio che i partigiani infliggessero ai Tedeschi sconfitte tali da indurre una sollevazione dei fascisti di sinistra contro gli odiati Tedeschi «che tenevano in ostaggio» Mussolini. Non si voleva che l'Italia settentrionale fosse liberata da forze italiane non badogliane e senza il concorso determinante e massiccio delle armate alleate.
La terza precisazione riguarda la partecipazione popolare «di massa» alla Resistenza. Non mi sentirei affatto di enfatizzarla come ha nella sostanza fatto Scoppola in una celebrazione televisiva, trasmessa peraltro a tarda ora. Non considerando l'apporto della classe operaia egemonizzata dal Partito comunista, se resistenza di massa ci fu, essa non andò oltre la resistenza passiva che ragionevolmente ci si può attendere da una popolazione gravata da furibondi bombardamenti, dalla fame, dal disorientamento spirituale, al limite della nevrosi, determinato dagli orrori della guerra civile. I nostri vecchi che hanno vissuto come combattenti due guerre mondiali e da bambini hanno visto il terremoto di Messina, dicono di aver terrore solo di due cose: del terremoto, e della guerra civile.
Se come sostiene Sergio Cotta (1), «movimento di massa, la Resistenza lo fu nel significato più semplice dell'espressione, poiché suscitò adesione larghissima e socialmente indifferenziata», ciò è vero in quanto la maggioranza della popolazione desiderava la fine della guerra come si può desiderare la fine di uno stato di completa anormalità e di un incubo vissuto ad occhi aperti. Io sono persuaso che la maggioranza della popolazione, divisa in una larga parte disperata e in una parte non molto esigua che ancora era presa dal fascino carismatico di Mussolini, abbia subito l'egemonia dei comunisti e, in secondo luogo ma indirettamente, tramite i comunisti, quella degli azionisti di Giustizia e Libertà, che costituivano la seconda forza della Resistenza propriamente militare. In questa prospettiva è allora da respingersi la tesi degli studiosi di parte liberale, i quali sono portati ad enfatizzare questa partecipazione di massa «minimale», volendovi scorgere un'adesione spontanea e per così dire «naturale» ai principî fondamentali della democrazia propria allo Stato pre-fascista, come è riscontrabile ad esempio in Federico Chahod, il quale, discutendo alcuni dati sui reparti partigiani operanti in Piemonte, conclude che essi «hanno un valore indicativo di un fatto già largamente noto: e cioè che tutte le classi sociali parteciparono alla Resistenza». (2)
La citazione di Chahod permette di toccare il problema della consistenza numerica dello esercito partigiano, che i dati ufficiali fanno ammontare a ben 200.000 unità. Io credo che si tratti di una cifra assai gonfiata e che comunque, se fosse rispondente al vero, sarebbe una prova a fortiori della diffidenza degli Angloamericani nei confronti dei partigiani, a cui prima si era accennato. Una decina di anni fa conobbi in treno un anziano maresciallo della PS, il quale mi informò che qualche giorno dopo il 25 aprile '45 i Comandi partigiani distribuirono una tessera di appartenenza ai GAP al prezzo di £. 500, il possesso della quale dava diritto a ricevere un pacco viveri del valore di £. 20.000 circa. Non so se la cosa sia vera, e se qualcuno dei nostri Lettori potesse darmi notizie al riguardo gliene sarei grato -e non solo io, credo-.
Per concludere sulle puntualizzazioni relative alla verità storica della Resistenza per quanto concerne segnatamente il collegamento dell'antifascismo vero e presunto delle «masse» con quello vero e non presunto della borghesia liberale la cui punta più avanzata era il Partito d'Azione e le formazioni di Giustizia e Libertà, mi sembra opportuno riportare il brano seguente di Emilio Sereni, che si segnala per la obiettività e per la quasi totale assenza di faziosità.
«Un rapporto nuovo fra rivendicazioni democratiche e rivendicazioni socialiste, fra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista, in realtà, può affermarsi solo la dove una ben più avanzata maturazione dei rapporti capitalistici e imperialistici propone alla società, come temi immediati e attuali, non già quelli di una rivoluzione democratica borghese, bensì quelli di una rivoluzione democratica antimperialista, antimonopolistica: nelle quali le libertà popolari, una nuova democrazia, debbono essere conquistate non già essenzialmente, nel contrasto con vecchie classi dominanti semifeudali, e con il loro Stato, bensì proprio nello scontro con gruppi dominanti, ormai attestati nelle cittadelle stesse del moderno capitalismo monopolistico». (3)
Questo brano del comunista Sereni suona come una vera e propria autocritica della politica «di fronte» inauguratasi con la «svolta di Salerno», svolta cui Togliatti fu obbligato da motivi di contingenza storica, che ebbe però tanto chiari da assumere in seguito posizioni di relativa apertura nei confronti del fascismo di sinistra, e più in generale un atteggiamento cauto verso i rigori dell'epurazione. La critica marxista più accorta degli anni Cinquanta-Sessanta sostiene concordemente i limiti di quell'unità antifascista totale e indiscriminata che la necessità impose all'epoca della Resistenza, e che continuerà ad imporre fino alla caduta del Muro di Berlino con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Il marxismo posteriore agli anni Sessanta sarà sempre più condizionato dallo spirito frontista dei governi di «unità nazionale», e risulterà talmente inquinato dall'azionismo da consentire la Segreteria del PCI a un personaggio come Achille Occhetto. Sicché oggi, nonostante il venir meno della necessità storica con il crollo dell'Unione Sovietica, la via per un ripensamento della strategia degli eredi del PCI -via che passa obbligatoriamente per la riconsiderazione della Resistenza e del significato dell'antifascismo come antitotalitarismo- appare ancora preclusa. Certo, la posizione di un D'Alema lascia aperto qualche spiraglio alla speranza. Né si deve dimenticare la grande disponibilità al dialogo con la Sinistra Nazionale mostrata dal Sindaco pidiessino di Reggio Calabria, prof. Italo Falcomatà, in occasione dell'apertura del Circolo culturale "Nicola Bombacci" nella città dello Stretto. Il suo intervento, riportato in una dettagliata sintesi sulla "Gazzetta del Sud", avrebbe dovuto essere attentamente meditato da quanti interessatamente, o soltanto istintivamente, si attardano in un retorico antifascismo che confonde le nostre posizioni con quelle di Alleanza Nazionale se non addirittura il nostro socialismo nazionale col nazionalsocialismo (sic!). È invece proprio da una autentica per quanto sofferta apertura al confronto coi fascisti che il post-comunismo ha l'opportunità, storicamente nuova, e feconda come non mai, di correggere i limiti del frontismo denunciati da Sereni e dai più avveduti critici marxisti negli anni Cinquanta-Sessanta: l'opportunità di farla finita una volta per sempre con l'«azionismo», che è quanto dire, tuttavia, con le radici borghesi e liberali del marxismo, dichiarate nel "Manifesto" laddove Marx afferma essere il proletariato «figlio» della borghesia.
Questo va detto, con la massima chiarezza agli amici pidiessini e comunisti di Rifondazione. A questi ultimi, che sono per noi interlocutori privilegiati, desidero dire che solo a queste condizioni è possibile «rifondare» il comunismo. E -perché no?- lo stesso fascismo. In maniera seria, senza ricorrere alle fumosità verbali di termini contenitore come «post-comunismo» e «post-fascismo». È vero, bisogna «vincere la battaglia delle parole», come sostiene Costa. Ma vincerla restituendo chiarezza concettuale alle parole.
Occorre sforzarsi di troncare tutti i ponti con la borghesia. Almeno per quanto attiene al «modo di pensare», perché al momento non si può né si deve fare altro che esuli dal civile confronto nel più assoluto rispetto del dettato della Costituzione; che va difesa decisamente contro ogni frettoloso tentativo di riforma (per intanto combattendo la abusata pratica pannelliana -e non solo pannelliana- di richiedere dei referendum per questioni di interesse comune, ma in realtà inerenti le borghesi libertà individuali, le quali con lo spirito comunitario hanno ben poco da spartire come tutto ciò che è esclusivo ed egoistico, a meno che, come Mandeville e Kant -che erano borghesi e liberali- non si creda alla «favola delle Api» e alla «socevolezza insocevole»).
Se gli amici del PDS e di Rifondazione vogliono veramente far qualcosa per non arrendersi del tutto davanti al liberalismo vincente, ebbene, che ci aiutino a far attuare il Dettato costituzionale sulla socializzazione. Sarà l'occasione migliore per confrontarsi anche sul tema del superamento della mentalità borghese. Certo, ciò è impensabile alla luce dei principî del «materialismo storico». Ma non sono forse essi che hanno finito col subordinare tutti, con danno di tutti, alle ferree leggi dell'economia, in ultima analisi come il crollo del comunismo sovietico ha dimostrato, all'economia capitalistica, anzi monopolistica e usurocratica?
Ciò sarà possibile solo riprendendo la «via nazionale» al comunismo di Palmiro Togliatti. La «nazione» esiste. Non come «razza», ma come lingua e «tradizione». Tradizione che è, in definitiva, la tradizione religiosa di un popolo, poiché «religio», etimologicamente, è «ciò che mantiene unito». La reale disponibilità dei nostri amici del PDS e di Rifondazione per una rivoluzione culturale antiborghese si misurerà pertanto sui temi della difesa della vita (contro l'aborto, la fecondazione artificiale e la manipolazione genetica, nonché contro la licenza e mercificazione sessuali), della famiglia (contro il matrimonio omosessuale e contro tutte quelle libertà femminili che oggettivamente costituiscono un limite per l'assistenza e la cura dei figli, nonché per l'armonia e la serenità della vita familiare), della società, infine, nella misura in cui si sarà in grado di proporre una cultura seria e veramente alternativa, attraverso la rinascita della scuola e la ripresa di tutte quelle attività di educazione popolare, anche «ricreative», di cui il vecchio PCI di Togliatti seppe essere intelligente promotore.
Ma tutto ciò non può prescindere da una reale difesa dello Stato sociale. Tutti dovremmo meditare sul significato altamente positivo dell'affermazione dei socialisti in Francia. 
E qualcuno dovrebbe considerare che in Francia anche la destra moderata difende lo Stato sociale. Se i socialisti, come mi auguro, vinceranno, non entrerà in crisi quell'éntente franco-germanica da cui dipendono i destini della futura unità politica dell'Europa: non vincerà l'America e l'americanismo, ancora una volta.

Francesco Moricca

Note:

(1) S. Cotta: «Lineamenti di storia della Resistenza italiana nel periodo dell'occupazione» in "Rassegna del Lazio", Roma, 1964
(2) F. Chahod: "La Resistenza italiana", Torino, 1966, pp. 68-69
(3) E. Sereni: «Appunti per una discussione sulle politiche di Fronte Nazionale e Popolare» in "Critica marxista", marzo-aprile 1966, pp. 6-28

 

 

articolo precedente indice n° 26 articolo successivo